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L'emigrazione del nuovo millennio: i laureati con la valigia

| MILANO - Non si parla più di emigranti disperati e malinconici, con valigie tenute insieme dallo spago.

di Luigino Vagnozzi

Recentemente sono stati diffusi i dati Istat relativi all' emigrazione fra le diverse regioni italiane nel decennio 1993-2002. Il dato che ne esce fuori è sorprendente: l' Istat rileva "la tendenza nell'ultimo decennio alla ripresa delle migrazioni di lungo raggio lungo le direttrici tradizionali. Tra il 1993 e il 2002, infatti, i trasferimenti tra regioni diverse sono aumentati dell'1,8% annuo, a fronte dello 0,7% dei trasferimenti intra-provinciali e dell'1% fatto registrare da quelli tra province della stessa regione".

I numeri degli ultimi dieci anni, oltre a confermare la prevalenza degli spostamenti da Sud verso Nord (97mila il saldo netto annuo, isole comprese, nel '93 salito a 130mila nel 2002), evidenziano che si è decisamente rafforzata l'emigrazione verso le regioni del Nord-est (con un aumento di oltre il 50% di iscritti da altre regioni) e che è cresciuto in misura sostenuta il numero dei cancellati dalle regioni meridionali e dalle isole (+25% circa).

Ma ciò che sorprende realmente, non è la quantità, quindi il puro dato numerico, ma la sua qualità: infatti non si parla più di emigranti disperati e malinconici, con valigie tenute insieme dallo spago, com' è la figura dell' emigrante anni '50 nell' immaginario collettivo. Stiamo parlando per lo più di giovani tra i 25 e i 35 anni, in possesso di un titolo di studio che sempre più spesso è una laurea, che amano navigare in Internet, conoscono una o più lingue, hanno effettuato esperienze di studio all' estero.

Il dato ha punte di evidenza nelle regioni meridionali, ma il fenomeno è presente anche nelle più ricche e sviluppate regioni del centro, come le Marche.

Sono purtroppo alcune tra le migliori risorse quelle che abbandonano le proprie regioni di origine: lo scopo del distacco di solito, non è la ricerca di un lavoro (questo per fortuna non è un grosso problema nelle Marche, in Abruzzo e in molte zone del Mezzogiorno) ma l' inseguimento dei propri sogni, delle proprie ambizioni e della soddisfazione professionale. Infatti, nel corso degli studi, a volte lontani da casa, ci si forma un'idealizzazione del posto di lavoro, non conoscendo reali rischi e opportunità di quel mondo: si pensa a percorsi di carriera e al raggiungimento di precisi obiettivi ben posizionati nel tempo. Questa dovrebbe essere la normale conseguenza dei sacrifici sopportati nel corso degli studi. Ma purtroppo di solito non è così!

La fine del percorso universitario è un momento critico, ci si trova di fronte a scelte delicate che potrebbero condizionare il resto della vita: la decisione da prendere solitamente è tra la tranquillità di un normale posto di lavoro, magari vicino alla casa dei propri genitori e un lavoro lontano, più rischioso (e costoso) ma all' inseguimento dei propri sogni.
Ovviamente questa dicotomia è una generalizzazione di tutta una serie di situazioni particolari, ma la distinzione ci aiuta a capire meglio i semplici dati numerici.

Nel secondo caso, molto spesso i giovani più intraprendenti (soprattutto delle Regioni del Sud) si trovano costretti a fuggire da una mentalità e da una classe dirigente che non amano; sono i giovani che rifiutano di scendere a compromessi, aspettando la classica "parola buona" per avere un buono stipendio, spesso derivante dal settore pubblico, sono i giovani che cercano una società più libera e meritocratica. Non è quindi la ricerca dello stipendio che li motiva.

Altre volte, come nel caso dei ragazzi marchigiani, ci si trova nella situazione di avere a disposizione un lavoro dignitoso, che però stride fortemente con l' idealizzazione fatta durante gli studi: il "lavoro tranquillo e sicuro" delle otto ore al giorno non basta. Ma si badi bene, non si tratta di sfrenata ambizione o di arrivismo, ma di ricerca di soddisfazione e di crescita delle proprie capacità professionali, in modo da vedere ripagati gli sforzi, anche economici, sostenuti dalle famiglie durante gli studi.

