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Il tradimento XVII puntata( VI parte)

San Benedetto del Tronto | Continua il racconto "L'eterno e il regno" del Professor Angelo Filipponi

di Angelo Filipponi

Il seguito del racconto di Shimon

Dopo l'incidente del suicidio dei due zeloti, che poteva diventare un'insurrezione perché in effetti era una condanna del principato di Erode Agrippa (un giudeo filoromano che amava due padroni, che seguiva due padroni, che era servo di JHWH e di Mammon) gli animi si calmarono e lo spettacolo continuò.

Agrippa interpellò di nuovo Shimon che, sollecito, si avvicinò al palco regale, con molta ansia:

Shimon, noi, come vedi ci accendiamo facilmente, ma ci spegniamo ancor più facilmente

Noi siamo saggi, di una saggezza secolare, abbiamo coniugato per secoli sofferenza e sottomissione, abbiamo patito e sappiamo subire, vestendoci di nero, ingoiando l'amaro fiele in silenzio e sappiamo attendere.

Noi attendiamo.Seguitava Agrippa, mestamente.

Noi attendiamo un segno, una parola, una virgola significativa per poterci risollevare ed essere noi, figli unici di Dio.

Noi sappiamo che prima di essere individuo, siamo "ivri", " vedenti" uomini che hanno accolto la parola divina e vivono di tradizione secondo la propria storia ed elezione: solo dopo la coscienza personale di essere giudeo, in relazione alle situazioni, agli uomini e ai fatti, individualmente ci conformiamo ed agiamo secondo coscienza (che diciamo "secondo giustizia") cercando di essere autentici, figli di Dio, ma rimaniamo sempre legati alla "eukairia" alla convenienza, senza la quale non ci sarebbe possibilità di esistenza: noi abbiamo esperimentato varie forme di vita ed ora agiamo secondo la iustitia romana dominante, secondo il logos ellenistico-romano, conservando la nostra identità, seppure in modo equivoco, ambiguo

Dunque, cambiando discorso, disse:

Jehoshua fu lasciato solo davanti a Pilato, dopo la consegna ( metà ten paradidosin).

E Shimon rispose:

Certo, Signore, Certo, Signore! E riprese a narrare

" Noi, sciolta la riunione pasquale, ci dividemmo, alcuni rimasero a dormire presso confratelli in città e il rabbi si fermò per qualche minuto con l'oikonomos a parlare.

Mai abbiamo saputo esattamente cosa si dissero!

Noi e il rabbi, una ventina andammo all'orto dei Getsemani, dove avevamo alloggio.

Lì, prima di arrivare nel caseggiato, un piccola casa, fummo raggiunti da una colonna di uomini del tempio, guidata dal capitano e dal nostro economo, che si avvicinarono indisturbati e strinsero al centro Jehoshua, me, i figli di Tzebedeh ed Andreas, che eravamo in prima fila, separandoci dagli altri.

Io sguainai la spada quando intuii che si voleva prendere il maestro, anche se con le buone maniere.

Fui disarmato dal maestro stesso che disse sorridente che non occorreva, data la presenza di Jehudah e del capitano, che erano amici, ed aggiunse che si trattava di una convocazione notturna da parte del sommo pontefice e che gli armati erano necessari di notte, come protezione come scorta, nel periodo delle feste, in quanto c'erano ladri ed assassini che attaccavano gli inermi pellegrini specie nell'imminenza di un attacco romano.

Egli sorrideva e diceva : "guarda, Shimon, Jerushalaim come risplende di luci: é la luce di YHWH, sia fatta la sua volontà!".

Insomma noi credemmo che si trattasse di una convocazione notturna concordata col gruppo degli Anano per una distensione e per una politica comune e forse per una pacificazione pasquale, non di un arresto: Jehoshua era il maran: noi eravamo i suoi fedelissimi.

Dopo l'iniziale tafferuglio, i più andarono a dormire.

Io e Johanan non eravamo convinti e perciò seguimmo il gruppo col rabbi, da lontano, presentendo qualcosa, timorosi.

Era notte fonda, quando rientrammo in città, oltre la seconda vigilia: la colonna con Jehoshua andò verso la casa di Anano e il maestro entrò col capitano e l'economo.

