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La Costituzione di carta

| Armata:" E' opportuno domandarsi se la Costituzione esista".

di Tonino Armata

In tempi ormai lontani e nel complesso più sereni di quelli attuali, vi era chi pure apprezzando l’austerità e la formale bellezza della facciata di Montecitorio, esprimeva il dubbio che dietro quella facciata mancasse il “Palazzo”, che il parlamento, secondo l’idea che se n’aveva fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, fosse in sostanza introvabile. Così oggi legittimamente ci si può domandare, di fronte all’evidente disfacimento del governo di centrodestra, se la Costituzione d’Italia, promulgata nel 1947 (nobile e bell’espressione del più moderno costituzionalismo) esista ancora nella realtà, sia, la rappresentazione di un ordinamento vitale, esistente di fatto, oppure un pezzo di carta che descrive soltanto se stesso.

Se al quesito si dovesse rispondere con l’affermazione che  l’Italia “a buon diritto” si può considerare un Paese senza Costituzione, potrebbe essere interessante ricercare le cause o, almeno, la principale ragione del fallimento di un sistema giuridico che, quando fu scritto, si ha motivo di ritenere corrispondesse ai sentimenti della coscienza popolare.

Come suole accadere al culmine delle crisi storiche generali, la necessità di interrogarsi sui fatti pubblici, sui destini collettivi della società, comincia a premere un po’ su tutti, anche su chi solitamente è più pensoso del proprio particolare; non appare perciò un semplice amusement culturale domandarsi se nella progressiva perdita dell’ordinamento costituzionale, nel distacco pressoché definitivo fra ordinamento formale, quell’appunto scritto nella Costituzione, e quello di fatto, non si ritrovi se non la ragione fondamentale una delle principali ragioni del profondo malessere che ci avvolge.

E quindi, può rilevarsi anche di pratica utilità tentar di comprendere che razza d’ordinamento è quello in cui si vive, se non è quello scritto nella costituzione, e come e da chi l’ordinamento costituzionale ci sia stato sottratto. E che quest’abbandono della costituzione può ritenersi un male, anzi una grossa disgrazia, è anche dimostrato dall’appello, caldo e reiterato, che c’è rivolto da numerosi oppositori del caos delle libertà, i quali, c’esortano alla difesa della Costituzione, ora dopo un cinquantennio dalla promulgazione.

Lo spirito della Costituzione
Può sorgere il dubbio, anzitutto, che la Costituzione fosse sbagliata, che non esprimesse tutti i titoli giuridici ed etico-politici necessari per guidare lo sviluppo della società italiana. Ma, in verità, la Costituzione nasceva con il crisma del sacrificio del popolo italiano e assumeva a fondamento una coscienza unitaria, comunemente definita come lo spirito della Resistenza, che abbracciava la gran maggioranza dell’assemblea costituente.

E’ sempre opportuno cercare di approfondire il contenuto di questo “spirito” che non va attribuito o riservato ai fatti militari emergenti dagli anni ’43-’45 o, per l’antifascismo militante, all’opposizione all’estero. Avevano contribuito alla formazione di questo spirito anche gli italiani del consenso, per i quali la tramutazione dell’applauso di piazza alla decisa avversione al fascismo era stato un dramma esistenziale da risolvere pressoché in solitudine: ma da questa soluzione, che pur vi era stata nel senso dell’avversione, dipendeva l’afflatto di potente solidarietà che univa i combattenti di linea e la popolazione sofferente.

Il passaggio poi dal sentimento della lotta alla comprensione sia del passato sia delle componenti stesse di quel consenso e di quanto esso implicava in termini d’errore e di tradimento per la coscienza civica di ciascuno (quindi anche il passaggio alla cognizione specifica delle forme del rinnovamento) imponeva un riesame critico doloroso e pesante, ma indispensabile al consolidamento dei nuovi indirizzi costituzionali. Riesame critico collettivo che le forze politiche democratiche avrebbero dovuto indirizzare.

