Servirà a qualcosa la protesta dei magistrati
| Una riflessione sulle ragioni del malumore e dello sciopero di martedì 25 maggio
di Ettore Picardi
Nelle giornate di quelli che fanno il lavoro di magistrati si affaccia spesso la stanchezza per non poter mai davvero chiudere la giornata. Perchè non si è legati tanto ad orari e scadenze ma c'è sempre incombente la mole di lavoro e decisioni che bisogna svolgere. Significa che prevale il concetto di responsabilità su quello di obbligo, ovvero si deve garantire il funzionamento di un servizio con modalità scelte legalmente ma discrezionalmente piuttosto che garantire un quantitativo predeterminato di ore e risultatiti statistici.
Ciò provoca la stanchezza per non riuscire facilmente a staccare la spina, a dimenticare il lavoro: manca un orario di chiusura materiale dell'esercizio. Peraltro così nasce la passione civile per una funzione difficile quanto interessante ed importante. Il discorso ovviamente presuppone che si parli di magistrati che siano abitati dal senso della responsabilità e si impegnino a dovere.
La premessa ci conduce a capire perchè una categoria del genere arrivi a proclamare uno sciopero non per rivendicazioni economiche o di stretto contenuto sindacale, bensì per tutelare la ragione prima della propria esistenza, la possibilità di esercitare efficacemente la funzione giurisdizionale.
La prima precisazione doverosa è che quello di martedì 25 maggio non è uno sciopero politico. La magistratura non ha alcuna intenzione di entrare nella dinamica degli schieramenti e delle ideeologie (ammesso che da qualche parte ne sopravvivano), favorendo e sfavorendo gli uni o gli altri. La volontà è quella invece di preservare da riforme sbagliate coloro che sono interessati al servizio giustizia, ovvero tutti. Se poi ci sono magistrati politicizzati ovviamente sbagliano, a prescindere. Qui però si descrive l'intenzione dei più che è corretta e rappresenta l'impulso della protesta.
Le riforme proposte e prossime all'approvazione appaiono in gran parte punitive di una categoria che spesso ha infastidito i centri di potere meno democratici del paese. Tant'è che le innovazioni tendono soprattutto ad istituire controlli esterni, attraverso farraginose modalità di accesso e progressione in carriera: modalità che spostano i poteri verso soggetti di nomina politica o verso una gerarchizzazione della magistratura, quindi un suo più facile controllo.
Il punto dove più grande è la confusione riguarda la progressione in carriera, le volgarmente dette "promozioni" di giudici e pubblici ministeri. Si può non tanto dire quanto vale in assoluto un giudice, ma forse si può dire se sia più adatto ad una specifica funzione, soprattutto se direttiva (lavoro del tutto diverso da quello giudiziario, presupponendo capacità organizzative oltre che teorico-giuridiche).
Il problema origina dall'impossibilità di comparare le qualità dei magistrati, che svolgono un lavoro dove raramente c'è certezza del diritto e non può dirsi se a sbagliare sia l'uno che decide in un modo o l'altro al contrario. Dove, per la mole di lavoro, l'efficientista sbaglia inevitabilmente tra mille e mille cose ed il perfezionista è bravo ma altrettanto inevitabilmente accumula ritardi catastrofici. Finora il CSM ed i Consigli Giudiziari si sono attenuti all'unico criterio possibile, quello del non demerito.
Ovvero si puniscono o non si promuvono quelli che sono impreparati, inadeguati o lassisti: peraltro non sempre si è agito con la dovuta decisione e trasparenza.
Ora però le riforme proposte vogliono mandare continuamente giudici e pubblici ministeri a scuola e sotto esame. Si creeranno ancora più motivi di assenza legittima dal lavoro. Si rallenteranno i processi per fare belle sentenze e non più sentenze. Si correrà dietro ai potenti per una raccomandazione utile e questo condizionerà l'indipendenza e la serenità, umanissime reazioni che ben conoscono coloro che vivono altri ambienti di lavoro, gerarchizzati e subordinati.