Johanan rimase con gli uomini del tempio, io andai nella taverna vicina dove molti mi volevano festeggiare, avendomi riconosciuto come galileo ed uomo del gruppo del maestro, ma io feci finta di non essere neppure un seguace, dicendo che si sbagliavano e mi confondevano con un altro: desideravo starmene in disparte, insicuro, preso da inquietudine.

Arrivò una guardia del tempio e disse che Yehoshua il re era stato arrestato come bestemmiatore da Kaifas e che era tenuto prigioniero, da consegnare ai romani, come colpevole di tradimento verso l'impero, come reo di novitates.

La gente rimase sorpresa ed io sbalordito.

La situazione era del tutto mutata: Jehoshua ora era un indagato: la condanna a morte era sicura: i romani non potevano perdonare chi si era fatto re!

Quando la padrona della locanda, poco convinta delle mie precedenti risposte, mi richiese se io ero un famigliare del re , io nervosamente risposi che neanche lo avevo mai visto ed uscendo incontrai sulla porta un uomo, che mi rifece la stessa domanda ed io, precipitosamente, allontanandomi, smanacciando, giurai che io non conoscevo Jehoshua.

Io ero  impaurito e in preda ad una agitazione che mi impediva ogni ragionamento: perciò mi coprii col mantello e mi immersi in un vicolo ancora buio.

Solo quando sentii un gallo cantare, mi ricordai di una frase del maestro: "Prima che il gallo canti mi rinnegherai tre volte" e piansi amaramente.

Mi ero rifugiato nel cenacolo, dove erano rimasti alcuni confratelli e mia moglie con i figli, timoroso per la mia stessa vita e per quella dei miei famigliari.

Là mi avevano raggiunto tutti gli altri e lo stesso Iscariota, che era tutto afflitto e che dava una sua versione a Tommaso che lo aveva assalito e ai figli di Zebedeo, che lo minacciavano di morte.

Tutti erano furenti contro di lui: lo volevano uccidere.

Egli sosteneva che lo stesso Jehoshua gli aveva ordinato di consegnarlo agli anziani: la città poteva essere salvata solo in quel modo, altrimenti sarebbe stata distrutta.

Lui non avrebbe voluto accettare, ma poi, in seguito alle preghiere e agli ordini, aveva obbedito: sapeva bene che sarebbe stato considerato un traditore; lo sapeva bene anche Jehoshua che, perciò, lo aveva scelto pregandolo di dovergli darei una funzione da maledetto.

Egli ripeteva da ebete che il maestro gli aveva allora così detto: "fa o Giuda ciò che bisogna fare; il figlio dell'uomo conosce il tuo animo, conosce la verità! Questo è scritto nel libro del padre: il figlio deve soffrire per i suoi fratelli! Anche tu devi fare la tua parte!"

Piangeva anche lui, Giuda, piangeva perché era stato costretto ad obbedire, a comportarsi da traditore.

Shimon ora piangeva, al ricordo del suo tradimento e del tradimento di Jehudah.

Shimon, abbassò la testa, afflitto: il re ne ebbe pietà

 

Il racconto di Agrippa

Agrippa, vedendolo triste, disse:

Non rattristarti, Shimon, ed ascolta.

Noi tutti ebrei abbiamo nel sangue, per natura, la forza e siamo portati alla manifestazione della nostra elezione grazie alla potenza del nostro Dio, ma nella storia abbiamo dovuto subire e a seconda delle situazioni abbiamo agito opportunamente per la nostra salvezza, facendo la nostra politica: Jehoshua stesso si è conformato alla storia facendosi consegnare.

Noi comunque, tutti abbiamo recitato la nostra parte di opportunisti e traditori.

Noi, consiglieri, fummo convocati d'urgenza, il mattino, nella sanhedrim, vicino al tempio e ci fu condotto Jehoshua, legato.

Io ero un consigliere aggiunto, da poco: grazie all'interessamento di Kanthara e grazie alla mia nobiltà, ero entrato finalmente tra i giudici di Israel ed ero orgoglioso: il signore mostrava il cammino che dovevo percorrere.

