Immigrazione punto e a capo
| Cosa può e deve insegnare il fallimento della legge Bossi-Fini (e di quelle che l'hanno preceduta)
di Ettore Picardi
Due recenti sentenze (n° 222 e n° 223, entrambe del 15 luglio 2004) della Corte costituzionale hanno inevitabilmente sancito l'illegittimità di due profili normativi della c.d. legge "Bossi-Fini" che ha tentato di riordinare la materia dell'immigrazione nel nostro Paese. In primo luogo è stato valutata incostituzionale la norma che prevedeva l'espulsione immediata del clandestino in assenza della possibilità del contraddittorio nel procedimento di convalida, che deve sopraggiungere entro 48 ore da parte dell'Autorità Giudiziaria: la Corte ha stabilito che l'immigrato clandestino non possa essere espulso senza poter godere nel relativo procedimento dell'assistenza legale, fatto questo incontrovertibile in quanto ogni provvedimento sfavorevole deve essere assunto garantendo il contraddittorio, ovvero la possibilità per il destinatario di far valere adeguatamente (ovvero anche mediante un legale) le proprie eventuali ragioni.
In secondo luogo si è stabilito che la norma che prevedeva l'arresto obbligatorio degli espulsi rientrati clandestinamente, o che non hanno ottemperato all'obbligo di lasciare il territrio nazionale, fosse gravemente illogica ed irragionevole. Infatti mentre la legge disponeva l'arresto obbligatorio per tali fattispecie, contestualmente un meccanismo processuale inderogabile e banalissimo obbligava l'autorità giudiziaria al rilascio immediato dell'arrestato. Infatti quando non debbono essere comminate misure cautelari a carico del medesimo l'art. 121 delle disp. att. del codice di procedura penale obbliga il pubblico ministero al rilascio immediato dell'arrestato.
Nel caso in questione la legge "Bossi-Fini" aveva scelto che la violazione in questione fosse una contravvenzione, categoria di reati per i quali in nessun caso risulta possibile l'emissione di qualsivoglia misura cautelare personale.
Come appare evidente si è trattato di due clamorosi infortuni che testimoniano ancora una volta la scarsa attenzione del legislatore contemporaneo per la coerenza e l'applicabilità effettiva delle norme che emana. Tuttavia non è da problemi di tecnica processuale, comunque risolvibili, che deriva la grave emergenza del fenomeno dell'immigrazione clandestina e non è per questi errori che la legge Bossi-Fini ha finora tradito le aspettative.
Per comprendere bisogna andare oltre e non fermarsi al livello tecnico-giuridico. Innanzitutto vi è stato un grave deficit amministrativo ed organizzativo. In primo luogo perchè solo in una esigua minoranza di casi le Forze di Polizia sono state in grado di accompagnare fisicamente alla frontiera gli espulsi, limitandosi all'intimazione orale all'interessato, invitato ad adempiere spontaneamente all'ordine di lasciare il territorio nazionale entro il quinto giorno.
Chiaramente si è trattato di una prassi abrogante il rigore che ispirava la normativa nel suo insieme. Siccome il disguido si verificava esclusivamente per inadeguatezze strutturali sarebbe stato doveroso dotare di adeguate risorse finanziarie, nonché di uomini e strutture idonei e sufficienti, tutte le Questure per poter eseguire concretamentemente le numerosissime espulsioni deliberate. Non può una legge severa mancare di effettività per un difetto di organizzazione e mezzi.
Abbiamo dovuto invece sopportare un balletto di espulsi-non espulsi, arrestati-liberati, una sarabanda poco dignitosa in ogni senso: per gli immigrati (spesso non del genere malintenzionati) e per le istituzioni confuse ed obbligate a comportamenti contraddittori.
Tuttavia la ragione dell'emergenza è ancora più in alto e dal livello politico-amministrativo bisogna risalire fin verso quello politico-costituzionale ed internazionale.
Ovvero bisogna valutare quali scelte in materia siano opportune partendo dalla radice del problema, che nella fattispecie concerne delicati equilibri tra diritti fondamentali dei cittadini italiani e della comunità internazionale. Negli Stati dove finora risulta migliore la gestione dei flussi migratori si assiste necessariamente ad una politica del doppio binario, quello della sicurezza sociale e quello della partecipazione umanitaria.