E qui occorre anticipare che nei primi anni della repubblica non soltanto furono trascurate le affermazioni ideologico-programmatiche della Costituzione, ma fu disatteso e minimizzato questo bisogno di solidarietà critica che avrebbe potuto diffondere una ben diversa consapevolezza dei nuovi istituti democratici: quanto alla cognizione di massa della nuova realtà costituzionale, si passava da un sistema all’altro soltanto con la nozione, questa sì abbastanza precisa, di lasciare un male per un bene, ma senza una conseguente analisi delle componenti di questo male e di questo bene.

Anche le stesse forze che avevano guidato la Resistenza finivano col preferire la generale amnistia all’eliminazione critica del passato. Ma tutto ciò riguarda già i tempi della nuova Costituzione; per la fase costituente il rapporto Resistenza-Costituzione dev’essere visto in un’unica dimensione: la Costituzione democratica nasce, infatti, da tutta la Resistenza come manifestazione unitaria di reazione alla dittatura.

Diverse valutazioni riduttive della Resistenza (o geografiche, come quella che vorrebbe limitare la vera Resistenza al nord dell’Italia, o qualitative, come quella che distingue una resistenza rivoluzionaria da una resistenza conservatrice) finiscono col tradire il significato unitario della Resistenza e il senso della sua traduzione istituzionale nella nostra Carta.

Questo spirito, dunque, trasmesso alla Costituente, dettò le norme di Costituzione del nuovo Stato e stabilì che cosa in Italia non si sarebbe dovuto ripetere: era questa la realtà pre-giuridica da trasferire nella nuova Costituzione. L’avversione, infatti, riguardava ideologie e persone del fascismo ma, anche, realtà giuridiche e politiche prefasciste, del sistema cioè che aveva consentito l’avvento del fascismo.

Un robusto disegno circondava anzitutto la precedente costituzione, lo statuto albertino, che era apparso a tutti lo statuto dei tradimenti. Anche se è difficile valutare appieno se lo statuto fosse confortato da una convinta adesione popolare nell’epoca post risorgimentale, è lecito ritenere che, nel periodo fascista, fossero molti i cittadini dubbiosi dei requisiti reali di validità e legalità di questa carta. Quando lo statuto continuava a descrivere una monarchia costituzionale di stampo liberale in un regime definito “del capo del governo”; tuttavia lo Stato era apertamente totalitario, non esisteva un parlamento eletto ed esisteva il tribunale speciale.

E vero che agili ed acuti giuristi dimostravano in base alla natura flessibile dello statuto, alla sua modificabilità con legge ordinaria, che il regime vigente in Italia era ancora una monarchia rappresentativa: ma non erano queste valutazioni troppo popolari e, secondo le testimonianze, lo statuto era ritenuto dalla maggioranza un documento piuttosto alieno, d’interesse prevalentemente militare e da festeggiare soprattutto “militarmente”.

 E davvero il glorioso statuto era una carta octroyée, benignamente concessa dal sovrano, e, in sostanza, piuttosto povera, come dimostrava la magra consistenza dei diritti riconosciuti, caratteristici, nell’eccezione più ristretta, dello Stato liberale della restaurazione; la carta, in ogni modo, era tale da sembrare pur sempre un fatto rivoluzionario ai conservatori che l’accettavano sì ma rimpiangevano che proprio dopo questo magnanimo gesto si dovesse interrompere, in omaggio ai nuovi tempi, l’affettuosa consuetudine di baciare la mano al re nelle grandi udienze.
Ai conservatori più illuminati pareva invece che questo documento dovesse essere arricchito dal grazioso impegno di riconoscere in sede extra-costituzionale alcune esigenze sociali: che si facesse cioè qualcosa anche per il popolo cosiddetto minuto che sembrava considerare non particolarmente appetitosa la concessione dei diritti politici offerta ai borghesi. E fu annunciata, nel proclama di Moncalieri, una riduzione del prezzo del sale affinché anche i più umili lavoratori avessero a gioire dei nuovi felici ordinamenti che si andavano elaborando.

