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Il destino di Tacito, e il nostro

San Benedetto del Tronto | Considerazione in merito alla versione di latino dello scorso esame di Stato.

di Simone Corradetti


Tacito non è solito lasciarsi andare a digressioni filosoficheggianti nel suo monumentale capolavoro degli Annali o nelle Storie: al massimo, offre brevi parentesi di metodo storico( il celebre sine ira et studio), si lamenta del fatto che sia costretto a fare il resoconto di eventi tristi, senza gloria, di un’epoca di declino rispetto al fulgore delle età di cui ad esempio si era occupato Livio.

In questa indole poco filosofica si compendiano le caratteristiche proprie della romanità, pur con le note notevoli eccezioni di chi ha assorbito la tradizione greca, il tardo Cicerone vessato dalle avversità, Lucrezio, Orazio a suo modo, e soprattutto il modernissimo Seneca.

Tacito è conosciuto dagli studenti per il particolare acume storiografico, per l’indignazione virile con cui tratteggia le figure, innumerevoli, che compongono il quadro dell’età giulio-claudia, tutti personaggi, dagli imperatori ai delatori, caratterizzati da bassezza morale, viltà, ferocia, opportunismo.Il romano virtuoso dell’età repubblicana è per sempre svanito. Ma  un Tacito che si sofferma, dopo aver parlato delle capacità divinatorie dell’indovino Trasillo messo alla prova da Nerone, su nodi cruciali come il potere del fato e la sorte dell’uomo, è sconosciuto allo studente, proprio perché, per quanto io conosco di Tacito, questa parte degli annali (VI 22) è una delle rarissime se non l’unica riflessione di questo tipo tentata dal sommo storico.

Ho positivamente valutato la scelta ministeriale per il recente esame di stato anche perché questo è un passo affascinante che conosco da tempo e mi ha offerto il destro sempre per qualche considerazione. E’ un brano che si rivela abbastanza complesso specialmente nella scelta dei termini per la traduzione, nelle sottili distinzioni tra fato, necessità immutabile e caso. Lo stile è quello che lo studente conosce, vibra di una certa densità concettuale nelle sua brevitas e inconcinnitas, tipiche del Nostro.E’ una versione che si propone come un compendio delle idee filosofiche sulla sorte dell’uomo,ponendosi la domanda se sia prefissata dalla nascita, se all’uomo sia concessa la possibilità di dominare il corso degli eventi, oppure se tutta la volontà dell’uomo sia vana.

E’ un passo indubbiamente formativo, se lo studente, come è capitato a me, coglie la complessità del problema, un problema che deve esercitare una certa attrattiva perché si collega anche  all’ambito “religioso”, ieri come oggi: Dio, quindi, o una divinità si interessa, influisce su quanto ci capita? Oppure: tutto è prestabilito sin dalla nascita?

E’, lo ripeto, una versione che ci fa capire come i classici siano sempre attuali, come sollevino interrogativi che si agitano perennemente nella mente dell’uomo, e ancor più dovrebbero in quella del giovane del ventunesimo secolo, sempre con meno certezze in un mondo in evoluzione  in cui tutto appare spesso legato alla casualità e dove a noi sembra essere lasciata ben poca possibilità di imporre il nostro segno nel corso degli eventi. Se bisogna credere al volgo, la comune visione, per Tacito che è in dubbio, è, secondo la traduzione del Davanzati, che “le destinate cose per lo punto del nascere avvengono ai più dei mortali, ma perché alcuni le pronosticano al contrario per inganno o ignoranza,ella ( l’arte divinatoria) non è creduta”.
Nerone,infatti, faceva bene a saggiare l’arte di Trasillo, proprio perché la divinazione perde valore per l’incapacità di sedicenti indovini.Ma, prima di arrivare a parlare della idea dei più, Tacito  ci parla di varie ipotesi, per l’una o per l’altra delle quali lo studente può essere indotto a schierarsi: potrebbero avere ragione gli Epicurei, per i quali la divinità non si cura della sorte dei mortali e perciò il male attanaglia più spesso i buoni mentre la fortuna sembra favorire i malvagi, oppure il fato è congruente agli eventi per l’influsso delle stelle o per l’interconnessione di cause naturali; o, ancora, noi possiamo, come l’Er platonico dell’Ade, scegliere il tipo di vita, e, una volta scelto, ne seguirà una serie certa di eventi successivi. Interessante è anche  la considerazione sulla fallacia di ciò che il popolo ritiene bene o male: spesso chi lotta sempre con le avversità è felice e quelli pieni di risorse notevoli sono invece infelicissimi, perché i primi hanno fermezza nel tollerare le avversità, gli altri non sanno sfruttare la pur benevola sorte.
Il problema interpretativo più significativo si pone con quel  plurimis mortalibus non eximitur…Tuttavia, come spesso avviene sul più bello, la frase è tradotta puntualmente dal vocabolario del Castiglioni- Mariotti e quindi lo studente non si sarà ingegnato a trovare da sé la traduzione: “ai più degli uomini non si può togliere dalla testa l’idea che…”.
Nelle parole di Tacito sono adombrati temi di grande modernità: conta di più per la nostra vita l’innato o l’appreso? Ha più influenza il DNA, il fato che agisce dentro di noi, o l’ambiente, il fato che agisce all’esterno di noi? E poi, quel è il valore della nostra volontà, del libero arbitrio, problema che assillerà l’uomo costantemente e solleciterà l’acume di personaggi come, ad esempio, Lutero ed Erasmo.

Appio Claudio Cieco, agli albori della latinità, sosteneva che ciascuno fosse artefice della propria sorte: cosa ne pensiamo noi oggi? Credo che questa bella e insolita versione di Tacito debba sollevare queste domande nello studente di fine Liceo, e, alla luce di questo, mi sembra di non dover esitare nel dire che la classicità può ancora dire molto alla mente e al cuore degli studenti, e che il vecchio Liceo Classico può fornire al giovane in formazione strumenti senza pari per una autoriflessione, per accrescere la propria autoconsapevolezza, per entrare nella vita con maggiore maturità e profondità di pensiero.

La sorte di Tacito era dunque quella, duemila anni dopo, di venir risottoposto all’attenzione dei giovani con la sua intatta carica di monito, sempre attuale. Dunque, un plauso per la scelta del ministero; si spera, però, che la versione abbia effettivamente un’eco nella mente dei giovani esaminandi, perché essi possano dire: “ però, questo l’ho pensato anch’io”, oppure “ non ci avevo mai pensato!”. Così agisce una vera formazione classica, e la profondità che essa ci dona a prezzo di sudore può anche talora farci sembrare di comprendere meglio il mondo e i suoi errori, e, con buona pace del “volgo” di Tacito, anche illuderci di essere maggiormente padroni delle nostre idee e del nostro destino.

11/08/2005





        
  



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