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Giustizia: "La questione immorale" del Procuratore Tinti giovedì sera a Monteprandone

Monteprandone | Un discorso sulla giustizia non può che iniziare dalla Costituzione e, anche, da quel sentimento tutto italiano che accompagna le nostre considerazioni riguardo la legge e coloro che lavorano perché venga rispettata: una non sana diffidenza.

di Maria Teresa Rosini

Il Procuratore Tinti

Non può considerarsi solo "pessimista" un libro che intende gettare una luce di razionalità, nelle pieghe, nei travisamenti, negli intrecci, nelle volontà perverse che hanno contribuito e contribuiscono a fare dell'amministrazione della giustizia una voce passiva nel bilancio della nostra nazione: così esordisce Filippo Massacci nella presentazione del nuovo libro del Procuratore Bruno Tinti "La questione immorale" giovedì sera, alla sala consiliare del comune di Monteprandone.

Se aumenta costantemente il numero di libri-inchiesta dai titoli inquietanti fondati il più delle volte, su serissime inchieste giornalistiche o su esaurienti analisi condotte da professionisti ed esperti, sembra che essi finiscano spesso col creare il "caso" mediatico senza scalfire significativamente la consapevolezza dell'opinione pubblica, che all'indignazione iniziale fa seguire i segnali inequivocabili dell'avvenuta digestione a testimonianza del fatto che tutta l'indignazione del mondo non sempre è sufficiente a produrre nuovi fatti.

E' a questo fenomeno che il Procuratore Bruno Tinti collega il suo personale pessimismo riguardo la questione "giustizia" quando, dopo averne vissuto professionalmente e analizzato nei suoi libri le infinite incongruenze e gli inestricabili nodi, arriva a sostenere di non riuscire ad intravedere, almeno a breve termine, la possibilità e, meglio, la volontà, di un mutamento di direzione nell'affrontare il problema "giustizia" nel nostro paese.

Eppure non si sottrae ad un compito che non può che spettare a uomini di legge: quello di cercare di portare alla consapevolezza comune tutti i passaggi dell'algoritmo che, nell'insieme delle sue variabili, conduce al risultato che tutti abbiamo sotto gli occhi: il blocco della "macchina" della giustizia italiana.

Un discorso sulla giustizia non può che iniziare dalla Costituzione e, anche, da quel sentimento, tutto italiano, che accompagna le nostre considerazioni riguardo la legge e coloro che lavorano perché venga rispettata: una non sana diffidenza. Potremmo disquisire lungamente sulle origini storico sociali di questo atteggiamento, e c'è chi forse lo ha fatto, se non fossimo ormai all'emergenza.

Le costituzioni nascono, a partire dall'esperienza della Rivoluzione francese e dal concetto di separazione dei poteri, per porre un limite alla potestà assoluta dei sovrani nel momento in cui nuove classi sociali si affacciano sulla ribalta della storia "ufficiale".

Le società si fondano sempre sulla mediazione degli interessi di cui sono portatrici le categorie sociali che, nel tempo, si formano al loro interno e agiscono. La storia ci insegna che si è trattato spesso di mediazioni piuttosto violente giacchè il potere è qualcosa che, per sua natura, difficilmente si accetta di condividere con altri.

In questo ambito il senso delle moderne costituzioni è quello di offrire una garanzia a che alcuni interessi non prevalgano su altri, una volta dato il principio che i sottoscrittori del patto sociale che sta alla base delle nazioni democratiche siano soggetti che si presentino ad essere riconosciuti dalle leggi in modo paritario.

Le norme costituzionali delineano quindi l'ambito di "libertà" all'interno del quale chi governa lo stato in rappresentanza degli elettori, può operare con leggi ordinarie in modo che il compito politico della progettazione delle finalità generali della nazione non scavalchi i principi etici e valoriali su cui la nazione stessa ha deciso di fondarsi.

E' chiaro che ogni Costituzione è il frutto del momento storico in cui è stata elaborata, ma è altrettanto vero che i principi e i valori di riferimento di una nazione non cambiano ad ogni mutare di vento, né possono forzatamente essere snaturati e calpestati sulla base di contingenze ed interessi "particolari".

