L'eutanasia e il confine della vita
San Benedetto del Tronto | "E' giusto decidere di staccare la spina? Il dolore non e' un castigo divino. La gente e' piu' avanti dei politici".
di Tonino Armata
Quel che cerco di comprendere è l’autanasia privata, che è una prova crudele dell’uomo, difficilissima da giudicare, formidabile pullulare di casi dove non c’è punto di bene che non sia imbrattato di male, né punto di male che non abbia una striatura di bene.
L’eutanasia è un problema barocco, di chiaroscuri violenti, di crudi contrasti, pieno d’ombre pesanti. Come l’aborto, è una realtà dentro e fuori di qualsiasi legge, è iscritta nel ventre della vita. Le soluzioni, più che una scelta morale, sono in mano del Fato. E’ inutile dire che non bisogna o non si vorrà mai far questo. Viene un momento in cui tutto quel che si è detto ammutolisce di colpo di fronte a quel che ci succede. La negazione di soluzioni e d’interventi straordinari vale finché tutto è passabilmente normale: mentre stai camminando, trovi insolente che ti taglino una gamba, benedici che te ne libera se c’è passato sopra un treno.
Ve lo immaginate il nostro Parlamento, questo rissoso Parlamento, che discute su come se e se aiutare Piergiorgio Welby a morire? Pensate a pensare alla ferocia di un duello legislativo sull’eutanasia. E, ancora concentratevi su quei tanti corpi italiani, già Campo di Marte delle più inutili terapie mediche, abbandonati all’estremo invelenimento di una qualche campagna elettorale
Perché tante discussioni intorno alla morte assistita, chiesta, invocata, e talvolta come nel caso di Milano (Ezio Forzatti) o come nei casi del radicale Vesci e dell’americana Terri Schiavo accordata, quando il paziente e vivo solo per le leggi biologiche dell'organismo, in quella notte buia della coscienza che non attende più nessun'alba?
Perché è incerto il nostro concetto di "vita" che oscilla paurosamente tra armonia dell'organismo e quella personalizzata dell'individuo che, nelle residue possibilità biologiche del suo corpo, non riconosce e non lascia riconoscere alcun'immagine di sé.
Siamo padroni della nostra vita e quando una persona non vuole più sopravvivere deve essere lasciata libera di morire. E questo vale anche per i bambini che soffrono inutilmente, compresi quelli appena nati. E la scelta olandese è un segno di gran civiltà e non si tratta di decisione presa alla leggera, ci sono regole molto rigide, non sono solo i genitori a decidere ma sono assistiti da un'équipe di medici e ad intervenire è una seria ed accreditata università.
La posizione della Chiesa cattolica con i suoi credenti, parte dal concetto che la vita è un dono di Dio e ne chiede il rispetto fino all'ultimo respiro (vedi appello del Papa: fargli mancare le cure sarebbe un omicidio - al congresso dei medici a Roma).
Cos'è, infatti, la vita? La semplice animazione della materia, come pare di poter dire per certe esigenze tenute appunto "in vita" dalla strumentazione tecnologica? O il rispetto dell'individuo, della sua coscienza, della sua deliberazione che proprio il cristianesimo, e non altri, ha eretto a valore indiscusso, trasmettendo questo riconoscimento alla cultura laica che lo ha assunto a principio della sua organizzazione sociale? Il problema dell'eutanasia non mette in gioco il valore della "vita" che prolifera ovunque, ma il valore dell'"individuo": sia dell'individuo che, in certe condizioni può non ritenersi più degno di sé, e può quindi sentirsi in diritto di decidere di por fine ad un'esistenza in cui più non si riconosce, sia dell'individuo che (come nel caso di Forzatti), invece della persona amata con cui ha condiviso la vita, si trova davanti un puro processo biologico che, grazie all'esistenza tecnica, procede nella sua anonima irreversibilità.
