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In viaggio con i nostri sensi

| “Come diceva Byron? ‘Stanco della casa, della moglie, dei figli’ uno sbatte la porta e se ne va. Si può partire, dunque: per poco, per un bel po' o per sempre”.

di Tonino Armata

Da dove viene lo stimolo a mettersi in viaggio? Ancora mezzo secolo fa, gli impulsi più ricorrenti e irresistibili erano tre. Primo la fuga. Secondo, l'anelito ad una diversità. Terzo, la ricerca dei resti, delle ombre di un'"età dell'oro" ormai tramontata ma non tanta remota, così che viaggiando dov'essa era fiorita fosse possibile riviverne, sia pure vagamente, l'atmosfera. Bene, conviene chiarirlo subito: di queste ragioni ne resta ormai una sola, la fuga. Voltare le spalle al luogo in cui si vive, alle persone che ci circondano, al lavoro, al tran tran e alle minestre d'ogni giorno, questo è un diritto inalienabile dell'uomo: e, infatti, lo si può ancora esercitare. Come diceva Byron? "Stanco della casa, della moglie, dei figli" uno sbatte la porta e se ne va. Si può partire, dunque: per poco, per un bel po' o per sempre.
 
Nella settimana di ferragosto ho fatto un viaggio a Milano. Eravamo in quattro: io e tre amici (un uomo due donne). Mentre io non lavoro, vivo in una condizione d'eterna vacanza, i miei amici sono vittime del tempo: lavorano, vanno nelle redazioni delle loro case editrici, e debbono ubbidire alla legge delle ferie. Nella mia Milano deserta, ho riassaporato l'aria dei navigli, del centro storico compresi Piazza del Duomo, il Museo Civico del Castello Sforzesco (sec. XV), il chiostro di S. Maria delle Grazie con l'ultima cena di Leonardo ristrutturata (sec. XV), la Certosa di Garegnano (sec. XIV-XVII), la Pinacoteca di Brera, la Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana (pittura e grafica sec. XVI) e del Museo Poldi Pezzoli.  Fuori la dolce Brianza e i laghi, soprattutto il Lago Maggiore dove i miei genitori mi portavano in villeggiatura da piccolo.
 
A proposito di Brianza, mi sembra veramente buffa la sortita di non so quale capotaz locale della Lega, la quale chiede di vietare in Brinza gli archi in "stile arabo" per non contaminare la purezza architettonica del luogo… Si dà il caso, infatti, che la Brianza sia uno dei mirabolanti pastiche architettonico del Pianeta Terra. Lungo i suoi stradoni si allineano villette pseudotirolesi, spagnolesche, moresche, trulli, tucul. Mancano solo gli igloo, i nuraghe e le palafitte. Già Gadda, in un memorabile saggio sull'architettura brianzola, fece un elenco lunghissimo e spassoso degli pseudostili, delle sotto tendenze, del trash anni Cinquanta e Sessanta (pioneristico, dunque) grazie al quale i laboriosi brianzoli riuscirono a mettersi in casa, con qualche licenza, un vero e proprio riassunto del mondo, senza criterio né ordine, solo per entusiastico benessere.
Perché mai, dunque, negare alla Brianza qualche ulteriore piacevole ritocco, accenni si suk, profumi di casbah, palmizi, minareti? In quel casino non se n'accorgerebbe nessuno. Al massimo si potrebbe aggiornare, quarant'anni dopo, il colpo d'occhio del gran lombardo Gadda.
 
Conversando in pizzeria, con i miei amici, ci siamo imbattuti sull'ironia della bandana, indossata con disinvoltura dal premier in occasione della visita "privata" di Tony Blair a Porto Rotondo. E' sbagliata. Ci siamo detti all'unanimità. Bisogna prendere sul serio la bandana, in tempi di politica dell'immagine, fatta di volti, corpi, segni, a cui i media offrono un necessario, complice sostegno. Anche quando trasudano dileggio e spregio. E parlano di non politica, dedicando ad essa pagine e pagine di politica. D'altronde siamo in piena estate. Ferragosto. E la politica, i politici, si "denudano" del loro ruolo pubblico (e non solo di quello).
 
