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Vagnoni: “fare sistema contro la crisi economica”

San Benedetto del Tronto | Intervista al coordinatore comunale della CGIL: “il precariato dei giovani vera rigidità economica”

di Giovanni Desideri

“Oggi nessun imprenditore può più pensare di affrontare da solo la concorrenza. Occorre fare sistema, per promuovere l’integrazione di tutti i settori dell’economia locale, dal turismo alla pesca all’agroindustria. E la qualità: sia dei nostri prodotti, che devono essere riconoscibili sui mercati nazionali e internazionali per i loro marchi d’area, sia dell’occupazione, per sostenere i consumi.”
 
L’analisi dell’economia locale offerta da Francesco Vagnoni spazia dalla storia dello sviluppo della città di San Benedetto alle tendenze attuali della società. Ex segretario provinciale Flai-Cgil (il sindacato dell’agroindustria), Vagnoni è coordinatore comunale Cgil e dei pensionati Spi-Cgil a San Benedetto, vicepresidente del Coico (il “Comitato di indirizzo e di controllo” del distretto agroindustriale, presieduto dall’imprenditore Leo Bollettini), presidente della commissione provinciale Inps (organismo con compiti di vigilanza e di indirizzo dell’ente previdenziale).
 
La tradizionale economia sambenedettese è oggi in crisi. Quali ne sono le cause?
“La crisi che avvertiamo è in parte la stessa che in ambito nazionale. Molte famiglie non arrivano a fine mese. Si parla di “crisi della 4ª settimana”, palpabile indipendentemente dagli indicatori economici. Situazione peggiorata dal fatto che oggi si tenta di risolvere i problemi attraverso iniziative individuali o di piccoli gruppi. Da noi manca la capacità di fare sistema. Alcuni dicono che l’individualismo sarebbe una caratteristica della nostra zona, ma non è stato sempre così.”
 
A cosa si riferisce?
“Allo sviluppo della città di San Benedetto, che raddoppiò la sua popolazione tra gli anni ’50 e i ’60, passando da 23 mila agli attuali 46 mila abitanti. In quel periodo c’è stato uno sviluppo spontaneo, ma sistemico. L’agricoltura venne ristrutturata, aumentò la sua redditività, si alimentò la liquidità delle quattro principali banche del periodo: BNA, BNL, Banco di Roma e Carisap. Manodopera e finanziamenti a buon mercato si riversavano soprattutto sulla costa. Si svilupparono settori diversi e complementari: la pesca, anche in ambito oceanico; l’edilizia, con la costruzione di viale De Gasperi, del lungomare e degli alberghi, per lo più ad opera di costruttori ascolani o della vallata, come Amadio, Guidi, Lucidi e Pichini, Ulissi; l’agroindustria, con Bollettini, Formentini, Italo Marconi, Paracciani (da cui nacque poi la Copop); l’industria del freddo, a partire dall’“Industria Alimentare della Vallata del Tronto”, poi “Surgela”. Da San Benedetto partivano 50 vagoni al giorno di prodotti ortofrutticoli, verso i mercati del nord Italia o del nord Europa. Il nome di San Benedetto era conosciuto per questo. E anche per la Sambenedettese, unica squadra di serie B espressione di una piccola città. Ci fu la trasformazione del turismo d’élite degli anni ’30 al turismo di massa, proveniente da regioni come la Lombardia, Liguria, Umbria, Toscana, Lazio, Campania, Puglia, ma anche dalla Germania e dalla Svezia, appunto grazie ai nostri prodotti. Accanto a questo c’erano anche condizioni di lavoro durissime: 14, 15, 16 ore al giorno, nei magazzini ortofrutticoli, in edilizia, nelle strutture ricettive. Porto d’Ascoli nasce proprio dal lavoro e dalla fatica in questi settori.”
 