Kaifas il sommo pontefice, sadduceo ora presiedeva al posto di quello esseno: una novità rispetto alle altre assemblee:

Subito, dopo la preghiera rituale, Kaifas disse che la sera prima si erano riuniti in pochi e che sotto la presidenza del suocero Anano c'era stata una riunione informale in cui si era stabilito precauzionalmente il fermo di Jehoshua e la nuova presidenza

E poi gelò tutti i settanta dicendo:" meglio che muoia uno e che la morte di uno sia salvezza per tutti gli altri".

Noi tutti insorgemmo avendo capito chi Kaifas intendesse.

Noi tutti gridammo: "come?, Perché ?" "Chi osa condannare senza la maggioranza?"

Specie i Kanthara erano furibondi.

Noi sapevamo che Kaifas parlava così perché la situazione a Gerusalemme era critica: i romani stavano alle porte della città intenzionati ad assediarla, ad espugnarla, a mettere a ferro e fuoco Sion e a scannare tutti i cittadini.

"I romani hanno deciso la distruzione, la distruzione del Tempio, la nostra uccisione", disse gravemente e lentamente, marcando i termini.

"Noi siamo incolpati di novitates, siamo accusati di rivoluzione: Roma ha già deciso la nostra fine; l'assedio di Ierushalaim è un segno di tale proposito ".

"Ed Izate? " Chiese un sadduceo.

Izate è impegnato a salvare se stesso e la sua patria, minacciata dalle legioni romane- rispose qualcuno.

"Ed Artabano non interviene?" Fece un altro.

"Artabano ha fatto un trattato con i romani a Zeugma, ha dato suo figlio Dario in ostaggio ed ha pagato un indennizzo di guerra": Rispose Kaifas, ben informato.

" Ed Asineo?"si chiedeva.

Kaifas aggiunse :" Asineo si è ritirato nella sua satrapia, dopo duro combattimento.

Felice16 aveva avvertito Vitellio, che aveva schierato l'esercito come una barriera al confine".

"Felice ci ha tradito?" Urlava Nicodemo, che aveva capito ogni cosa.

" Antonia ha vinto: ha infiltrato tra noi il suo uomo migliore!

Cosa possiamo fare ora: noi non possiamo sostenere l'assedio; abbiamo bisogno di tempo, dobbiamo tergiversare".

E tutti i seguaci di Jehoshua a capo basso annuivano.

Tutti riflettevano, in silenzio.

E Kaifas incalzava: "Pilato ha le prove che noi tutti, chi più chi meno, siamo coinvolti nel Regno dei Cieli: ha fatto dei nomi, ha insinuato di conoscere i capi, di sapere i tempi, di aver fatto controllare i luoghi, le assemblee": si è accordato con Vitellio per annientarci.

"Noi abbiamo", diceva Anano," scritto a Roma, abbiamo inviato messaggeri all'imperatore: non abbiamo risposta: queste cose vanno per le lunghe: Tiberio logora con la sua lentezza, uccide senza condannare, lascia fare: preferisce che il tempo faccia giustizia: è la sua filosofia, la sua politica, specie con noi , che siamo considerati stirpe scellerata. Stiamo pensando di mandare uno di noi caro ad Antonia e all'imperatore per perorare la nostra causa.

Kaifas, poi, faceva un esame di coscienza e confessava: "noi tutti abbiamo sbagliato; noi siamo colpevoli di aver aspirato al Malkut, di aver creduto in Jehoshua, che operava prodigi, che guariva i malati, che risuscitava i morti; noi lo abbiamo acclamato marin, noi abbiamo pensato che ci avrebbe riunito, avrebbe riformato il patto di alleanza e ci avrebbe guidato alla vittoria".

"Si, noi crediamo che il regno dei cieli è vicino" urlarono alcuni galilei.

Il sommo sacerdote ora incalzava:" o noi tutti periremo o lui solo. Morirà tutto il nostro popolo e non ci sarà più traccia della nostra stirpe in Palestina, se non daremo il capo della rivoluzione: questo aut aut ci ha dato il governatore di Siria, tramite Pilato: non abbiamo altra speranza di salvezza: dobbiamo cedere alla forza".

"Noo!". I Kanthara urlarono in gruppo.

"No!" Si replicava da più parti dell'aula.

Poi un galileo per tutti disse:" Jehoshua non si tocca: tutti siamo colpevoli, tutti dobbiamo morire: perché dobbiamo salvarci col sangue dell'innocente, con la morte dell'agnello? Perché ragioniamo da ipocriti?"