A questo punto sorge la domanda: perché la morte fatica così tanto a entrare nei circuiti dell'amicizia, dell'amore e acquistare così un volto sereno? Perché bisogna morire solo per cause organiche sotto l'unica giurisdizione della scienza medica? La morte è un evento che riguarda il mio organismo oppure riguarda la mia vita, la quale, non è fatta d’organi fisici, ma soprattutto di vissuti, di amori, di amicizie, di stili, di rispetto di sé?
L'organismo, certo, è la condizione della vita, ma la vita si risolve nel buon funzionamento dei miei organi. E quando gli organi non funzionano, per morire bisogna attendere il loro collasso? O si può anche chiedere a chi legifera di rivisitare la nozione di morte connettendola strettamente alla nozione di vita che, come ognuno percepisce, è la nozione decisamente più alta, più ricca, più mia di quanto non sia la nozione d’organismo noto solo alla competenza medica.
Il problema dell'eutanasia è tutto qui. La morte mi riguarda o riguarda solo il mio organismo. Questo pensiero che noi possiamo intervenire, proprio perché coinvolge quel che siamo e non solo quello di cui siamo fatti? Quando c'emanciperemo da questo grossolano materialismo che, cadenzando la vita sulle sorti della materia, c'espropria da quel che la vita ha significato per noi, dello stile che le abbiamo dato, dell'impronta che le abbiamo conferito, per consegnarci irrimediabilmente a quell'evento non nostro che è la morte organica? Perché bisogna morire da soli? Perché la morte non può essere condivisa con chi si è condivisa la vita?
Non è forse nell'aver allontanato troppo la morte dalla vita, non è forse nell'averla considerata un fatto estraneo che sopraggiunge a nostra insaputa e soprattutto senza la nostra partecipazione, la ragione profonda per cui noi temiamo così tanto la morte? Essa è terribile come tutto ciò che è estraneo, anzi come il massimamente estraneo. E in quest'estraneità che inesorabilmente il suo volto terrificante. Con queste considerazioni non voglio spezzare lance a favore dell'eutanasia; semplicemente vorrei che la morte perdesse quel suo tratto d’estraneità che inevitabilmente possiede quando è affidata alle sorti biologiche dell'organismo e diventasse qualcosa di familiare con la vita, qualcosa che non chiude come un evento estraneo amori e amicizie, ma si fa accompagnare degli amori e delle amicizie per cui e con cui si è vissuto.
Questa è la morte "umana" la quale va assolutamente distinta dalla morte "biologica" della quale al limite non ci riguarda ma proprio qui, quando il problema sembra, se non risolto, almeno meglio impostato, deve raccogliersi la nostra attenzione e concentrarsi su questa domanda: esiste un individuo capace di scegliere in piena coscienza prescindendo dalla società in cui si trova a vivere? A mio parere assolutamente no. E se la società nella quale ci troviamo a vivere più non conosce il dolore e le parole necessarie per raggiungerlo, perché conosce solo medici, farmaci, ricoveri, e dopo queste cose più niente? Se il dolore strozza l'anima e il corpo, perché nella nostra società è segregato e rimosso, in quella morsa che racchiude la sofferenza in una solitudine che diventa atroce perché incomunicabile, perché non si conoscono più parole e gli affetti capaci di profanare le mura che la nostra cultura ha eretto, spesse, affinché il dolore appaia come evento alla nostra quotidianità, come si può pretendere che un individuo consapevole di vivere in questa società, scelga "liberamente" di morire o si senta legittimato a staccare la spina?
A questo punto le nostre riflessioni devono spostarsi: dal problema dell'eutanasia al problema dei margini d'esistenza che la nostra società contempla come margini "dignitosi", e considerare su quei margini nella nostra società non sono troppo ristretti come effetto della rimozione metodica del dolore. Se questo, come io credo, è il vero problema, allora anche le parole della Chiesa cattolica possono essere riascoltate.
Non come parole a difesa di un troppo generico concetto di "vita", ma come parole che chiedono di non sopprimere con troppa leggerezza l'esperienza del dolore, perché su questa strada disimpariamo a trattarlo, e quando si presenta non disponiamo di altro linguaggio che la radicalità di un gesto. E questo anche quando non si è in coma irreversibile, ma solamente sotto l'incubo di un orizzonte che, per la nostra forza di sopportazione, s'è fatto troppo buio.