Oggi tutto questo è in crisi.
“Andò in crisi la pesca oceanica nei paesi centrafricani, nel momento in cui la pesca fu allargata dalle 12 alle 24, poi alle 200 miglia. Condizioni che la nostra flotta non poteva più affrontare. La contrattazione, d’altra parte, non veniva condotta dalla nostra politica nazionale, ma lasciata ai singoli armatori. Quella crisi riversò personale qualificato nell’industria del freddo: tecnici dei frigoriferi, esperti del pesce, che in precedenza operavano a bordo. Nacque la Surgela, poi la Pesclaudio Sud a Valdaso di Rotella. Il turismo è cambiato invece per una trasformazione culturale: italiani e stranieri vanno oggi nella ex Jugoslavia, in Grecia, alle Maldive. Oggi siamo di fronte ad una crisi, non ad un crollo. Siamo ad uno snodo importante.”
 
Cosa occorre fare?
“Oggi non dobbiamo più dare risposte di massa, ma risposte di qualità. Il settore ortofrutticolo è ancora il nucleo economico più importante di questo comprensorio: nella Valdaso si produce ancora l’1% di tutta la frutta nazionale. Ma dobbiamo puntare sulle produzioni di qualità e l’integrazione dei vari settori e dei vari soggetti. La ricettività, per esempio, dovrebbe tentare nuove strade come quella dell’agriturismo.”
 
Secondo alcuni ci vorrebbero invece più hotel a 5 stelle.
“Le due cose possono convivere. La prossima estate avremo un ulteriore incremento di presenze inglesi e svedesi negli agriturismi. È necessario che queste persone tornino a diffondere i nostri prodotti nei loro paesi. L’economia provinciale deve trovare sbocchi a livello internazionale, con prodotti di qualità, contraddistinti da marchi d’area. Non si può vendere pesce come proveniente dal “medio Adriatico”: è una formula generica che può voler dire qualsiasi cosa. E di certo non è riconoscibile all’estero. Dobbiamo invece rendere riconoscibile la nostra qualità, come sta avvenendo per il vino, con l’associazione Vinea ad Offida. La stessa lungimiranza politica che si è manifestata in quel caso andrebbe trasferita anche ad altri settori.”
 
Ogni anno ci sono molte vertenze di lavoro nel settore turistico. Questo non vuol dire che ancor prima di nuove strategie è necessario risolvere vecchi problemi come le condizioni e lo stesso costo del lavoro?
“Le vertenze sono molte, ma quasi tutte vengono risolte bonariamente, motivo per cui non disponiamo di cifre ufficiali. Certo questa è una piaga, ma dobbiamo anche pensare a come invertire questa tendenza. Ovvero, a come rilanciare il settore. Quanto alla riduzione dei costi, noi riteniamo che le aziende paghino troppo l’energia elettrica o l’acqua. Andrebbero incentivate la produzione a livello locale, e l’ottimizzazione della rete delle acque. Comprimere il costo del lavoro in sé e per sé non serve. Al contrario.”
 
Alcuni accusano gli imprenditori locali, sostenendo che l’agroalimentare sarebbe un settore in espansione a livello nazionale e in recessione da noi.
“Io ritengo che sbaglino imprese come la Foodinvest o la Promarche a puntare solo sulla produzione per conto terzi. Muovono invece i primi passi, seppure in ritardo, associazioni di produttori come la “F1OP”, nella direzione dei marchi d’area. Del resto non è che le persone non consumino più i prodotti alimentari. Dobbiamo però caratterizzare i nostri. Solo una parte dei prodotti venduti nel mondo come “italiani” lo sono davvero, si pensi al caso del “parmesan”. Ci sono quindi ampi margini di mercato per i prodotti di qualità. Basta pensare che il paese che acquista più vino italiano è la Germania e al suo interno Monaco di Baviera, capitale della birra. Dopo il caso del vino al metanolo, 25 anni fa, ci fu una svolta qualitativa, oggi apprezzata. Ora dobbiamo fare qualcosa di analogo. Ma tutti insieme, con investimenti pubblici e privati.”
 
I vecchi finanziamenti pubblici?
“No. I tempi dei finanziamenti a fondo perduto e della Cassa del Mezzogiorno sono finiti. Non dobbiamo perseguire la pianificazione dell’economia, ma la programmazione. Nel novembre 2004 Associazione Industriali di Ascoli, Unione Industriali del Fermano, Cgil, Cisl e Uil hanno firmato un protocollo di intesa intitolato “Per costruire il futuro”, per indicare delle risposte sulle politiche economiche, sociali, dei redditi.”
 