Il Galileo, infervorato, aggiungeva: "Jehoshua è il giusto, l'adir di Israel, seguiamolo anche nella morte".

Si era fatto un cupo silenzio: erano uomini che decidevano il destino della loro patria; consiglieri, che conoscevano la spietata reazione romana; padri, che dovevano cercare il bene delle loro famiglie, giusti che dovevano proteggere la santità del nome di Israel e sentivano la fatica di essere uomini, e di vivere un momento unico e di dovere prendere una decisione irripetibile, di entrare nella storia, di iniziare un'era nuova. Tra il silenzio generale vidi alzarsi il più riverito tra i consiglieri di Giudea, Josip di Arimatea, che sembrava neppure sentire il silenzio degli altri, che ora guardavano il vecchio semicieco e trattenevano il respiro.

"No, fratelli," disse serenamente," no, l'agnello non deve essere sacrificato: noi siamo abituati ad uccidere l'agnello per placare l'ira di Dio ed ora ripetiamo il rito per placare i romani: facciamoci, una sola volta, noi agnelli di Dio: accettiamo la sua volontà: Dio vuole la nostra morte: offriamoci come vittime noi tutti per la salvezza del popolo: muoiano i capi che hanno peccato e sia salvo il popolo, che non ha peccato e che ha seguito le vie indicate, errate".

Anano si alzò lentamente, come se faticasse: era un suo modo di presentarsi, quasi dimesso, come se richiedesse uno sforzo al suo fisico asciuttissimo e segaligno: egli sapeva di aver il potere incontrastato nella sanhedrim, da buon sadduceo riusciva sempre a prevalere più con le cattive che con le buone, più con l'arroganza e il sopruso che con la diplomazia e la mediazione: era scheletrico nell'aspetto, ma logico, deciso, sicuro nel suo livore: "ben dice il fratello Josip! Dobbiamo fare la volontà del padre.

Sembrava propendere davvero per la decisione di Giuseppe, ma subito si corresse:

Si, facciamo la volontà del padre, quella del padre Abraham", aggiunse.

"Nostro padre Abraham ci dà l'esempio e Dio ce l'ha mostrato: il figlio unico Abraham offrì a Dio sul monte Moria: imitiamo, dunque, Abraham, nostro padre.

Il padre era pronto a sacrificare il figlio: noi siamo pronti a sacrificare il nostro figlio, fedelmente, come lui".

"Certo", incalzò astutamente Kaifas, che vedeva che i consiglieri cominciavano ad inclinare nel senso giusto e che la prepotenza verbale sadducea cominciava a prevalere, certo, il padre vuole che Israel viva, non muoia: le sue promesse di eternità per chi allora sarebbero? A chi andrà il cleronomos, se noi tutti moriamo? Meglio che muoia uno per tutti: noi immoliamo l'agnello per la salvezza del gregge e il suo sangue ricada su tutti noi, purificandoci".

Gamaliel, inaspettatamente si schierò dalla parte del sommo pontefice e così tutti gli altri farisei ed io stesso, che, nuovo consigliere, seguivo quelli del mio gruppo, i moderati, che ripeterono quasi le stesse parole: "Il giusto paghi per gli ingiusti: la nostra storia si ripete ciclicamente: sempre un giusto è morto per i suoi fratelli".

Ed io personalmente dissi:" noi crediamo nel malkut e i romani lo sanno: ciò significa rivoluzione per loro: noi dobbiamo dare un segno della nostra lealtà all'impero: diamo l'adir e la sua morte sarà vita per noi, suo popolo. Questo io, come vostro ambasciatore, dirò presto a Tiberio testimoniando coi fatti la nostra obbedienza e il nostro ravvedimento 17 ".

"Dunque", disse Kaifas, facendo il punto, trionfante per aver una soluzione, per aver risolto il dilemma postogli da Pilato,"ora dobbiamo decidere se venire sterminati o consegnare il capo della rivoluzione".

Ed aggiunse: "Anche Erode Antipa è d'accordo, anche lui coinvolto.

Ora è dalla parte dei romani e si è distaccato da noi: ha preso le distanze la volpe e segue una sua politica di corruzione, di intrighi: faccia pure, riacquisti la sua verginità, non riavrà mai la sua anima.