E lo statuto, formalmente concesso, ma anche imposto dai gruppi elitari risorgimentali e dagli eventi internazionali, sarebbe stato poi esteso, con la tecnica plebiscitaria, all’Italia unita; questa soluzione era complessivamente inappagante per chi sognava una costituente popolare o in ogni modo condivideva una particolare impostazione settecentesca secondo la quale non aveva senso parlare di “diritti dell’uomo” come categoria generale da concedere a tutti, poiché solo i diritti conquistati da ciascun popolo erano consistenti, come quelli degli Inglesi che li meritavano per esserseli appunto conquistati.

Vi era, dunque, quest’antica aspirazione ad una Costituzione italiana, voluta dal popolo, e nell’assemblea costituente il consapevole distacco dal precedente ordinamento (statutario) accoglieva in modo operante quest’aspirazione; anche se nessuno dimenticava che i nuovi diritti, progressivamente conquistati nel periodo statutario o accortamente “mediati”, soprattutto dalla politica giolittiana, rientravano nel nostro patrimonio popolare. Ma questo della Nuova Costituzione doveva diventare il momento unitario della qualificazione nazionale dell’ordinamento italiano.

L’ordinamento costituzionale qual era
La nuova Costituzione fu esposta per l’intero anno 1948 in tutte la sale comunali della repubblica affinché ogni cittadino potesse prenderne conoscenza: dopo di allora le occasioni per rileggerne e meditarne il testo non sono state molte anche se a volte, nel cinquantennio, qualche articolo o interi titoli sono tornati d’attualità; e pertanto non è forse tempo sprecato ricordarne l’intero disegno con una ricapitolazione sommaria.

La pietra su cui poggia il nostro ordinamento è il primo articolo della Costituzione, in cui si afferma che “l’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”; l’affermazione, un secolo dallo statuto e dopo il fascismo, non ha alcun senso retorico, ma è l’indispensabile presupposto “reale” del nuovo ordinamento. Così l’ampia previsione di diritti civili, politici, economico-sociali e di situazioni etico-politiche, contenuta nella prima parte della Costituzione, non è sovrabbondante ed astratta ma storicamente congrua.

E nel testo costituzionale confluiscono tutti i diritti: da quelli configurati secondo i principi dell’89 dal liberalismo puro, agli altri di diversa provenienza ideologica e che sono proiezioni del socialismo (dal pre-marxismo e al revisionismo), del federalismo radicale, dell’azionismo e delle dottrine cattolico-liberale e cristiano-sociale.

Accanto ai diritti riconosciuti all’uomo, indipendentemente dallo status di cittadino, sono riaffermati quelli del cittadino come singolo e quelli delle formazioni sociali in cui vivono e opera in questa dimensione quindi non soltanto si reagisce alla concezione atomistica del cittadino “serializzato”, ma si fornisce una delle chiavi per comprendere il concetto pieno della sovranità popolare (a cui la Costituzione si riferisce) e la qualificazione di “democratica” attribuita alla repubblica.

L’esperienza storica di una funesta politica di potenza, che, paradossalmente, aveva condotto a svolgimenti in sostanza lesivi dell’indipendenza e dignità nazionali del nostro Paese, detta le norme che regolano i rapporti della nuova repubblica con gli altri soggetti sovrani, e anzitutto, con la Chiesa: a parte il significato di colpo di forza contingente della citazione dei patti lateranensi nel testo costituzionale, come garanzia di pace sociale, le relazioni Stato-Chiesa sono regolate dal principio della reciproca indipendenza e sovranità.

L’Italia, sia con l’impegno di tutelare le minoranze linguistiche, sia per il ripudio della guerra, rafforzato dall’accettazione del principio attivo della riduzione della sovranità in funzione della pace, appare (dopo la guerra fascista) predisposta a svolgere un ruolo “nuovo”, condizionato da queste premesse, nella comunità internazionale.

