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La Guerra spiegata ai bambini

| Contributo della scrittice Nicoletta Vallorani sulla guerra, partendo dall'analisi degli scritti di grandi autori.

di Nicoletta Vallorani*

C'è uno scrittore americano ormai novantenne che amo molto perché mi pare abbia capito parecchie cose della vita e della nostra storia attuale. Si chiama Kurt Vonnegut Jr. e vive a Schenektady, nello stato di New York. Era lì quando le Twin Towers si sono ridotte in polvere, e c'era anche il 15 febbraio 2003, quando le strade di Manhattan si sono riempite di gente che imbracciava cartelli variopinti e sventolava bandiere arcobaleno. Parecchi anni fa, quando era ragazzo e la II guerra mondiale sanguinava come una ferita ancora aperta – per quanto medicata dall'intervento americano in Europa – Vonnegut scrisse un romanzo su tutte le guerre e sui massacri che esse inevitabilmente producono. Il romanzo si chiamava Mattatoio N.5. La parte più bella, struggente, crudele e indimenticabile della vicenda è la sezione che descrive il bombardamento di Dresda, una città meravigliosa  rasa al suolo – con gli abitanti dentro, come spesso accade nelle guerre - in un raptus di follia collettivo che sul momento si definì pulizia etnica in nome della razza ariana, mentre più tardi, quando spirava un'aria diversa, venne chiamato  genocidio.

Il cambiamento della definizione, naturalmente, non cambiò la natura dei fatti, così come essi vengono descritti nel romanzo: un macello insensato visto attraverso lo sguardo di un soldato semplice americano, prigioniero di guerra in un mattatoio e incapace di comprendere perché mai ci si dovesse massacrare a vicenda in nome di ragioni politiche per lui incomprensibili. Il soldato, tra parentesi, ricorda molto da vicino il Forrest Gump che molti di noi hanno imparato ad amare attraverso il film omonimo di Zemeckis una persona di una linearità assoluta  - del genere che di solito si definisce “idiozia” – capace proprio per questo di arrivare al centro delle vicende e delle persone senza troppe inutili complicazioni.

Nel primo capitolo di Mattatoio N.5, il narratore della storia ci spiega come si sia documentato per scrivere il romanzo. Tutti gli scrittori nordamericani – da Stephen King a Jeffrey Deaver – si documentano prima di scrivere qualcosa, dunque, dal punto di vista della cultura statunitense, non c'è nulla di strano in questo. Quello che colpisce, invece, è la conclusione alla quale il narratore arriva dopo aver parlato con una serie di reduci del bombardamento di Dresda e della guerra in generale: pur essendo partito dall'intenzione di scrivere un libro indimenticabile sul secondo conflitto mondiale, alla fine la voce che ci racconterà la storia ci confessa che, comunque sia, non c'è nulla di intelligente da dire sulla guerra. Alla stupidità umana non si sfugge, e i conflitti bellici ne sono l'epifania più efficace. Opporsi a essi, dunque, non è una questione politica. Al contrario, con l'impiccio di compromissioni, negoziazioni e  contratti che contraddistinguono le trattative tra paesi non ha nulla a che fare, perché è molto di più. Essa rappresenta, cioè, una questione etica

Billy Pilgrim, il protagonista naif di Mattatoio N.5, è un bel personaggio, perché è una voce che somiglia a tutti, o a quello che siamo quando non vogliamo giocare a essere Rambo. E' un po' come Massimo Troisi in – mi pare - Ricomincio da tre, quando parla di tortura e dice che a lui non è necessario torturarlo perché parli: è sufficiente che gli dicano che forse lo tortureranno, e lui è già pronto a parlare.

Nel Manuale del Perfetto Giovane Soldato, questo è un comportamento da vile: se anche ti viene di pensare una cosa del genere è meglio che non la dici, altrimenti ti mettono alla gogna. Soprattutto se sei un uomo. Niente niente, se ti permetti di dire che non vuoi risolvere un conflitto a pugni, ti accusano di essere una femminuccia – insulto imperdonabile, sembra, nella nostra cultura di oggi come in quella di ieri, attraverso il quale si definisce una povera, fragile creatura vittima della sua emotività e incapace di controllare razionalmente la sua vita.

Proprio a una donna però, e per giunta di parecchi anni fa, si deve la dimostrazione logica, perfettamente organizzata, del tutto rigorosa e inoppugnabile di un fatto che ancora oggi sembra difficile da digerire:  i veri uomini sono quelli che alla guerra non ci vanno.

