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Terrore dal mare di William Langewiesche Adelphi

San Benedetto del Tronto | "Langwiesche è un giornalista molto noto nel mondo dell’informazione marittima, il suo libro avrà un impatto forte, perché la sua analisi passa in rassegna aspetti dell’organizzazione internazionale del mondo del mare di cui non si parla mai."

di Renato Novelli


Il titolo originale del libro è più fedele al contenuto e al quadro dell’industria della navigazione presentato dall’autore che è un giornalista molto conosciuto ed esperto del mare: “The outlaw Sea. A world of freedom, Chaos and crime”. 
 
La lettura è entusiasmante, zeppa di informazioni costruite bene, il tema è un lungo viaggio tra gli eventi disastrosi del mondo della marina mercantile, attraversato da una tesi di fondo: l’industria del trasporto marittimo è dominata da un pazzesco labirinto di illegalità, di società off shore non riconducibili a nessuno, se non alla bandiera ombra che le navi di proprietà inalberano, di sfruttamento feroce di manodopera raccolta nelle regioni più povere e marginali del mondo, di navi carretta o come dicono i marinai, navi – bara candidate ad affondare o a schiantarsi contro le coste.

Come dice il risvolto di copertina “Gran parte delle centoquarantremila navi che incrociano al largo delle nostre coste, appartengono a compagnie di comodo, imbarcano marinai sprovvisti persino di documenti personali e possono cambiare più volte nome e bandiera durante la navigazione.
 
Gli oceani sono oramai un’immensa distesa anarchica dove può accadere che carrette pronte per la demolizione, affrontino tempeste….”. Il termine anarchia, che l’autore usa molte volte nel libro, forse, è poco convincente e l’uso di caos, crimine e libertà del titolo inglese corrisponde in modo più pieno alla narrazione.  Ma l’impressione che il lettore ricava è, al contrario, quella di un sistema economico marittimo nel quale la frammentazione, i labirinti, le bugie, il ventaglio pressoché infinito delle illegalità, i traffici paralleli, nascondano un insieme concertato, funzionale, come si dice oggi, al perseguimento (o meglio l’avventurosa cattura) del valore aggiunto da parte di gruppi di avventurieri di tutte le ciurme e di tutte le risme.
 
 Il Libro ha un gran pregio. Non è mai ideologico e per questo, non si allinea al lamento sui valori caduti. Il che rende il riferimento all’anarchia dei mari ancor di più fuori tono. Come, d’altronde non si comprende l’uso del termine libertà nel titolo, quando nel libro si sostiene che i margini di ogni libertà in mare sono oramai così ristretti da divenire inesistenti. Il modulo narrativo è efficace: la storia affascinante, quasi da thriller di un naufragio o di un disastro introduce una riflessione su un settore specifico del mondo marittimo.

Il Kristal, una nave costruita in Italia nel 1974, è una carretta in declino che trasporta melassa. Deve affrontare un mare impossibile per i suoi mezzi. La storia della sua fine è ancorata al quadro di proprietari irraggiungibili, invisibili e presenti mascalzoni. Ma anche all’umanità del suo equipaggio, fatto di uomini senza carta d’identità, inevitabilmente vittime e complici, con una storia di vita quasi predestinata. La ricostruzione della cattura del cargo Alondra Rainbow da parte di una nave pirata nello Stretto di Malacca introduce la pirateria, o meglio il background organizzativo e sociale che è alla base dei milleduecentoventotto atti di pirateria verificatisi tra il 1998 e il 2002 nel mondo. Ma come nel caso del Kristal protagonista è anche la zona di mare dove l’episodio si svolge.

Là l’Oceano Indiano, qui il Mar Cinese che va dalla Birmania fino alle Filippine, dove hanno luogo la grande maggioranza delle attività piratesche del nostro tempo. L’Erika è una petroliera e il suo caso focalizza il tema dei grandi disastri ambientali, provocati dalla noncuranza criminale di chi dovrebbe attuare misure di sicurezza e da chi non riesce a far rispettare le norme. Emerge anche il fatto che la legislazione nazionale della navigazione non è più adatta alla nuova dimensione globale del trasporto marittimo. Gli stati delle bandiere ombra sono diventati numerosi, i sistemi di aggiramento dei controlli frequenti come il sorgere del sole. La stessa norma della sovranità sulle miglia prossime alle coste delle nazioni, non vuol dire più niente in un mondo in cui Bin Laden possiede una flotta di almeno 20 navi.

E rispetto al terrorismo sui mari, interessante per il lettore italiano è vedere come la nevrosi della Lega e la propaganda autoritaria della Bossi – Fini, si accompagni ad una assoluta e voluta inefficacia di provvedimenti del governo italiano nei confronti della criminalità marittima.
 In successione, il naufragio tragico di una nave da routine, il traghetto Estonia, di linea in un “mare interno”, il Baltico sulla rotta da Tallin a Stoccolma, racconta le mille storie delle irregolarità e dei rischi anche delle linee locali, nel quadro delle società post – socialiste. Ma nel caso dell’Estonia, un intero capitolo sulla dinamica del disastro, introduce un tema tipico del mondo della navigazione: l’evento sul mare rimane sempre legato a margini di mistero. Qualcosa di indecifrabile accompagna i fatti, anche se la verità di fondo emerge. In questo caso, la furia lavorativa della giornalista Jutta Rabe (famosa per l’inchiesta sull’Estonia) tutta orientata alla documentazione degli errori dell’armamento e dela gestione, in difesa della costruzione, lascia, secondo l’autore, margini di dubbio seppure secondari.