L’elencazione dei singoli diritti, puntigliosa e precisa, dà precedenza alle libertà fondamentali: la libertà di religione, la libertà personale, quella di domicilio, quella di corrispondenza, quella di circolazione, di riunione, d’associazione, di manifestazione del pensiero con ogni mezzo, la libertà da prestazioni personali o patrimoniali che non siano imposte per legge, il diritto di agire in giudizio, di difendersi e di non essere distolto dal giudice naturale. Sono, poi, stabili i principi della personalità della responsabilità penale e della diretta responsabilità dei funzionari e dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici. Sono ancora riconosciuti i diritti della famiglia, la tutela della salute, la libertà dell’arte e della scienza, il diritto all’istruzione e la tutela del paesaggio.

Sul piano dei rapporti economici è garantita la tutela del lavoro (art. 35), peraltro posto (come si è detto) “a fondamento” della repubblica (art. 1); sono affermati il diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del lavoro, i diritti della donna lavoratrice, quella degli inabili al lavoro, le garanzie per gli infortuni, le malattie d’invalidità e vecchiaia e per la disoccupazione: la tutela dei lavoratori subordinati è più marcata, più estesa.
E’ sancita la libertà d’organizzazione sindacale “a base democratica”, e il diritto di sciopero “nell’ambito delle leggi che lo regolano”: è riconosciuta la libertà dell’iniziativa economica privata, entro i limiti posti dai programmi e dai controlli affinché l’attività economica, pubblica e privata, possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e salvo l’espropriazione per motivi d’interesse generale. E’ riconosciuto, infine, il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende, nonché al risparmio in tutte le sue forme: si profila così un nuovo principio organizzativo del “potere economico”.

Per quanto riguarda i rapporti politici, è riconosciuto il diritto al voto (che è personale ed uguale, libero e segreto), quello di petizione, quello d’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Fra i doveri, sono sanciti quelli della difesa della patria, quello tributario e quello di fedeltà alla repubblica, alla costituzione e alle leggi. D’importanza fondamentale, principale segno di un nuovo costituzionalismo, è l’articolo 49 il quale stabilisce: “Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in parti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

Ciascun “gruppo di diritti ha riferimenti storico-ideologici così evidenti che si potrebbe datarli per cicli di maturazione.

Per quanto riguarda l’organizzazione dello Stato, la repubblica democratica è istituita in conformità ad un sistema di governo di tipo parlamentare con due camere, camera dei deputati e senato della repubblica, che costituiscono, insieme il parlamento e da cui promana, mediante il rapporto di fiducia, il governo. L’art. 94 della Costituzione stabilisce una procedura particolare sia per la concessione della fiducia sia per la votazione di una mozione di sfiducia.
Anche al presidente del consiglio la Costituzione attribuisce specifici poteri di direzione della politica generale del governo: è prevista un’corretta legge sull’ordinamento della presidenza del consiglio e sull’organizzazione, il numero e le  attribuzioni dei ministri. Coordinatore di tutti i “poteri” dello Stato è il presidente della repubblica le cui attribuzioni non sono esclusivamente formali: con l’artico 88 della Costituzione, gli è conferito il potere di sciogliere le camere, che lo rende arbitro, in situazioni d’emergenza, del ricambio istituzionale.

Alla magistratura la Costituzione conferisce un ordinamento indipendente in base al principio fondamentale che i giudici sono soggetti soltanto alla legge.

Per finire, la Costituzione, come espressione del potere costituente, rappresentava (e spero rappresenterà per molti anni ancora) anzitutto la prima esperienza nazionale unitaria di fondazione popolare del nostro Stato e perciò l’inizio di un’epoca nuova: chi aveva vissuto l’esperienza dell’8 settembre del ’43, l’esperienza cioè del crollo dello Stato, quel senso di debolezza e di solitudine che si era potuto tramutare soltanto dopo nella volontà di resistere, sentiva come non fosse minimamente retorico collegare a quel documento le speranze di tutto un popolo. Cosa che i veri democratici, devono fare ancora oggi, domani e sempre.

29/11/2004





        
  



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