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Paralleli tra l'impero di Filippo e l'attuale situazione politica sambenedettese

San Benedetto del Tronto | L'Imperatore restò in carica 5 anni tanto quanto una normale legislatura moderna

di Giuseppe Malasorte

Dopo la felice età degli Antonimi (II° secolo D.C.), l'impero entrò in un periodo travagliato. Nessun imperatore tra il 217(morte di Caracolla) e il 295 si spense di morte naturale. Il meccanismo di accesso all'imperium, divenne ingovernabile. L'appartenenza dinastica poteva essere il presupposto per diventare imperatore o poteva garantire una pugnalata al cuore in giovane età.

Oltre ad essere figli di qualcuno, era necessario procurarsi qualche appoggio: nel Senato (che arrivò a vendere la carica ad un certo Didio Giuliano), tra le legioni che si pronunciavano e acclamavano i nuovi imperatori in qualche remota provincia e potevano, poi, marciare conto altri pretendenti.

Di conseguenza, i comandanti militari si proclamavano imperatori con una certa frequenza. Essenziale in certi casi era il sostegno dei pretoriani, cioè della guarnigione di Roma. Il Prefetto del Pretorio, il comandante della guarnigione, era sempre un candidato forte. C'erano, poi i governatori, a volte militari a volte no, che erano quasi autonomi e potevano costituire propri domini territoriali al di là della regione assegnata, come aveva fatto una certa Zenobia che si era impadronita  dell'Egitto alla morte del marito governatore e alla metà del secolo governava di fatto sul Medio Oriente.

Una certezza tra tanta ingovernabilità era costituita dal fatto che per essere imperatori, bisognava aver percorso una carriera di nomine: console, pretore ecc.

Filippo, Prefetto del Pretorio, uccise il giovane Gordiano e si proclamò imperatore nel 244. Fu portato in trionfo nel palazzo, perché si pensava che sarebbe durato almeno quanto Alessandro Severo.. Durò fino al 249: il tempo di una legislatura comunale in Italia, oggi.  Era detto l'Arabo perché fu il primo imperatore a venire da una provincia lontana e inusitata. Diciamo come se uno arrivasse a San Benedetto, non so, da Rieti.

Definì il suo regime "impero senatorio" perchè i conflitti interni ai suoi sostenitori trasformavano ogni decisione in una rissa. I barbari premevano minacciosi ai confini e il regno di Persia stava diventando potente e pericoloso. Ma, dopo una prima campagna fortunata, non ci fu più tempo per i nemici esterni.

La mediazione tra gli amici interni, continua, estenuante, paralizzò ogni politica. Si distribuirono grandi emolumenti, questo si.
A ciascuno il suo, come avrebbe detto secoli dopo Leonardo Sciascia. Il popolo si divise in due gruppi, quelli che avevano avuto benefici e gli esclusi. Nel 247, Roma compì gli anni, Mille, per l'esattezza.

Filippo si gettò nella celebrazione. Grandi opere pubbliche, giochi suntuosi, celebrazioni solenni. Non so, come se un sindaco si scatenasse a fare opere pubbliche, non sapendo pensare ad un programma per la città, adeguato alla sfida delle modernizzazione esterne.

Le frazioni dei senatori cambiavano continuamente: chi passava di qua, chi passava di là. Era la forma di turismo più avanzata del tempo. Pacchetto, tutto compreso. Non so. Come se oggi una maggioranza si frazionasse e si frazionasse continuamente in un piccolo comune italiano. Nel 249, alla fine del quinquennio, un tribuno sconosciuto si ribellò nelle Gallie.

Filippo ne rimase sconvolto. Fiutò il pericolo della caduta. Non per il tribuno in sé, ma per la fragilità del suo potere a Roma. Chiese a un senatore stimato ed assennato Decio di andare in Gallia. Non so, come se oggi un assessore assennato (etnia rara allora ed oggi) si dimettesse per salvare un sindaco.

Decio ridicolizzò il povero tribuno che era in realtà un sindacalista travestito, diciamo così, una mutazione genetica della figura del tribuno. I soldati furono folgorati dalla affabilità di Decio e lo proclamarono imperatore. Decio scriveva a Filippo di avere accettato per non essere ucciso, di stare al gioco solo per smontare il dissenso.

Ma gli oppositori, che in Senato avevano contestato i giochi del Millennio, stavano già cercando un altro imperatore. Anche tra loro vi era una certa confusione. Le fazioni organizzate optavano per il saggio e probo Tacito che discendeva dal grande storico, e come lui spesso in pubblico taceva, sicuro dell'appoggio delle fazioni, altri delusi che avevano motivi di vendetta o erano stati emarginati si erano organizzati attorno all'ex Prefetto del Pretorio, avevano fatto appello alla plebe colta legata alle tradizioni romane repubblicane,  ma questa plebe era immaginaria e quella vera frequentava poco i conciliaboli.

Dietro questo gruppo che si riuniva al Foro lavorava il vecchio e saggio Ulpiano, conosciuto come "Il designatore" perché aveva partecipato con autorità alla designazione di tre precedenti imperatori.  Altri ancora pensavano ad un patrocinatore di cause molto noto ed autorevole, che aveva già servito nell'amministrazione dell'Impero. Con lui si erano schierati senatori con un buon capitale di consensi, sospettati però di frequentare le catacombe cristiane. 

Anche Zenobia, che nel suo decentrato e incontrastato dominio orientale, era padrona del sistema delle scholarum greche, fece emergere il suo interesse. Di altre donne si parlava.  Non vi era mai stata un'imperatrice, se non con l'imperatore Eliagabalo, che nella sua sfrenata e ambivalente attività orgiastica, aveva sposato un giovinetto proclamandolo marito dell'imperatore anzi dell'imperatrice.

Le donne, pur avendo un ruolo chiave nelle nomine imperiali fin dai tempi di Livia Augusta moglie di Augusto, Antonia nonna di Caligola, Messalina, Agrippina ecc.  non avevano mai aspirato alla massima autorità. I sostenitori di Filippo l'Arabo cercavano qualcuno a cui affidare l'impero.

Ma nessuno se la sentiva di andare alla guerra inevitabile con le fazioni avverse. Irruppe sulla scena un Druido romanizzato, di grande sapienza medica. Sapeva tutto della scienza, ma non sapeva  quale fazione scegliere. Oltre a questi pretendenti noti, altri affilavano nell'ombra le proprie ambizioni. Insomma solo un gruppo di senatori non aspirava al titolo. 

Ognuno giocava per sé, alla cieca. Filippo prospettò clamorosamente la fine del suo impero senatorio, litigava e ammoniva. Smise di fare l'imperatore, andandosene in ritiro, un po' come se un sindaco si dimettesse e sene andasse in vacanza.

Ma qualcuno aveva le idee chiare. Decio marciò, sempre suo malgrado, alla testa delle legioni ribelli e scrisse l'ultima lettera a Filippo a Verona, il giorno prima di sconfiggerlo in una  battaglia, durante la quale Filippo fu ucciso. Insomma la fine di Filippo venne dalla stessa fazione dei suoi sostenitori.

Fra tanto accorrere in soccorso o contro Filippo, le fazioni a lui favorevoli non ebbero mai il tempo di pensare ai popoli del Nord (impropriamente detti barbari) che premevano ai confini. 

 Il grande storico inglese Gibbon nella sua classica opera "Decadenza e caduta dell'Impero romano" fa risalire a questo periodo e a Filippo l'inizio della fine di Roma. 

16/08/2005





        
  



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