La nostra decisione sia unanime: ogni incertezza deve essere bandita tra noi, altrimenti il nostro stesso consesso e gli stessi istituti patri saranno distrutti: votiamo, dunque, la consegna di Jehoshua Barnasha!

Sia la nostra univoca risposta, che vincoli per sempre noi, obbligati a questa dolorosa scelta dal nemico trionfante: noi paghiamo il tributo per la nostra sconfitta!"

Si sedette, soddisfatto del discorso, ma triste, infinitamente triste: aveva su di sé tutta la colpa di Israele.

Ora si sentiva solo lo scrivere dello scriba tachigrafo, che registrava le parole di ognuno, come testimonianza di quanto detto: un silenzio di complicità, prese tutta la sanhedrim: ognuno segretamente meditava fra sé prima del voto, ma il voto era diventato non una decisione di morte su un innocente, ma una scelta da fare tra un altro da sacrificare e se stesso da salvare, tra la morte di un altro e la vita propria: ognuno scelse la propria e si lasciò convincere dalla giustizia del voto e dall'esempio di Abraham.

L'equivoco di padre salvava tutti: tutti lo sapevano, tutti falsamente avevano capito il passaggio , ma nessuno aveva rettificato! Così va la storia!

L'uomo sa giustificare la propria Eukarìa, anzi ha bisogno di giustificare il proprio opportunismo, altrimenti vive nel rimorso: in questo modo zittisce la propria coscienza e si sente perfino giusto e l' ebreo è maestro di questo sistema di vivere.

Qualcuno arrivò poi a dire, come commento ebete, di invidiare, una volta salvo, la sorte dell'agnello pasquale, immolato per il suo popolo.

"Diamo Jehoshua e salviamo il nostro popolo", ripeté ambiguamente Anano, inopportunamente, come per vincere le ultime resistenze, rompendo il silenzio, improvvisamente.

"Concediamo vivo Jehoshua, il nostro maran, il basileus, il re.

Obbediamo al comando di Pilato e la festa essenica potrà essere celebrata con una vittima santa", aggiunse scioccamente qualcuno.

"Diamo, allora, Jehoshua, il profeta, in mani romane e salviamo Israel!"

Dissero, allora, in coro i sostenitori di Anano, marcando come al solito la loro vittoria sugli avversari, dimentichi della comune tragedia.

In certi casi tragici, noi pensiamo solo a noi, anche se siamo rappresentanti di un popolo: l'egoismo rende i tanti uno, unanimi, fermi, come uno, nella volontà di vivere: è la forza della disperazione che fa perdere il senso degli eventi e la proporzione delle cose e mostra la nostra anima infantile, impaurita.

E ci dicevamo tra noi per non sembrare vili,come giustificazione:" ma chi diamo ai Romani?"

"un agnello o un adir?"

" Uno come noi o un essere superiore?"

"Chi è Jehoshua?" Ci chiedevamo, quasi interrogandoci, dopo avere votato.

"Un uomo, che vince la morte, è un uomo?"

Un uomo che ha detto ‘io sono la vita ‘ è un mortale?

Chi dice ‘io sono la resurrezione' non è come noi.

Ed io pure pensavo:" Lui è lui, la sua parola è azione, quella di un dio: lui non è certo un uomo come noi!"

E noi, dunque, votammo tutti la sua consegna ai romani: noi scegliemmo la vita per noi.

E legato, lo facemmo portare da Pilato, che, saputo dell'arresto di Gesù, lo inviò direttamente ad Erode Antipa18, che non era ancora ripartito, dopo la Pasqua giudaica.

Era il suo un comportamento di feroce ostilità nei confronti di Antipa: voleva lasciare a lui la responsabilità delle repressione, in quanto voleva incastrarlo e davanti al senato e davanti alle masse, voleva cogliere la volpe nel pollaio per accusarlo.

Pilato considerava Erode, colpevole di tradimento, coinvolto inizialmente nella rivoluzione, come fedele che ammirava e temeva il maestro, come sovrano che favoriva la crescita della comunità di Caphernahum, come autorizzante le riunioni religiose, perché un giudeo è giudeo per l'eternità e nemico sempre di Roma, anche se fedele servitore.