Inoltre, siamo sicuri che il magistrato bravo sia quello meglio preparato teoricamente e basta? Se pensiamo a coloro che più sbagliano o lasciano a desiderare molte volte vengono in mente soggetti la cui preparazione giuridica (ovviamente qualità necessaria, ci mancherebbe) è di assoluto livello: si sbaglia infatti soprattutto per pigrizia, disonestà, mancanza di equilibrio, difetto di capacità organizzativa.
Insomma la riforma proposta vuole imporre un controllo esterno ma non migliorare il modo di valutazione dei magistrati, peraltro difficilissimo se non impossibile quando si tratta di giudizi astratti. Si perfeziona e tipizza poi il sistema disciplinare, già piuttosto severo per le abitudini medie degli altri settori: giusto appare tipizzare alcuni illeciti comportamentali, assurdo però inserire certe categorie di illecito che sembrano introdurre una sorta di divieti di opinione.
Si continua a scavare distanze tra giudici e pubblici ministeri in controtendenza con il resto del mondo giudiziario che mostra di apprezzare sempre di più il concetto che l'organo di accusa sia gestito da soggetti improntati alla cultura dell'imparzialità e non alla mentalità del brutale persecutore.
Pochissimo se non niente si dice sulle ragioni dei disservizi, sulle inefficienze croniche, su come trovare più risorse e personale per l'amministrazione della giustizia. Anzi nuovi e cospicui fondi sono state recentemente distratti dal nostro capitolo di spesa dalla legge che istituisce e finanzia le nuove Provincie di Barletta, Fermo e Monza.
Le promesse di dialogo del governo e del ministro sono cadute nel vuoto della prova dei fatti. Continuano attacchi generici, gratuiti, incomprensibili ai magistrati che, si dice da ultimo, "si fanno male da soli".
Molti appaiono sfiduciati e delusi e l'unico dubbio sulla partecipazione allo sciopero è per alcuni colleghi soltanto legato al fatto che questo possa davvero servire a qualcosa. In realtà è l'unico modo di far sentire civilmente il proprio dissenso su un disastro annunziato: la giustizia del nostro Paese, che già non si sente molto bene e che ancora vorremmo guarire e non seppellire per sempre.
Ciò provoca la stanchezza per non riuscire facilmente a staccare la spina, a dimenticare il lavoro: manca un orario di chiusura materiale dell'esercizio. Peraltro così nasce la passione civile per una funzione difficile quanto interessante ed importante. Il discorso ovviamente presuppone che si parli di magistrati che siano abitati dal senso della responsabilità e si impegnino a dovere.
La premessa ci conduce a capire perchè una categoria del genere arrivi a proclamare uno sciopero non per rivendicazioni economiche o di stretto contenuto sindacale, bensì per tutelare la ragione prima della propria esistenza, la possibilità di esercitare efficacemente la funzione giurisdizionale.
La prima precisazione doverosa è che quello di martedì 25 maggio non è uno sciopero politico. La magistratura non ha alcuna intenzione di entrare nella dinamica degli schieramenti e delle ideeologie (ammesso che da qualche parte ne sopravvivano), favorendo e sfavorendo gli uni o gli altri. La volontà è quella invece di preservare da riforme sbagliate coloro che sono interessati al servizio giustizia, ovvero tutti. Se poi ci sono magistrati politicizzati ovviamente sbagliano, a prescindere. Qui però si descrive l'intenzione dei più che è corretta e rappresenta l'impulso della protesta.
Le riforme proposte e prossime all'approvazione appaiono in gran parte punitive di una categoria che spesso ha infastidito i centri di potere meno democratici del paese. Tant'è che le innovazioni tendono soprattutto ad istituire controlli esterni, attraverso farraginose modalità di accesso e progressione in carriera: modalità che spostano i poteri verso soggetti di nomina politica o verso una gerarchizzazione della magistratura, quindi un suo più facile controllo.