L’eutanasia è un problema barocco, di chiaroscuri violenti, di crudi contrasti, pieno d’ombre pesanti. Come l’aborto, è una realtà dentro e fuori di qualsiasi legge, è iscritta nel ventre della vita. Le soluzioni, più che una scelta morale, sono in mano del Fato. E’ inutile dire che non bisogna o non si vorrà mai far questo. Viene un momento in cui tutto quel che si è detto ammutolisce di colpo di fronte a quel che ci succede. La negazione di soluzioni e d’interventi straordinari vale finché tutto è passabilmente normale: mentre stai camminando, trovi insolente che ti taglino una gamba, benedici che te ne libera se c’è passato sopra un treno.
Ve lo immaginate il nostro Parlamento, questo rissoso Parlamento, che discute su come se e se aiutare Piergiorgio Welby a morire? Pensate a pensare alla ferocia di un duello legislativo sull’eutanasia. E, ancora concentratevi su quei tanti corpi italiani, già Campo di Marte delle più inutili terapie mediche, abbandonati all’estremo invelenimento di una qualche campagna elettorale
Perché tante discussioni intorno alla morte assistita, chiesta, invocata, e talvolta come nel caso di Milano (Ezio Forzatti) o come nei casi del radicale Vesci e dell’americana Terri Schiavo accordata, quando il paziente e vivo solo per le leggi biologiche dell'organismo, in quella notte buia della coscienza che non attende più nessun'alba?
Perché è incerto il nostro concetto di "vita" che oscilla paurosamente tra armonia dell'organismo e quella personalizzata dell'individuo che, nelle residue possibilità biologiche del suo corpo, non riconosce e non lascia riconoscere alcun'immagine di sé.
Siamo padroni della nostra vita e quando una persona non vuole più sopravvivere deve essere lasciata libera di morire. E questo vale anche per i bambini che soffrono inutilmente, compresi quelli appena nati. E la scelta olandese è un segno di gran civiltà e non si tratta di decisione presa alla leggera, ci sono regole molto rigide, non sono solo i genitori a decidere ma sono assistiti da un'équipe di medici e ad intervenire è una seria ed accreditata università.
La posizione della Chiesa cattolica con i suoi credenti, parte dal concetto che la vita è un dono di Dio e ne chiede il rispetto fino all'ultimo respiro (vedi appello del Papa: fargli mancare le cure sarebbe un omicidio - al congresso dei medici a Roma).
Cos'è, infatti, la vita? La semplice animazione della materia, come pare di poter dire per certe esigenze tenute appunto "in vita" dalla strumentazione tecnologica? O il rispetto dell'individuo, della sua coscienza, della sua deliberazione che proprio il cristianesimo, e non altri, ha eretto a valore indiscusso, trasmettendo questo riconoscimento alla cultura laica che lo ha assunto a principio della sua organizzazione sociale? Il problema dell'eutanasia non mette in gioco il valore della "vita" che prolifera ovunque, ma il valore dell'"individuo": sia dell'individuo che, in certe condizioni può non ritenersi più degno di sé, e può quindi sentirsi in diritto di decidere di por fine ad un'esistenza in cui più non si riconosce, sia dell'individuo che (come nel caso di Forzatti), invece della persona amata con cui ha condiviso la vita, si trova davanti un puro processo biologico che, grazie all'esistenza tecnica, procede nella sua anonima irreversibilità.
A questo punto sorge la domanda: perché la morte fatica così tanto a entrare nei circuiti dell'amicizia, dell'amore e acquistare così un volto sereno? Perché bisogna morire solo per cause organiche sotto l'unica giurisdizione della scienza medica? La morte è un evento che riguarda il mio organismo oppure riguarda la mia vita, la quale, non è fatta d’organi fisici, ma soprattutto di vissuti, di amori, di amicizie, di stili, di rispetto di sé?