Apparendoci, oppure dissimulandosi nel privato. Che, spesso, sempre più spesso, costituisce il loro mondo privilegiato. Quello attraverso il quale comunicano con la "gente comune". Così il Cavaliere di ferragosto interpreta al meglio senza faticare, il modello della personalizzazione leggera, della politica come gossip. E offre all'opinione pubblica un grandangolo sulle debolezze dei potenti. Guardate con malcelata soddisfazione perché li rende "tanto simili a noi" (e magari anche peggiori). Il "Cavaliere privato", d'altronde, non è molto diverso da quello pubblico. Perché il premier svolge molte delle sue attività più importanti in spazi privati. A casa sua. Nelle sue diverse residenze, sparse in Italia. A Roma, Milano. In Sardegna.
 
Non c'è molto da sorridere né tanto meno da ridere. Perché a questo metodo ci stiamo assuefacendo. Per inerzia. Alla politica raccontata dai settimanali rosa, dalle pagine rosa dei quotidiani grigi. E dai siti "beninformati" (vale anche per la nostra città). E dei media. C'è poco da ridere sul trionfo della non-politica, cui noi stessi partecipiamo, dedicandogli tanto spazio.
 
Contribuendo al tentativo del Cavaliere di riprendersi a ferragosto (a colpi d'immagine) il ruolo perduto in giugno, alle elezioni. Riconquistando, per altro, quella Sardegna, che Soru gli ha sottratto.
 
Sul tardi ci venne in mente, l'altra immagine che ha riempito i media, sempre nella settimana di ferragosto. Pur sapendo di rischiare un paragone blasfemo. O, per altri motivi, demagogico. Ma l'abbiamo vista, sulle stesse pagine degli stessi giornali. La figura del Pontefice. Dolente. La malattia e la vecchiaia indossate con ostentazione. Quasi esibite. In modo consapevole.
 
Strategico. Considerata l'attenzione assoluta che il Pontefice ha dedicato, da sempre, alla comunicazione. All'immagine. Trasformando se stesso, il proprio corpo (sempre piegato), il proprio volto (sempre più scavato), i propri viaggi (sempre più epici) in un messaggio. La coincidenza del calendario induce a osservare e infine a contrapporre queste due immagini. Il Pontefice e il premier. Il Parkinson invece della bandana. Le rughe come solchi profondi invece della pelle tirata. Le parole sussurrate in un soffio, invece delle canzoni interpretate disinvoltamente. La bocca come una ferita invece del sorriso collaudato. E, invece della residenza stabile e rutilante di Porto Rotondo, il viaggio (perenne) a Lourdes. Terra santa e Loreto, per un pellegrinaggio incessante di malati, nel corpo e nell'anima, in cerca di miracoli. Ma, anzitutto, di serenità. E di speranza. Speranza (non ottimismo): "fede" (non fiducia) che qualcosa cambierà. Oggi. E se non oggi, domani. E se non domani, domani l'altro.
 
E' giusto, allora, prendere sul serio le rappresentazioni estive. Anche quando sembrano banali. Le bandane e le corti di ferragosto. Le costituenti alpine le feste di partito. Ma non "troppo" sul serio. Perché spesso le secessioni annunciate d'agosto in settembre sfiniscono. Le polemiche, sopite all'ombra degli ombrelloni, si risollevano, spinte dal vento d'ottobre. O al contrario: le questioni alimentate ad arte si sfiatano. E l'ottimismo estivo in autunno si raffredda. Talora gela. Meglio prendere sul serio in tempi come questi, le immagini, i segni. Ma senza esagerare. E senza porre sullo stesso piano. Irretiti dai riti mediatici. Per i miracoli (a esempio) Porto Rotondo continua a sembrarci meno affidabile di Lourdes.
 
Tonino Armata

01/09/2004





        
  



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