I racconti della panchina 2.
San Benedetto del Tronto | Ritornano il killer etico di Pro Bono e il suo cane Josè. LE COLPE DEI FIGLI Parte I
di Francesco Tranquilli
Chi li maltratta, li affama; chi non li ama.
Chi li abbandona sulle strade.
Bisognerebbe rapire anche loro, e abbandonarli senza acqua né cibo su un'isola deserta. Capirebbero, allora.
I cani, invece, non possono capire. E la sofferenza inspiegabile è la peggiore.
La responsabilità di un'altra vita non si può accettare e rifiutare come fosse un gioco, un capriccio.
Distruggere la fede che un animale ha verso il suo dio, il suo umano, è un'azione spregevole.
Gli animali rifiutati, nemmeno io posso salvarli tutti. Anche se vorrei.
Stamattina dovrei riposare, com'è opportuno la domenica. Il mio è uno di quei lavori che hanno senso solo perché il mondo è imperfetto. Quindi dovrei essere soddisfatto e ottimista perché non ho impegni, potrò nutrire i piccioni, ascoltare la Grande Messa di Mozart, poi giocare con Josè, il mio golden.
Eppure ho un peso sul petto, perché l'ingiustizia del mondo non è diminuita, ma soltanto nascosta, in agguato. La sento che mi opprime, come da sempre.
Purtroppo vedo che la mia panchina è occupata. Niente di grave, siamo in un parco, anche le panchine sono pubbliche, e poi non si è mai costretti a fare conversazione, se non si vuole.
Avvicinandomi, osservo la coppia.
Lui è un signore sui sessanta, capelli cortissimi, baffetti appena accennati, viso gonfio, labbra serrate in una chiusura che sembra perpetua, un fisico appesantito dal cattivo cibo sotto il giubbotto aperto sulla camicia a scacchi.
Lei è una donna molto elegante, invece, un po' più giovane di lui, bella, ma si indovina che fino a poco tempo fa è stata stupenda. Il suo sguardo, perso nel nulla, sembra accendersi man mano che mi avvicino.
Ma non per me. Si accende guardando Josè che mi trotterella fra le gambe, aspettando che gli conceda l'abituale lunga scorrazzata domenicale.
"E' permesso?", chiedo.
Non si fanno da parte, non c'è bisogno, la panchina è abbastanza larga per tre.
Lei fa un cenno di assenso, distratto, sempre con gli occhi su Josè. Occhi sempre più umidi.
"Mingle, Josè"
Ma stamattina Josè non mi obbedisce, non si slancia per i vialetti a gara con le bici, a giocare coi bambini, a frugare nei cespugli. Resta a ricevere, compìto, lo sguardo della signora. Fa di più. Le si avvicina, le si accuccia davanti. Lei, timida, allunga la mano e lo accarezza. Lui le si fa ancora più vicino, si lascia coccolare.
Josè è un buon cane, ma non dà mai confidenza agli estranei.
Dopo qualche minuto la signora riprende un contegno, come chi teme di essersi lasciato andare a confidenze inopportune, anche se non ha detto una parola. Josè corre via, appagato, perché ha compiuto una buona azione.
L'uomo ora ha gli occhi stretti, la mano destra chiusa a pugno. Lacrima. Combatte con se stesso per controllarsi, ma il pianto gli sfugge ugualmente. Lei gli prende il pugno nella mano, glielo accarezza.
Imbarazzato, inserisco le cuffiette nelle orecchie per estraniarmi, attraverso la musica, da quello che è un dolore profondo e privato. Ma prima che possa accendere il lettore di mp3, la signora parla.
"Anche Alice aveva un golden retriever. Si chiamava Rania."
Rispondo solo con uno sguardo attento. Metto via il lettore.
"Era una femmina. L'animale più bello e affettuoso mai visto. Mentre Alice era in coma in ospedale, si è accucciata accanto al suo letto e non si è più alzata, né per mangiare, né per i suoi bisogni, è rimasta lì, ad aspettarla. E una settimana dopo è morta anche lei. Più o meno alla stessa ora."
Segue un silenzio. Mi permetto di guardare gli occhi della signora, di un opale sbiadito. Sono asciutti, come la sua voce. Anche il marito ha smesso di piangere, ma non di stringerle la mano.
"Alice aveva vent'anni appena compiuti quando ce l'hanno ammazzata."
Nel mio mestiere raccolgo ovviamente le confidenze di ogni tipo di persona. Ma oggi non sto lavorando. Non me ne stupisco, tuttavia. E' da quando avevo cinque anni che chiunque sente il bisogno di confidarsi con me, di raccontarmi i pensieri nascosti, le emozioni intime, le fantasticherie assurde, sapendo di poter sempre contare su un ascoltatore benevolo, comprensivo, discreto. Un amico vero.
E chi di voi non ha mai confidato una pena ad un perfetto estraneo?
"Ha capito chi siamo, non è vero?"
Una sera di febbraio Alice andò ad una festa in casa di amici. Doveva festeggiare il risultato brillante del suo primo esame universitario. Voleva diventare un medico veterinario. E a quella festa conobbe Giuseppe detto Giusy, un ragazzo dal sorriso inossidabile che sembrava avere in tasca le chiavi del mondo. Dopo qualche ora, andò a fare un giro in macchina sola con lui.
Giusy in tasca aveva anche dell'altro. E ne aveva già assunto un paio di pasticche. Un'altra di quelle pasticche finì, in qualche modo, nello stomaco di Alice, che era già pieno di alcol.
L'autopsia appurò che, quando fu stuprata, Alice era probabilmente semi-incosciente, per il cocktail di liquori e droga che aveva in corpo. Infatti non si era difesa, aveva solo gli abiti a pezzi. Non fu quindi la violenza di Giusy a ucciderla, e nemmeno la droga.
Fu un camion del latte, quando lei cercò di attraversare la tangenziale dove Giusy l'aveva scaricata, drogata, sanguinante e seminuda.
Non la uccise sul colpo, Alice era una ragazza sana e molto forte. Nonostante le sedici fratture e il trauma cerebrale, sopravvisse in coma indotto per una settimana.
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30/06/2009
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