L'organismo, certo, è la condizione della vita, ma la vita si risolve nel buon funzionamento dei miei organi. E quando gli organi non funzionano, per morire bisogna attendere il loro collasso? O si può anche chiedere a chi legifera di rivisitare la nozione di morte connettendola strettamente alla nozione di vita che, come ognuno percepisce, è la nozione decisamente più alta, più ricca, più mia di quanto non sia la nozione d’organismo noto solo alla competenza medica.
Il problema dell'eutanasia è tutto qui. La morte mi riguarda o riguarda solo il mio organismo. Questo pensiero che noi possiamo intervenire, proprio perché coinvolge quel che siamo e non solo quello di cui siamo fatti? Quando c'emanciperemo da questo grossolano materialismo che, cadenzando la vita sulle sorti della materia, c'espropria da quel che la vita ha significato per noi, dello stile che le abbiamo dato, dell'impronta che le abbiamo conferito, per consegnarci irrimediabilmente a quell'evento non nostro che è la morte organica? Perché bisogna morire da soli? Perché la morte non può essere condivisa con chi si è condivisa la vita?
Non è forse nell'aver allontanato troppo la morte dalla vita, non è forse nell'averla considerata un fatto estraneo che sopraggiunge a nostra insaputa e soprattutto senza la nostra partecipazione, la ragione profonda per cui noi temiamo così tanto la morte? Essa è terribile come tutto ciò che è estraneo, anzi come il massimamente estraneo. E in quest'estraneità che inesorabilmente il suo volto terrificante. Con queste considerazioni non voglio spezzare lance a favore dell'eutanasia; semplicemente vorrei che la morte perdesse quel suo tratto d’estraneità che inevitabilmente possiede quando è affidata alle sorti biologiche dell'organismo e diventasse qualcosa di familiare con la vita, qualcosa che non chiude come un evento estraneo amori e amicizie, ma si fa accompagnare degli amori e delle amicizie per cui e con cui si è vissuto.
Questa è la morte "umana" la quale va assolutamente distinta dalla morte "biologica" della quale al limite non ci riguarda ma proprio qui, quando il problema sembra, se non risolto, almeno meglio impostato, deve raccogliersi la nostra attenzione e concentrarsi su questa domanda: esiste un individuo capace di scegliere in piena coscienza prescindendo dalla società in cui si trova a vivere? A mio parere assolutamente no. E se la società nella quale ci troviamo a vivere più non conosce il dolore e le parole necessarie per raggiungerlo, perché conosce solo medici, farmaci, ricoveri, e dopo queste cose più niente? Se il dolore strozza l'anima e il corpo, perché nella nostra società è segregato e rimosso, in quella morsa che racchiude la sofferenza in una solitudine che diventa atroce perché incomunicabile, perché non si conoscono più parole e gli affetti capaci di profanare le mura che la nostra cultura ha eretto, spesse, affinché il dolore appaia come evento alla nostra quotidianità, come si può pretendere che un individuo consapevole di vivere in questa società, scelga "liberamente" di morire o si senta legittimato a staccare la spina?
A questo punto le nostre riflessioni devono spostarsi: dal problema dell'eutanasia al problema dei margini d'esistenza che la nostra società contempla come margini "dignitosi", e considerare su quei margini nella nostra società non sono troppo ristretti come effetto della rimozione metodica del dolore. Se questo, come io credo, è il vero problema, allora anche le parole della Chiesa cattolica possono essere riascoltate.
Non come parole a difesa di un troppo generico concetto di "vita", ma come parole che chiedono di non sopprimere con troppa leggerezza l'esperienza del dolore, perché su questa strada disimpariamo a trattarlo, e quando si presenta non disponiamo di altro linguaggio che la radicalità di un gesto. E questo anche quando non si è in coma irreversibile, ma solamente sotto l'incubo di un orizzonte che, per la nostra forza di sopportazione, s'è fatto troppo buio.
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29/09/2006
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