La sicurezza degli abitanti non può essere derogata in alcun modo: un sistema di polizia e giudiziario credibile deve di allontanare gli immigrati malavitosi (così come punire adeguatamente i delinquenti autoctoni), dissuadendoli anzi dal venire nel Paese già con precise idee criminali. Quanto il nostro Stato sia carente sul punto è cosa nota a tutti.
Non può però essere ignorato che gli attuali massicci arrivi di immigrati sono frutto di tensioni internazionali, squilibri economici, catastrofi economiche ed ambientali di numerosi Paesi poveri o poverissimi: situazioni che inevitabilmente ricadono anche su Stati come il nostro, che godono di sorte più favorevole. Da un lato è ovvio che di fronte ad una tensione così elevata non può essere data una risposta brutale, aggravando la situazione con atteggiamenti ostili e intolleranti. Sarebbe tra l'altro ulteriore linfa per il terrorismo internazionale. D'altro canto, moralmente, le ragioni degli squilibri vedono comunque responsabili un pò tutti e meno di altri spesso quei popoli colpiti dalla miseria più nera.
Una strada da percorrere con urgenza, una delle fondamentali, è quella della regolamentazione del diritto di asilo. Tradizionalmente il diritto internazionale lo riconosceva a favore di chi era in pericolo nel proprio territorio per motivi politici. Oggi va ampliandosi concettualmente la sfera dell'istituto. Le giuste ragioni di tutela del rifugiato dovranno ricomprendere altre forme di rischi socio-ambientali, gravissimi in sempre più ampie regioni del pianeta, dovuti talvolta ancora a ragioni politiche ma sempre più spesso causati da disastri sostanzialmente economici e sociali.
Il nostro Paese è uno dei pochissimi che non ha una legge nazionale che disciplini il diritto di asilo: il silenzio normativo ostacola sia la possibilità di essere di aiuto al prossimo che la capacità di stroncare squallide speculazioni di trafficanti di uomini. Non si può continuare a navigare a vista senza alcun criterio per distinguere chi debba essere accolto e chi no, fino a che punto una situazione possa legittimare il riconoscimento dello status di "rifugiato" distinguendolo da quello di mero emigrato.
Sarebbe il primo passo per incamminarsi lungo l'unica strada possibile: prendere coscienza che il problema è di tutti, visto che tutti abitiamo lo stesso pianeta. La sfida da vincere necessarriamente, per gradi ma senza ritardi, sarà invertire la tendenza e riequilibrare le differenti velocità dei mondi. Ognuno dovrà avere la possibilità effettiva di abitare il proprio territorio. Allora i flussi migratori saranno fisiologici e non più accelerati dalla ingestibile forza della lotta per la sopravvivenza. Sarà utopia ma è anche necessità.
In secondo luogo si è stabilito che la norma che prevedeva l'arresto obbligatorio degli espulsi rientrati clandestinamente, o che non hanno ottemperato all'obbligo di lasciare il territrio nazionale, fosse gravemente illogica ed irragionevole. Infatti mentre la legge disponeva l'arresto obbligatorio per tali fattispecie, contestualmente un meccanismo processuale inderogabile e banalissimo obbligava l'autorità giudiziaria al rilascio immediato dell'arrestato. Infatti quando non debbono essere comminate misure cautelari a carico del medesimo l'art. 121 delle disp. att. del codice di procedura penale obbliga il pubblico ministero al rilascio immediato dell'arrestato.
Nel caso in questione la legge "Bossi-Fini" aveva scelto che la violazione in questione fosse una contravvenzione, categoria di reati per i quali in nessun caso risulta possibile l'emissione di qualsivoglia misura cautelare personale.
Come appare evidente si è trattato di due clamorosi infortuni che testimoniano ancora una volta la scarsa attenzione del legislatore contemporaneo per la coerenza e l'applicabilità effettiva delle norme che emana. Tuttavia non è da problemi di tecnica processuale, comunque risolvibili, che deriva la grave emergenza del fenomeno dell'immigrazione clandestina e non è per questi errori che la legge Bossi-Fini ha finora tradito le aspettative.
Per comprendere bisogna andare oltre e non fermarsi al livello tecnico-giuridico. Innanzitutto vi è stato un grave deficit amministrativo ed organizzativo. In primo luogo perchè solo in una esigua minoranza di casi le Forze di Polizia sono state in grado di accompagnare fisicamente alla frontiera gli espulsi, limitandosi all'intimazione orale all'interessato, invitato ad adempiere spontaneamente all'ordine di lasciare il territorio nazionale entro il quinto giorno.