Il governatore sapeva che il tetrarca, conquistato dai miracoli del suo suddito, si era allontanato da lui ed aveva cavalcato gli entusiasmi popolari del Regno dei Cieli, ma poi aveva capito che troppi galli cantavano in quel pollaio, troppe divergenze circa la conduzione militare, troppe ideologie, troppe (teste) càpita pensavano, troppo trionfalismo perché la Dea Roma non capisse e Tiberio coi suoi astrologhi non neutralizzasse gli influssi siderali e non inondasse di truppe quel piccolo territorio giudaico.

Ed aveva fatto il delatore velatamente presso il governatore Flacco ad Antiochia, dove aveva mandato mio fratello Aristobulo con lettere, poi aveva messo la pulce a Capitone ed infine si era lamentato con lo stesso Pilato delle masse che si spostavano senza autorizzazione, d'accordo con Filippo suo fratello, novello sposo della piccola Salome, ed infine aveva accolto nel suo territorio Lucio Vitellio prima della campagna antipatica.

Certo Pilato voleva screditarlo presso i senatori del partito claudio, voleva che giudicasse il Messia lui, che voleva apparire il difensore dei deboli, il giudeo buono, ligio alla legge: voleva giocare come il gatto col topo, vedere come gestiva quella situazione difficile, leggere la sentenza per trovare una virgola magari, equivoca per impugnarla contro di lui, voleva soprattutto godersi lo spettacolo della sua vittoria, del suo trionfo diplomatico, della sua abilità di politico, di lavarsi le mani e di far scannare i suoi nemici: avrebbe guardato dall'alto dell'Antonia Gerusalemme riconquistata ai suoi piedi e i giudei, sacerdoti e nobili, sempre a lui ostili, sempre pronti ad inviare lettere al senato e all'imperatore, costretti a condannare il loro re profeta, il loro Meshiah-nabi, il Barnasha.

Egli voleva leggere le motivazioni scritte dalla Sanhedrim e dal tetrarca, figlio di Erode.

La sua era una vendetta romana, la più crudele di tutte perché inflitta psicologicamente dal più forte militarmente: voleva che il popolo giudaico si suicidasse e che si rimescolasse nella sua feroce rabbia impotente e che si scannasse, nei singulti della morte e i romani, con lui, giudici, disinteressati, si godessero lo spettacolo degli scontri mortali.

"Ecco", concluse Agrippa, "Pilato fece come noi abbiamo fatto con gli zeloti: li abbiamo fatti scannare tra loro, in varie forme: noi non abbiamo goduto, però, l'abbiamo fatto; Pilato, invece, godeva del nostro odio reciproco, della nostra selvaggia azione suicida, da Romano vincitore".

Allora Agrippa tacque e rimase pensieroso.

 

 

Il racconto dell'alabarca

L'alabarca ascoltava in silenzio le parole del re.

L'alabarca ruppe il suo silenzio e disse con tristezza : " io allora avevo rapporto con Erode Antipa, che mi aveva invitato a passare la Pasqua con lui a Gerusalemme insieme a mio figlio, che in segreto, come figliuolo prodigo era tornato dal padre, dopo una confessione e una punizione, inflittagli dagli anziani di Alessandria, che lo riammisero fra i neofiti.

Io ero felice che mio figlio fosse tornato all'ovile, anche se ancora pagano, anche se ancora guerriero: la macchia dell'apostasia era stata lavata dal sangue delle sue ferite, purificata dalle battiture rituali.

E noi salimmo a Gerusalemme per mangiare l'agnello con animo zelante, come lo può essere un alessandrino, un emporos, fiducioso di veder segni da parte di Jehoshua.

Invece....

Invece ci fu notificato, all'arrivo, da nostri servi allarmati, che il nostro amico Jehoshua, accusato di tradimento e novitates, era nella casa di Erode.

Rimasi sorpreso, ma me l'aspettavo: non poteva durare a lungo l'impresa.

No, non poteva durare.

Comunque io avevo compreso già che troppe voci circolavano, troppa euforia c'era sul Regno dei Cieli: il popolo stesso si animava e si agitava troppo; mancava un gruppo di saggi, capace di organizzare l'informazione e di impedire la fuoruscita di notizie: il sistema agricolo vive di chiacchiere e le chiacchiere si diffondono ed arrivano a chi non devono arrivare.