Si è disposti cioè a sostenere ulteriori sacrifici nei primi di anni di lavoro, nell' attesa di sentirsi valorizzati professionalmente. Purtroppo non sempre ciò avviene e anche così si spiega la più alta mobilità tra posti di lavoro al Nord rispetto al Centro-Sud.

Questa tendenza è preoccupante: ciò significa infatti che interi tessuti industriali non riescono a creare le condizioni affinché molti dei propri ragazzi, pur legati da un amore smisurato per la loro terra, possano rimanere e contribuire allo sviluppo del territorio; si tratta di coloro che potrebbero rappresentare la futura classe dirigente, per carattere e intraprendenza. Attenzione, con ciò non si vuole assolutamente sminuire il ruolo dei tanti e preparati laureati e diplomati che dopo gli studi scelgono di rimanere a lavorare nelle proprie regioni: si sottolinea soltanto il fatto che il circa 50% del totale viene regalato a regioni, a multinazionali e molto spesso all' estero!

Non dobbiamo dimenticare che, in molti, casi da giovani motivati nascono imprenditori e imprese di successo che non contribuiranno alla ricchezza delle regioni di origine.
Nonostante potremmo citare decine di esempi positivi anche nella nostra regione, purtroppo la maggioranza delle piccole e medie imprese sono gestite ancora in maniera padronale e le società di servizi sono di livello medio/basso: non sono in grado di rappresentare quindi un' alternativa attraente; i tentativi di rinnovare processi aziendali dall' interno e di apportare innovazioni "culturali" nei distretti produttivi (e le spinte maggiori possono essere fornite proprio dall' entusiasmo dei più giovani) sono difficili e quasi sempre visti con diffidenza dai dirigenti di altre generazioni, o da imprenditori troppo poco lungimiranti.

Questo intervento, nato da continui confronti e riflessioni con brillanti laureati al lavoro lontani da casa, non vuole essere soltanto un segnale di allarme, ma uno spunto affinché si apra un dibattito e ci si interroghi su come recuperare questo gap di competitività, lanciando proposte precise.

La prima cosa necessaria è che, a prendere coscienza del problema, siano, per prime, le Istituzioni: quindi Comuni, Province, Regioni, Università, Associazioni industriali,  professionali, ecc.

Successivamente sarà necessario trovare opportune modalità per stringere relazioni con chi sta effettuando esperienze professionali di alto livello in altre regioni: l' idea potrebbe essere l' organizzazione di incontri, convegni e seminari formativi da svolgere nelle Marche (e ovviamente in tutte le altre Regioni) con l' obiettivo, da un lato, di contaminare culturalmente il territorio e dall' altro di far conoscere personalmente professionisti, studenti, imprenditori con esperienze e culture diverse, ma con radici comuni.
Ciò aiuterebbe anche chi vuole far nascere una nuova impresa, sfruttando il know-how acquisito con proficue esperienze, magari innovative, lontano da casa, spesso all'estero: a guadagnarne sarebbe l' intero territorio, compresi i molti giovani dei prossimi anni, che, in mancanza di adeguati stimoli professionali, sarebbero costretti a fare la valigia.

Anche secondo l' economista Marco Vitale, il fatto che i giovani più intraprendenti vadano a cercare esperienze in altri luoghi non è sempre un fatto negativo: infatti, la maggior parte di loro, fattesi le ossa altrove, spera di tornare preparata per svolgere compiti dirigenziali nella propria città.

Solo facendo compiere al nostro tessuto produttivo un salto culturale sarà possibile, nei prossimi anni, recuperare la competitività di cui molto si parla in questi giorni: al contrario, senza una reale focalizzazione delle politiche sociali, formative e industriali sul fattore umano le nostre imprese saranno sempre maggiormente costrette ad inseguire i mercati con strutture inadeguate.

22/06/2005





        
  



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