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Pasolini, se ci fosse, cosa direbbe oggi?

San Benedetto del Tronto | “Uno straccetto rosso, come quello / arrotolato al collo dei partigiani / e, presso l’urna, sul terreno cereo, / diversamente rossi, due gerani”.

di Tonino Armata


Quando una persona muore, rimane di lei ciò che è stata e ha dato. Nel caso di Pier Paolo Pisolini molto è rimasto: il poeta, il regista, lo scrittore, il pubblicista. L’uomo cattolico e comunista ma anche anticattolico e anticomunista. Persona scomoda per chi vuole certezze rassicuranti. Tempo fa, ho visto a Primo Piano su Raitre un programma su di lui. Da uno scatolone conservato al museo di Criminologia hanno tirato fuori i reperti del suo omicidio.
 
Oggetti lontani che però mi hanno commosso. Non la sua camicia intrisa di sangue, non i suoi documenti di riconoscimento, non il libro che forse stava leggendo, niente di tutto questo. Mi sono commosso alla vista dei suoi occhiali. Questo accessorio ovvio, parte della persona stessa. Ciò che ha visto, pensato, scritto, ciò di cui parlava, tutto è stato filtrato da quelle lenti un po’ scure. La montatura nera, rettangolare e spessa che celava due occhi vivaci e sensibili a tutto; uno sguardo mai assente.

 Eccoli lì i suoi occhiali dentro quello scatolone tra altri reperti diventati ormai inutili. Ho sentito il bisogno di condividere questa mia emozione del resto già conosciuta durante un film quando Nanni Moretti arriva in Vespa sul luogo dove il poeta è stato assassinato: squallore, abbandono, desolazione. Forse si addice questo ad un uomo che dall’inizio alla fine ha combattuto l’ipocrisia.

Dopo le “rivelazioni” di Pino Pelosi la Procura di Roma ha aperto un fascicolo per vedere di accertare l’ipotesi che ad assassinare il poeta sia stato non un singolo individuo ma un manipolo di picchiatori fascisti sbucati dal nero per uccidere quel “comunista di m....”. Credo che, se quest’ipotesi è vera, non è certo un pover’uomo come Pelosi a potergli dare sostanza trent’anni dopo i fatti. Certe volte mi chiedo che cosa direbbe oggi Pasolini se fosse qui con i suoi 83 anni sicuramente lucidi e vigorosi. Quale aspetto di questa nostra sgangherata convivenza lo colpirebbe, susciterebbe il suo sdegno. Posso tentare una risposta solo evocando il passato. Ripenso alla sensazione che suscitò nel 1957 la sua raccolta di poesie: “Le ceneri di Gramsci”. Per la prima volta un poeta che si diceva filocomunista metteva in crisi la sua cultura politica mescolandola ad un desiderio di giustizia che non si limitasse alle sole disparità economiche. Ciò che Pasolini chiedeva era un’etica della persona, una morale nuova.

Era un omosessuale e ne pativa, da cattolico, tutti i rimorsi e la colpa. In quegli anni certe cose non le diceva nessuno anche se oggi può sembrare impensabile. Nessuno parlava di “gay pride”, l’omosessualità era una malattia, una vergogna da nascondere. Pasolini fu il primo ad esibirla dolorosamente. Lo sommersero i vituperi dei “benpensanti” (lo accompagneranno per tutta la vita) ma ci fu imbarazzo anche nella sinistra; come ce ne sarà nel 1968 quando difese i poliziotti “figli del popolo” attaccati a Valle Giulia da alcuni studenti “figli della borghesia”. Dal poema che dà il titolo a quella raccolta riporto quattro versi che a me paiono bellissimi: “Uno straccetto rosso, come quello/ arrotolato al collo dei partigiani/ e, presso l’urna, sul terreno cereo,/ diversamente rossi, due gerani”.

Forse questo lo direbbe ancora.

24/06/2005





        
  



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