Chiaramente si è trattato di una prassi abrogante il rigore che ispirava la normativa nel suo insieme. Siccome il disguido si verificava esclusivamente per inadeguatezze strutturali sarebbe stato doveroso dotare di adeguate risorse finanziarie, nonché di uomini e strutture idonei e sufficienti, tutte le Questure per poter eseguire concretamentemente le numerosissime espulsioni deliberate. Non può una legge severa mancare di effettività per un difetto di organizzazione e mezzi.
Abbiamo dovuto invece sopportare un balletto di espulsi-non espulsi, arrestati-liberati, una sarabanda poco dignitosa in ogni senso: per gli immigrati (spesso non del genere malintenzionati) e per le istituzioni confuse ed obbligate a comportamenti contraddittori.
Tuttavia la ragione dell'emergenza è ancora più in alto e dal livello politico-amministrativo bisogna risalire fin verso quello politico-costituzionale ed internazionale.
Ovvero bisogna valutare quali scelte in materia siano opportune partendo dalla radice del problema, che nella fattispecie concerne delicati equilibri tra diritti fondamentali dei cittadini italiani e della comunità internazionale. Negli Stati dove finora risulta migliore la gestione dei flussi migratori si assiste necessariamente ad una politica del doppio binario, quello della sicurezza sociale e quello della partecipazione umanitaria.
La sicurezza degli abitanti non può essere derogata in alcun modo: un sistema di polizia e giudiziario credibile deve di allontanare gli immigrati malavitosi (così come punire adeguatamente i delinquenti autoctoni), dissuadendoli anzi dal venire nel Paese già con precise idee criminali. Quanto il nostro Stato sia carente sul punto è cosa nota a tutti.
Non può però essere ignorato che gli attuali massicci arrivi di immigrati sono frutto di tensioni internazionali, squilibri economici, catastrofi economiche ed ambientali di numerosi Paesi poveri o poverissimi: situazioni che inevitabilmente ricadono anche su Stati come il nostro, che godono di sorte più favorevole. Da un lato è ovvio che di fronte ad una tensione così elevata non può essere data una risposta brutale, aggravando la situazione con atteggiamenti ostili e intolleranti. Sarebbe tra l'altro ulteriore linfa per il terrorismo internazionale. D'altro canto, moralmente, le ragioni degli squilibri vedono comunque responsabili un pò tutti e meno di altri spesso quei popoli colpiti dalla miseria più nera.
Una strada da percorrere con urgenza, una delle fondamentali, è quella della regolamentazione del diritto di asilo. Tradizionalmente il diritto internazionale lo riconosceva a favore di chi era in pericolo nel proprio territorio per motivi politici. Oggi va ampliandosi concettualmente la sfera dell'istituto. Le giuste ragioni di tutela del rifugiato dovranno ricomprendere altre forme di rischi socio-ambientali, gravissimi in sempre più ampie regioni del pianeta, dovuti talvolta ancora a ragioni politiche ma sempre più spesso causati da disastri sostanzialmente economici e sociali.
Il nostro Paese è uno dei pochissimi che non ha una legge nazionale che disciplini il diritto di asilo: il silenzio normativo ostacola sia la possibilità di essere di aiuto al prossimo che la capacità di stroncare squallide speculazioni di trafficanti di uomini. Non si può continuare a navigare a vista senza alcun criterio per distinguere chi debba essere accolto e chi no, fino a che punto una situazione possa legittimare il riconoscimento dello status di "rifugiato" distinguendolo da quello di mero emigrato.
Sarebbe il primo passo per incamminarsi lungo l'unica strada possibile: prendere coscienza che il problema è di tutti, visto che tutti abitiamo lo stesso pianeta. La sfida da vincere necessarriamente, per gradi ma senza ritardi, sarà invertire la tendenza e riequilibrare le differenti velocità dei mondi. Ognuno dovrà avere la possibilità effettiva di abitare il proprio territorio. Allora i flussi migratori saranno fisiologici e non più accelerati dalla ingestibile forza della lotta per la sopravvivenza. Sarà utopia ma è anche necessità.
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30/07/2004
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