Infine il racconto sulla rottamazione degli scafi inservibili nella spiaggia indiana di Alang, apre il capitolo di documentazione e riflessione sulla nocività e la produzione di degrado dell’industria globale della demolizione delle vecchie carrette.  

Gli oceani antropizzati, cioè lo spazio umano dei “sette mari” della terra, è uno dei regni più all’avanguardia nell’inquinamento, nei rischi ambientali, nel trattamento disumano dei marinai, nell’illegalità, nell’arte della criminalità. Questa analisi, sicuramente vera, non ha, però, un carattere di totale discontinuità con il passato. Le carrette, gli affondamenti attesi o preparati, le piraterie al plurale, le navi fantasma solcano i mari da sempre. B. Traven (Rex Marut ? Otto Freige ?), l’anarchico misterioso che non rivelò mai la sua identità e viveva in Chapas molto tempo prima che la sinistra europea lo scoprisse per sentirsi meno orfana, scrisse un libro sulla misera vita illegale del mare “La nave morta”, dove attraverso al vicenda di un marinaio di New Orleans che rimane abbandonato ad Anversa, senza documenti e senza un soldo. Diventa vagabondo e, poi si imbarca su una nave morta, cioè una nave dove ai singoli membri dell’equipaggio non viene richiesto nessun documento. La loro vita non vale nulla.

Una volta imbarcati entrano in un tunnel, in fondo al quale spesso c’è la morte o una resistenza nelle mille forme dell’illegalità marittima. Le navi morte anche negli ani del primo dopoguerra, secondo B. Traven, ufficialmente non esistevano, erano bagnarole che si prestavano ai traffici più sporchi, al contrabbando, all’affondamento. Anche negli anni cinquanta, in pieno secondo dopoguerra, il confine tra l’imbarco pulito e il salto verso il mondo della clandestinità era facile e frequente, come era facile che sulle navi vi fosse una zona morta dove i marinai non avevano alcuna giurisdizione e i comandanti ammassavano con l’accordo degli armatori, merci di contrabbando o peggio criminali.

Chi ricorda il lungo servizio giornalistico con cui Marquez aprì la sua carriera di scrittore, uscito, poi come racconto con il titolo “la storia di un naufrago”, ricorda anche che il motivo per cui non viene comunicata tempestivamente la sua scomparsa(cade in acqua di notte), è la paura degli ufficiali di vedere scoperto il traffico di lavatrici comperate negli USA(siamo sempre negli anni cinquanta). La tesi di questo libro sembra essere precisa: non si parla delle illegalità del passato, perché, come accade, la quantità si è trasformata in qualità e il dominio delle forme più disparate di traffico, smaltimento, trasporti fuori norma, uso di manodopera poverissima, è così oppressivo e pervasivo da avere cancellato gli spazi di legalità garantita. Di fatto se non totalmente.

A metà dell’800, Dana, un intellettuale di Boston, prima di Melville, si imbarcò nella marina mercantile e da questa esperienza ricavò un libro divenuto famoso “Two years before the mast”
Pubblicato nel 1840. Quel libro denunciava la brutalità della condizione dei marinai sulle navi americane. Tutti fino all’uscita dell’ opera di Dana, sapevano dei maltrattamenti, ma nessuno aveva mai ammesso che essi costituissero un sistema più che casi frequenti dovuti a comandanti autoritari.

In mood analogo, Langewiesche vuole farci riflettere sul fatto che i casi di inquinamento per le petroliere naufragate, le navi inabissate, i traghetti di linea pericolanti, sono un sistema.
Conrad in scritti sparsi, poi riuniti (The mirror of the sea) ha sostenuto che le relazioni umane e sociali del mare, rappresentano lo specchio deformato della verità di quelle di terra. L’apparente esasperazione dell’autorità o della rivolta, della solitudine del mare calmo e dell’agitarsi collettivo nella tempesta, sono fatte della stessa sostanza di quello che accade a terra. Anche se solo qui e mai nella materia liquida esse assumono una valenza politica. Il senso del libro di Langesiesche è in questo assunto.

Ma, a leggere bene, la storia dei marinai e a riflettere bene sulle loro storie infinite, sempre nel mare la marginalità e l’abbandono, oltre a produrre oblio e nostalgia, hanno generato forme di cultura frammentaria. Non faccio solo riferimento agli scrittori classici, ma alla circolazione dei libri nei piccoli spazi delle cuccette.

Nel secondo dopoguerra, c’era un mondo di lavoratori naviganti che leggeva Fanon prima che lo facessero gli intellettuali europei e che sviluppò una cultura critica del mondo fuori o più modestamente ai margini, dalla logica macro politica dello contro tar i due blocchi. Chissà se anche ora, nel degrado generale, tra i proletari più sfortunati, oppressi e clandestini dell’intero universo lavorativo, stia maturando una contro cultura che noi europei. Noi che aspettiamo in buon ordine e tra molte discussioni di grande portata la prossima ondata di petrolio, fuoriuscito da una carretta affondata.

21/03/2005





        
  



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