Erode Antipa ci stava attendendo: sembrava smanioso di mostrarci la sua conversione, la sua fede per la dea Roma; aveva bisogno di testimoni e difensori, che lo avrebbero scagionato davanti ad un tribunale romano.

Subito ci pentimmo di essere andati: la nostra purificazione non poteva avvenire in una casa di un uomo, più goy che giudeo, un simulatore, ora pronto a rinnegare molti atti della sua vita per salvarsi.

Lui, che aveva sognato di mettersi a capo della rivoluzione galilaica (me l'aveva confidato un suo servo) lui che aveva chiesto il mio aiuto finanziario, capì che Ponzio Pilato aveva scoperto ogni cosa e che aveva denunciato già tutto al senato, ai capi del partito giulio, ai claudi e a Macrone, il nuovo potente capo pretoriano, incaricato di dirlo a Tiberio e a Gaio Cesare Caligola, destinato alla successione insieme a Tiberio Gemello.

Lui, che aveva fatto uccidere alcuni suoi liberti, che avevano portato lettere e che aveva contattato Izate, che, neanche gli aveva risposto, (e lui qui presente lo conferma), ora, aveva davanti Jehoshua il puro Jehoshua, l'agnello di Dio, pronto a giudicare l'uomo che avrebbe voluto seguire".

"Fece quello che aveva fatto col Battista: voleva la sua amicizia, ma non accettava la sua parola santa; desiderava attirarlo dalla sua parte con tutto il popolo, per odio contro i romani, ma poi lo fece uccidere, temendo le sue accuse!" Disse nervosamente Agrippa, indispettito.

L'alabarca seguitò il suo racconto.

"Non aveva più accanto nessuno dei suoi fidi collaboratori (erano stati strangolati); come una volpe, fiutato il pericolo, si era protetto mediante lettere delatorie circostanziate ad Antonia e si difendeva davanti a Roma infierendo sul nabi inerme.

Un processo farsa, una dramatopoiia!

Jehoshua fu portato a spinte nella sala grande, quella dei grandi ricevimenti e delle sentenze: egli era seduto come giudice secondo la prerogativa dei re di Israel, in basso sedevano nuovi consiglieri, due sadducei, tre farisei e alcuni parenti erodiani.

In piedi un gruppo di cortigiani, tra cui c'ero io, attendeva l'evolversi della causa, plaudendo già al verdetto del tetrarca.

Il nabi manteneva intatta la sua forza spirituale, che anzi sembrava perfino aumentata: la sofferenza fisica in alcuni individui accentua la dignità, dando un fascino maggiore.

Non ci fu accusa: i fatti si erano svolti palesemente e tutti conoscevano la storia di Jehoshua, il nabi tecton, il figlio dell'uomo, il soter del popolo ebraico, il riformatore che voleva coniugare la fede agricola con quella commerciale, che voleva fondere noi giudei ellenisti con voi giudei oltranzisti, un puro integralista che però voleva l'unione di tutti i giudei.

L'accusato non rispose al giudice: il suo silenzio per noi presenti era eloquente, come il suo volto: cosa può dire un giusto ad un traditore opportunista, avido di cavalcare il suo successo fino a poche ore prima, convinto del risveglio giudaico, ansioso di sedersi tra i vincitori?

Il re chiedeva, investigava, ricercava la verità, accusava, faceva arringa, con la retorica propria degli oratori asiani.

Non ci fu difesa: solo la vittima, composta, guardava in alto, come se non sentisse, come se si parlasse di un altro, come se già fosse in Dio.

Neppure la conclusione, non certo giuridica di Erode, che suonava condanna, scosse dall'ecstasis Jehoshua: "E' un pazzo, quest'uomo! un pazzo è davanti a noi: toglietemi dalla vista questo pazzo, vestitelo da pazzo e portatelo dal procuratore!"

Io, come ellenista, presi subito le distanze: dovevo tirarmi indietro perché noi emporoi non possiamo avere nemici, ma solo amici, perché tutti possono essere utili prima o poi e perché il denaro serve a tutti, anzi nelle guerre noi serviamo ad entrambi le parti in contesa: noi prosperiamo col male degli altri.

Me ne andai via.