Nel 1938, in un testo oggi conosciuto col titolo di Le tre ghinee, Virginia Woolf risponde alla richiesta di finanziamento da parte di un giovane intellettuale progressista che la invita a versare del denaro a favore di un'associazione di supporto ai profughi, presentati – com'è giusto – come vittime innocenti che non devono pagare il prezzo di una guerra non voluta da loro. Virginia – progressista anch'essa e in parte anche interessata a mantenere il favore dei suoi colleghi intellettuali e maschi – dimostra invece più coraggio di certi uomini di sinistra di oggi e rimane coerente col suo impegno contro ogni genere di guerra, rifiutando di fornire questo finanziamento, perché aiutare i profughi – o votare a favore di un aumento di stipendio ai soldati che partono per l'Afghanistan, come si direbbe oggi -  servirebbe ancora a sostenere l'ideologia che ha prodotto questo modo di risolvere i conflitti tra nazioni. Queste tre ghinee – suggerisce Virginia – vanno usate per promuovere una cultura di pace, che non può essere maschile. La guerra, ci viene insegnato, è un modo per canalizzare e rendere socialmente ‘inoffensiva' la naturale aggressività del sesso maschile; dunque, è corretto affermare – prosegue Virginia – che gli uomini vanno in guerra e sempre lo faranno perché non sono in grado di controllare la loro aggressività. Le donne, invece, non sono meno coraggiose, ma più pacifiche perché più sagge e più razionali. Non hanno bisogno di guerre, loro, perché hanno imparato altri modi per cavarsi fuori dai pasticci.

Naturalmente, nella vita reale le cose non stanno proprio così, ma quella di Virginia Woolf è una ‘semplificazione' che aiuta a capire. Anche in questo caso, il discorso importante sulla guerra è  etico, non politico. Riguarda cioè la sanità mentale e l'integrità dell'essere umano come creatura pensante. E ci porta anche un po' più vicini alla verità. La nostra verità – quella mia, dei miei studenti, della mia portinaia o del panettiere o del gestore dello stabilimento balneare o del barista dell'angolo – è che questa guerra come tutte le altre la pagheremo noi, coi nostri denari che usciranno dalle nostre tasche per non rientrarci in nessuna forma (non è mai l'uomo comune a trarre vantaggio dai conflitti) e col peggioramento generale del nostro sistema di vita (chi è venuto a raccogliere le ‘Cluster bombs'  ancora abbandonate nel Mediterraneo dopo il conflitto nella ex-Yugoslavia). E i nostri figli dovranno vedere in televisione bambini altrettanto innocenti (non) sopravvivere nelle strade di Baghdad: dal punto di vista di chi ci rimane sotto, le bombe sono sempre bombe, chiunque sia il mittente.

Ho due figlie, una di nove e una di sei anni appena compiuti. Fanno tante domande, come sempre succede alla loro età, e alcune riguardano questa particolare, dolorosa contingenza storica. La nostra posizione è forse ben descritta dal fatto che la piccola sa scrivere il suo nome, quello di sua sorella, mamma, papà, e pace in italiano, francese e inglese. Domenica scorsa abbiamo disegnato insieme una bandiera (un'altra l'avevamo comprata prima che venderle diventasse un business). Mi piacerebbe esser capace di spiegare loro la necessità di questa guerra (o perché qualcuno la ritiene eticamente necessaria), ma non mi riesce. E' davvero qualcosa che non capisco, e per come la vedo io si possono spiegare bene solo le cose che si sono ben comprese. Sono un'insegnante figlia di insegnanti, e questa cosa la so con chiarezza.

Dunque non spiegherò alle mie figlie – né a nessun altro – perché bisogna andare a bombardare un tiranno (perché un tiranno lo è, non ci sono dubbi, ma forse bisognerebbe discutere di chi lo ha aiutato a diventare tale). Siccome la necessità della pace mi è ben chiara, su questo mi sento di sbilanciarmi. E da donna comune, mi piacerebbe che i politici del mondo rispettassero questa consapevolezza pacifica, mia e di chiunque altro: che non mi prendessero in giro, cioè, spacciandosi per quello che non sono, e che la smettessero di giocare coi numeri e con le persone, perché credo che siano lì per prendere atto della maggioranza, e per farsi carico delle sue richieste, perché è il motivo per cui sono stati eletti.  Mi piacerebbe, cioè, non trovarmi a raccontare, tra qualche anno e con gli occhi di Billy Pilgrim, la storia di un'ennesima colossale idiozia alla quale, per eccesso di coraggio, non siamo stati capaci di sottrarci.

 

* Scrittice

05/03/2003





        
  



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