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Occhi aperti / Occhi chiusi

| Note su cinema e dintorni

di Dante Albanesi

Occhi aperti
Scorsese e la musica delle catene

"Il Blues": sette documentari musicali firmati da sette grandi registi. Dopo il primo episodio della serie, lo struggente Wim Wenders di "The Soul of a Man", giovedì 18 dicembre alle ore 21.30, per la rassegna "Immagini inattese" organizzata dalla Fondazione Bizzarri, sarà proiettato al cinema Calabresi il secondo episodio: "Dal Mali al Mississippi" di Martin Scorsese. Dalle rive del fiume Niger in Africa, fino ai campi di cotone sul Mississippi, alla ricerca delle radici del blues…
Vi sono musiche che raccontano un viaggio, che sembrano trasportare l'ascoltatore verso luoghi remoti e inaspettati. Quello del blues è però un viaggio forzato, la strada della deportazione, del lavoro in catene, della schiavitù. È la musica di chi non può fuggire, di chi cerca di imbrogliare il tempo convertendolo in ritmo, di dimenticare il lavoro trasformandolo in danza, di cancellare i ricordi diluendoli in favola. Scorsese, poeta dei vicoli umidi senza luce e delle notti labirintiche, scopre che anche uno spazio sconfinato può essere una prigione; che anche un raggio di sole, quando batte sulla schiena, può essere una frusta. Il blues che racconta è il suono del fango e del sudore, l'ultimo diritto concesso all'ultimo degli schiavi. Comunicare.

Occhi chiusi
"Natale in India", il calcio, il popolo

In gergo si chiama "cinepanettone" e non ha bisogno di comunicati stampa, di pubblicità, di promozioni. L'adunata è spontanea e (come si diceva un tempo) oceanica. La folla che una volta all'anno spegne la televisione e decide di andare al cinema si riunisce in blocco nella settimana di Natale e in blocco va a vedere lo stesso film. Dove ci sono sempre gli stessi attori, si seguono sempre le stesse scene, e si ascoltano le stesse canzonette sorbite per un anno alla radio e in discoteca. È solo lo sfondo geografico a cambiare.
Di solito si tende a perdonare la sconfortante bruttezza di film come "Natale in India" con un giudizio buono per tutte le stagioni: "È cinema popolare." Ma allora chiediamoci: cosa è veramente "il popolo"? Pensiamo ad un altro spettacolo popolare: il calcio. Il tifoso va allo stadio conoscendo a memoria la classifica, tutti i risultati precedenti e i marcatori, le partite che si stanno svolgendo negli altri stadi e gli arbitri che le dirigono, i giocatori che sono in campo, quelli che resteranno in panchina, quelli lasciati in tribuna, gli infortunati e gli squalificati… Lo spettatore di cinema invece, al momento di comperare il biglietto, a malapena ricorda il nome degli attori protagonisti (per non parlare del regista).
Da dove nasce questa mostruosa disparità di competenze? Da un potere televisivo e giornalistico che, nel corso di anni e decenni, ha ritenuto politicamente ed economicamente opportuno di forgiare un'udienza calcistica ipercritica e iper-informata, nutrendola 24 ore su 24 di articoli, programmi, discussioni, cronache e siparietti vari completamente asserviti al calcio. Quello stesso potere che, su sette canali nazionali, non concede neanche un programma dedicato alla critica cinematografica.

Ecco perché questo famoso "popolo" non sarà mai un concetto astratto: ogni società e ogni regime culturale ha il popolo che si merita. Quello del calcio è fatto di appassionati competenti; quello del cinema, di consumatori rassegnati. Al peggio. 

17/12/2003





        
  



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