La riorganizzazione del mondo produttivo è stata perseguita negli ultimi anni con strumenti come la legge Biagi. Recentemente si è inteso stimolare l’economia con il taglio delle tasse. D’altra parte proprio organizzazioni come la Cgil vengono percepite come "luoghi" di eccessive rigidità del mondo del lavoro. Qual è il suo giudizio?
“Noi distinguiamo tra flessibilità e precarietà. La legge Biagi è causa di precarietà, un fenomeno che impedisce alle persone di investire sul proprio futuro, oltre a dare prodotti di qualità inferiore. Un giovane che non ha un reddito certo per almeno dieci anni non penserà certo a comprare casa, tantomeno a sposarsi. Consuma il minimo indispensabile. La precarietà blocca i consumi, è la vera rigidità dell’economia. Altra cosa è la flessibilità, che richiede un sistema di formazione complesso e continuo, per passare da una professione all’altra in caso di difficoltà in un settore. E questo attraverso il collocamento pubblico, che ritengo migliore di quello privato, affidato ad agenzie interinali. Quanto al taglio delle tasse, è assolutamente inconsistente. A molti ha portato appena 80 centesimi in più in busta paga. E in generale si è già visto in America quali conseguenze produca alla lunga: aumento del debito pubblico e privato, vantaggi per alcuni a danno di altri e alla fine impoverimento del ceto medio.”
 
Il collocamento pubblico evoca inefficienze storiche. Il futuro sembra essere proprio quello snello delle agenzie private.
“Il sistema interinale non funziona. Solo pochi posti di lavoro vengono stabilizzati e le reti che le agenzie creano sono sempre parziali, non colgono mai le tendenze in atto a livello generale. Un sistema nazionale a rete può dare invece una risposta complessiva, se si avvale di dati in tempo reale. Ma occorre costruirlo con delle risorse. Rilanciarlo, non smantellarlo.”
 
Le pensioni: il sistema pubblico non regge. Andiamo verso una completa privatizzazione del settore?
“Nel ’95 il sindacato fece un accordo con il governo Dini per incentivare i fondi pensione, dal momento che il sistema solidaristico, in virtù nel quale i lavoratori pagavano le pensioni con i loro contributi, iniziava a non funzionare. C’erano meno lavoratori che pensionati. Oggi soltanto l’Inps paga circa 14 milioni di pensioni. Poi i fondi pensione non decollarono, per le resistenze dell’industria, che avrebbe dovuto tirar fuori i soldi del Tfr per alimentarli, anziché utilizzarli fino al pensionamento vero e proprio del lavoratore. Oggi siamo al di là di tutto questo. C’è un attacco alle pensioni che tende a favorire il sistema privato. Non dobbiamo dimenticare, del resto, che il presidente del consiglio è anche assicuratore. Incentivare chi ha 35 anni di contributi e 57 anni di età a rimanere al lavoro ottenendo in busta paga la cifra che andava all’Inps vuol dire continuare a pagare pensioni, senza alimentare i fondi da cui attingere. Fortunatamente nel 2004 sono state appena 20 mila in tutta Italia le domande in tal senso, 1/3 delle quali solo in Lombardia. Nella provincia di Ascoli un centinaio di richieste, su circa 5 mila domande di pensione.”

Ritiene adeguato il ricambio generazionale ai vertici delle aziende?
“Ci sono vari aspetti del problema. In alcuni settori, come la pesca, i scarsi margini di guadagno e i molti sacrifici non inducono i figli a seguire le orme dei padri. Poi c’è una percentuale fisiologica di figli che non proseguono il lavoro dei padri perché preferiscono altre strade. Infine ci sono coloro che si impegnano nello stesso settore. In questi casi è importante che i figli sappiano apportare delle innovazioni e sappiano adeguarsi, per esempio alle condizioni della grande distribuzione, evitando invece gli errori del passato.”

05/02/2005





        
  



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