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Piazze e piazzisti

| Quando la piazza si chiamava agorà, oppure era il foro con la sua affaccendata centralità nel tessuto cittadino, erano tempi di cultura e socialità diverse.

di Benedetta Trevisani

Quando la piazza si chiamava agorà, oppure era il foro con la sua affaccendata centralità nel tessuto  cittadino, erano tempi di cultura e  socialità diverse. L'incontro con la gente avveniva lì, nel cuore della città, dove si svolgevano i riti del vivere in comune con un forte sentimento di partecipazione a pratiche sociali ordinarie.

Negli esami di stato del 2001, per la prova scritta di italiano, il Ministero della Pubblica Istruzione tra gli altri argomenti ne dedicava uno alla piazza come luogo dell'incontro e della memoria. Argomento che non ha trovato grandi adesioni tra gli studenti, forse perché i giovani hanno oggi altri spazi di incontro e il percorso all'indietro della memoria non li interessa più di tanto. Proprio questa idea si trovava espressa in W. Gropius,  Discussione sulle piazze italiane, dove l'autore riferiva che secondo i suoi studenti una piazza circondata da portici appartiene al passato e non è adatta alla vita di oggi. Di parere contrario M. Dini che parlando del Centro culturale George Pompidou progettato da Renzo Piano definisce la 'piazza' come spazio che ospita attività non programmate, spontanee e in questo senso diventa una propaggine del laboratorio culturale; ne interpreta e ne rafforza la vocazione popolare. Ed abbiamo nella nostra provincia esempi ragguardevoli di antiche piazze che non sono semplicemente luogo d'incontro, ma salotti accoglienti per il vivere cittadino. Penso ad Ascoli con la sua splendida Piazza del popolo, penso a Offida e a Fermo.

Oggi la piazza sempre più spesso si presta per eventi straordinari, manifestazioni eclatanti  che mirano a richiamare l'attenzione su temi, problemi, battaglie del momento. E di lì passa un po'  tutto; dai girotondi all'esibizione dell'orgoglio omosessuale,  dalla marcia per la pace alla difesa dei diritti del gatto. Per questo c'è chi non sopporta la piazza in quanto luogo di piazzate, di populismo gratuito o a buon mercato, dove ci si illude di poter essere alternativi rispetto ai luoghi deputati alla politica seria, cioè il parlamento e le sedi dei partiti, all'esercizio della giustizia, cioè le procure e le aule dei tribunali, al dibattito culturale che una volta aveva vita anche nei salotti e nei caffè e oggi trova nella piazza televisiva  uno spazio di divulgazione spesso confusionario o poco promozionale, quando addirittura non affoga nel dozzinale clima salottiero di certi studi televisivi.

La democrazia, intesa come momento superiore di partecipazione, come espressione di una fondamentale dialettica della comunicazione, probabilmente ha poco a che fare con questo fenomeno ricorrente delle grandi ammucchiate per mettere in piazza idee, dissapori, umori  e malumori.   Tuttavia le consente come forma di espressione libera e comunicativa proprio nel momento in cui ne misura la distanza da altre ammucchiate storiche che avvenivano all'insegna del pensiero unico.  E d'altra parte perché scandalizzarsi per  quelle folle che ovunque nel mondo  delle democrazie si mettono in piazza  attraversando come fiumi multicolori le città democratiche e scandendo con vivacità liberatoria gli slogan della battaglia del momento, se nella confusione dei ruoli e dei significati può capitare che artisti di piazza diventino politici e i politici diventino piazzisti?

27/04/2003





        
  



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