In questo contesto la nostra Costituzione è una delle migliori esistenti, "un capolavoro di ingegneria giuridica" in cui le tante anime del paese, uscite dall'esperienza devastante della dittattura e della guerra, avevano voluto immaginare e progettare una nazione diversa, dove ognuno avesse uno spazio garantito contro le tentazioni prevaricatrici e avventuristiche di cui si erano sperimentate le desolanti conseguenze.

Eppure, ci dice Tinti riguardo al sollevamento dell'eccezione di incostituzionalità per le leggi ordinarie, oggi si tende a considerarla solo una "pietra d'inciampo", una mera questione formale facilmente aggirabile attraverso qualche trucco giuridico: e di prestigiatori del diritto se ne trovano ormai a iosa, data la sempre crescente richiesta di mercato dell'articolo.

Ciò che è in gioco, ormai da tempo, nei confronti della giustizia e trasversalmente alle diverse posizioni politiche, afferma Tinti, è il tentativo della classe dirigente di sottrarsi al controllo di legalità circa il proprio operato e di spostare l'equilibrio della bilancia dei poteri verso un rafforzamento dell'esecutivo.

Vanno in questa direzione le proposte che da tempo vengono sollecitate da più parti e trovano ampio risalto sulla stampa: separazione delle carriere (giudicante e inquirente), l'abolizione o la limitazione dell'uso delle intercettazioni telefoniche, l'affermazione della discrezionalità dell'azione penale, opposta alla obbligatorietà oggi vigente, l'abrogazione degli articoli 58 e 59 del codice di procedura penale che istituiscono le sezioni di Polizia Giudiziaria presso le procure (visto che l'articolo della Costituzione che le prevede può così più facilmente essere svuotato di senso pur senza porre in atto tentativi di modifica della Carta certo più lunghi e onerosi).

Ma nessuna delle proposte così febbrilmente e diligentemente elaborate potrebbe, sostiene Tinti, accorciare in percentuale significativa la durata dei processi rendendo più efficiente il funzionamento della Giustizia nel nostro paese.

Secondo l'autore infatti, la "madre" di tutte le inefficienze ha una data di nascita precisa: il 1989 con l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale a firma dell'allora ministro Vassalli.

Il nuovo codice, ispirato a quello americano, ne recepiva alcuni elementi senza riuscire a riprodurne l'equilibrio, finendo per acuire ed aggravare pesantemente l'inefficienza del nostro sistema portandolo negli anni, secondo Tinti, all'attuale paralisi.

L'accentuazione dell'aspetto garantista, obiettivo della riforma Vassalli, ha lo scopo, alla vigilia della stagione di "Manipulite", di salvaguardare da ingombranti effetti "legali" le vicende di una politica che si va rivelando sempre più invischiata e connivente con un mondo degli affari che pratica la corruzione a livello di sistema trasformando la mediazione politica in scambio di favori tra potenti.

Su questa strada siamo andati ormai molto avanti senza nessun segnale di significative inversioni di tendenza, anzi, creando artatamente nell'opinione pubblica visuali distorte dei problemi in campo con lo scopo di estorcerne il consenso alimentando disinformazione.

In ambito giuridico infatti, comprendere il significato di ciò che davvero accade e di ciò che viene proposto non è semplice per il comune cittadino che avrebbe invece tutto il diritto di poter conoscere quali sono le conseguenze pratiche nell'ambito della convivenza civile di iniziative dai nomi così suggestivi. Ed è proprio questo l'intento del Procuratore Tinti, il servizio che ha inteso rendere a tutti i cittadini che vogliano comprendere dall'interno ciò che davvero non funziona nell'amministrazione della giustizia.

L'analisi dettagliata delle contraddizioni e delle incongruenze in cui un giudice è costretto quotidianamente ad operare accomunano Tinti ad altri operatori della giustizia che hanno tentato di comunicare il loro qualificato punto di vista in altre opere relative alla questione "giustizia".

La nostra domanda a questo punto è la seguente: perché verso ciò che i giudici affermano dal confronto diretto con i problemi legati alla pratica della loro professione viene esercitato un pregiudizio di parzialità e credibilità? Non dovremmo noi cittadini nutrire allora lo stesso pregiudizio verso chi, in barba alla Costituzione, progetta riforme diffondendo informazioni incomplete o tendenziose circa i problemi della giustizia in Italia?

03/05/2009





        
  



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