Il punto dove più grande è la confusione riguarda la progressione in carriera, le volgarmente dette "promozioni" di giudici e pubblici ministeri. Si può non tanto dire quanto vale in assoluto un giudice, ma forse si può dire se sia più adatto ad una specifica funzione, soprattutto se direttiva (lavoro del tutto diverso da quello giudiziario, presupponendo capacità organizzative oltre che teorico-giuridiche).
Il problema origina dall'impossibilità di comparare le qualità dei magistrati, che svolgono un lavoro dove raramente c'è certezza del diritto e non può dirsi se a sbagliare sia l'uno che decide in un modo o l'altro al contrario. Dove, per la mole di lavoro, l'efficientista sbaglia inevitabilmente tra mille e mille cose ed il perfezionista è bravo ma altrettanto inevitabilmente accumula ritardi catastrofici. Finora il CSM ed i Consigli Giudiziari si sono attenuti all'unico criterio possibile, quello del non demerito.
Ovvero si puniscono o non si promuvono quelli che sono impreparati, inadeguati o lassisti: peraltro non sempre si è agito con la dovuta decisione e trasparenza.
Ora però le riforme proposte vogliono mandare continuamente giudici e pubblici ministeri a scuola e sotto esame. Si creeranno ancora più motivi di assenza legittima dal lavoro. Si rallenteranno i processi per fare belle sentenze e non più sentenze. Si correrà dietro ai potenti per una raccomandazione utile e questo condizionerà l'indipendenza e la serenità, umanissime reazioni che ben conoscono coloro che vivono altri ambienti di lavoro, gerarchizzati e subordinati.
Inoltre, siamo sicuri che il magistrato bravo sia quello meglio preparato teoricamente e basta? Se pensiamo a coloro che più sbagliano o lasciano a desiderare molte volte vengono in mente soggetti la cui preparazione giuridica (ovviamente qualità necessaria, ci mancherebbe) è di assoluto livello: si sbaglia infatti soprattutto per pigrizia, disonestà, mancanza di equilibrio, difetto di capacità organizzativa.
Insomma la riforma proposta vuole imporre un controllo esterno ma non migliorare il modo di valutazione dei magistrati, peraltro difficilissimo se non impossibile quando si tratta di giudizi astratti. Si perfeziona e tipizza poi il sistema disciplinare, già piuttosto severo per le abitudini medie degli altri settori: giusto appare tipizzare alcuni illeciti comportamentali, assurdo però inserire certe categorie di illecito che sembrano introdurre una sorta di divieti di opinione.
Si continua a scavare distanze tra giudici e pubblici ministeri in controtendenza con il resto del mondo giudiziario che mostra di apprezzare sempre di più il concetto che l'organo di accusa sia gestito da soggetti improntati alla cultura dell'imparzialità e non alla mentalità del brutale persecutore.
Pochissimo se non niente si dice sulle ragioni dei disservizi, sulle inefficienze croniche, su come trovare più risorse e personale per l'amministrazione della giustizia. Anzi nuovi e cospicui fondi sono state recentemente distratti dal nostro capitolo di spesa dalla legge che istituisce e finanzia le nuove Provincie di Barletta, Fermo e Monza.
Le promesse di dialogo del governo e del ministro sono cadute nel vuoto della prova dei fatti. Continuano attacchi generici, gratuiti, incomprensibili ai magistrati che, si dice da ultimo, "si fanno male da soli".
Molti appaiono sfiduciati e delusi e l'unico dubbio sulla partecipazione allo sciopero è per alcuni colleghi soltanto legato al fatto che questo possa davvero servire a qualcosa. In realtà è l'unico modo di far sentire civilmente il proprio dissenso su un disastro annunziato: la giustizia del nostro Paese, che già non si sente molto bene e che ancora vorremmo guarire e non seppellire per sempre.
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24/05/2004
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