Comunque, io sapevo che la rivoluzione avrebbe potuto avere una soluzione positiva solo se c'era denaro e solo se Izate, Asineo ed Areta, avuto il consenso di Artabano, avessero invaso il territorio giudaico all'atto della ribellione galilaica ed Ituraica e al contemporaneo movimento insurrezionale scoppiato a Gerusalemme.

E la cosa era riuscita all'inizio: ma, ora, a distanza di anni, la superiore organizzazione tecnico-militare romana non dava scampo all'improvvisazione fideistica giudaica: Vitellio aveva già riconquistato ogni parte dell'impero con il tradimento e con la forza ed ormai era padrone di tutta l'area eufrasica ed aveva riordinato la Joudaea come sottoprefettura dipendente dalla Siria.

L'ordine romano ora era tornato: la giustizia romana doveva essere applicata dal suo rappresentante Pilato.

Io certo fidavo in Jehoshua: per me lui garantiva per tutti con la sua figura di davidico e con la giustizia; affidabili erano le sue forze di zeloti, buona la predicazione essena e farisaica che coinvolgeva i popolani; sicuro il mio supporto economico, che avrebbe attirato anche quello dei sadducei, incapaci di resistere alla tentazione di aumento di capitale, sulla base del mio exemplum.

Ma ora a rivoluzione fallita, a capo preso, mentre Antonia trionfava e il suo Felice era stato tanto abile da scoprire rapidamente il tutto, da tenere controllati perfino i dettagli della controrivoluzione, da lui ben pianificata, bisognava mettersi dalla parte dei vincitori, negare i coinvolgimenti, nascondere le prove: Erode diventava il modello da seguire; anche i re possono cadere, ma non gli emporoi, quando è il tempo dei reazionari.

Comunque, io già avevo intuito qualcosa: un trapezites di Antiochia parlava di movimenti di eserciti ordinati dapprima da Flacco, aveva avuto notizie riservate sulla intensa corrispondenza tra Pallante e Felice, conoscevo le missioni di mio figlio troppo frequenti nell'area Galilaico-Giudaica; inoltre una richiesta di grano di Filippo con sibilline frasi del tipo "utile in questa mutata situazione" mi avevano fatto meditare, la vittoria su Artabano da parte di Vitellio, infine, mi aveva fatto accelerare i tempi.

Anch'io fui eukairos, tempestivo nel riallacciare i rapporti con Roma e coi vincitori e sollecitamente abbandonai il campo dei vinti: la domus augusta era stata per noi oniadi sempre la nostra ancora di salvezza: Cesare, Augusto e Tiberio avevano segnato in vario modo la nostra scalata alla ricchezza, anzi erano stati quelli che avevano aperte infinite porte al nostro commercio e alla nostra amministrazione.

Anche se ebrei, anche illusi dall'idea messianica, non potevamo rimanere da idealisti,  dietro le insegne sconfitte di Jehoshua.

La sconfitta vanificava ogni messianesimo, anzi lo annullava, dimostrando che l'uomo sbaglia e che la volontà di JHWH è un'altra.

Tutti i segni, da me esaminati, evidenziavano il reale volere di Shaddai e la giustizia del kosmos romano.

Siccome i segni non erano casuali, la presenza di mio figlio, spiegabile dal lato affettivo e religioso mi sembrò un atteggiamento di cautela e di protezione, ed allora decisi di allinearmi di nuovo, di essere parte del Kosmos ellenistico, di riprendere la nostra tradizionale forma di cooperazione filoromana.

Certo i romani sapevano da tempo che noi giudei stavamo tramando qualcosa: essi diffidano di noi anche se fedeli: noi in effetti siamo davvero malfidi nei loro confronti perché amiamo la libertà e siamo diversi per fede, e perché soprattutto siamo, come orientali, troppo difficili da leggere per loro, occidentali pratici e di recente cultura.

Essi ci dicono giustamente perfidi perché come fedelissimi siamo integralisti credendo solo nel nostro Dio e rifiutiamo ostinatamente ogni altra divinità, apparendo infidi.

Io, comunque, me ne andai, ma avevo applaudito come gli altri Erode che aveva fatto vestire Jehoshua di scarlatto e lo aveva inviato da Pilato: non volevo compromettermi con parole, anche se mi crollava il sogno del Malkut ha shemaim.

06/02/2010





        
  



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