Antonio Ingroia: testimonianza dal Labirinto degli dei
San Benedetto del Tronto | Tredici racconti, tredici storie di mafia e antimafia narrate dallinterno, resoconti di una guerra che si gioca proprio sullintelligenza del comprendere, del collegare fatti, personaggi, motivazioni.
di Maria Teresa Rosini
ingroia
Al centro dei suoi interessi già nel periodo in cui era studente universitario a Palermo, come ci racconta lui stesso, le organizzazioni criminali note universalmente come mafie, e quella siciliana in particolare, resteranno per sempre oggetto dell'attenzione e dell'impegno professionale del magistrato Ingroia che inizia la sua formazione a Marsala a stretto contatto umano e professionale col giudice Paolo Borsellino, suo maestro, di cui raccoglierà il testimone dopo la strage di via D'Amelio del 1992. Del senso di solitudine seguito alla tragica e inquietante morte di Borsellino, della percezione di un possibile fallimento che avrebbe disperso tutta la mole di lavoro già svolto, Ingroia ci parla cercando di porre distanza emotiva da un evento che deve essere stato decisivo per la sua vita e il suo futuro. Quello che seguì fu un periodo in cui lui e gli altri giovani magistrati, che sotto la guida e l'insegnamento di Borsellino avevano lavorato, incrementarono il loro impegno lavorando quasi oltre le proprie forze per proseguirne il lavoro e portarlo a termine.
Mercoledì sera molti (circa 400) erano presenti ad ascoltare Antonio Ingroia, nella splendida cornice della banchina del Circolo nautico, manifestando di una volontà di conoscenza e comprensione del fenomeno mafia non sempre soddisfatta dai consueti canali di informazione. Infatti tra gli allarmi circa la penetrazione mafiosa nel mondo finanziario ed economico ormai in tutte le regioni del paese e il trionfalismo per i successi di alcune operazioni antimafia degli ultimi anni, non è semplice per il comune cittadino elaborare una cognizione precisa della fase attuale del fenomeno.
Quella della mafia è infatti divenuta nel tempo una realtà dalle molteplici facce, cui la capacità di continuo trasformismo ha consentito di restare attaccata come un parassita, un virus mutante, al sistema nervoso centrale dello stato, continuando a preservare e incrementare la sua vocazione al crimine e, nell'anteporre a ogni costo gli interessi di pochi al sano sviluppo di un'intera nazione, attraversare tutte le stagioni della nostra storia repubblicana disseminandole di omicidi, stragi, connivenze, in un'illegalità diffusa e pervasiva, in un "sistema" impermeabile e resistente ad ogni tentativo di debellarla definitivamente.
Ripercorrendone la storia un segnale importante è rappresentato dal tempo che è stato necessario solo per far entrare la parola "mafia" nella terminologia corrente. In molti hanno contribuito a far sì che nel passato (non molti decenni fa) essa fosse impronunciabile. In questa impronunciabilità era in realtà già evidente il peso che ciò che dietro quel nome si celava aveva ed ha continuato a mantenere nel determinare la storia del nostro paese. Oggi all'impronunciabilità si è sostituita, in un meccanismo perverso, la disinformazione. Ciò che è "mafia" continua ad essere qualcosa di "non dicibile", di cui si può parlare sì e anche molto, ma sempre, in fondo, tra un dire e non dire.
Oggi, ci dice infatti Ingroia, non è cambiato molto. Nonostante i successi, le nuove leggi, gli arresti, le molte vite sacrificate, il ruolo dei movimenti antimafia dei cittadini, come in un "loop" infernale, un ciclo che si ripete a intervalli regolari, si ritorna sempre daccapo e svoltato un angolo che sembrava quello definitivo si torna a perdersi in un labirinto che non lascia intravedere vie di uscita.
E' questa la sensazione che spesso i magistrati in prima linea nella lotta alla mafia hanno avvertito: di ripercorrere le circostanze, i contesti, gli ostacoli già incontrati in altre fasi, di procedere per significativi passi avanti seguiti irrimediabilmente da regressioni.
E' quasi come se la mafia, l'illegalità eretta a sistema, fosse una belva feroce di cui si devono frenare gli eccessi, ma che in fondo può tornare utile in altre fasi, per spaventare, per svolgere lavoro "sporco", per inquinare e distorcere il clima della convivenza civile a vantaggio di chi sa usarla. Ecco il perché, secondo Ingroia, del tira e molla delle iniziative statali più severe e restrittive seguite da allentamenti, da inspiegabili cedimenti quasi sempre accompagnati da campagne diffamatorie nei confronti dei magistrati.
"In questi ultimi anni l'informazione sul fenomeno mafioso è stata dominata dalla disinformazione. E' stata raccontata agli italiani una storia alla rovescia di questi ultimi vent'anni, cruciali nella storia del nostro paese: dalla stagione dello stragismo mafioso, alle indagini tormentate sulle connivenze tra mafia e settori cospicui della classe dirigente nazionale, al ruolo dei pentiti." Questo afferma Antonio Ingroia e non è certo il primo né il solo magistrato a lanciare questo allarme.
E' questa voluta disinformazione dell'opinione pubblica riguardo la realtà dei fenomeni mafiosi e la loro complessità che ha fatto sì che molti magistrati si siano risolti ad utilizzare la scrittura come strumento di comunicazione e testimonianza ai cittadini.
Ed è proprio verso i magistrati, coloro che vivono ogni giorno sulla loro pelle in mille forme, in molteplici segnali e sfumature, il fenomeno mafioso e che ne sono quindi i principali conoscitori, che si è condotta invece una campagna diffamatoria in cui le loro parole e le loro verità "dal di dentro" sono divenute l'espediente per trasformarli paradossalmente in "imputati" di reati non presenti nel codice penale: di protagonismo, di desiderio di ribalte mediatiche, di ambire a costituire un potere politico in contrasto con quello democraticamente eletto.
Una delle ragioni per le quali uscire una volta per tutte dal perverso "labirinto degli dei" (metafora mutuata nel titolo dal Gattopardo di Tomasi di Lampedusa) non sembra ancora possibile è l'integrazione e l'assunzione di strategie comuni tra le varie mafie regionali e anche straniere, miranti ad un controllo totale del territorio senza il ricorso, se non in misura limitata, alle tradizionali attività criminali basate sulla violenza e la prevaricazione esplicite.
Non più lupara e coppola quindi, ma professionisti istruiti e acculturati, "mafia dei colletti bianchi", ben mimetizzata nella società, che muove denaro e conclude affari in una parvenza di normalità e legalità e la cui rete di connivenze, omertà e corruzione sfugge a sguardi che non siano più che allenati a coglierne i segnali.
Ma causa determinante del fatto che si siano vinte molte battaglie ma non quella definitiva è soprattutto nel nostro sistema politico-istituzionale che nei suoi settori (non pochi per la verità) più spregiudicati ha stretto da tempo un "patto col diavolo", che si rinnova trovando sempre nuovi sottoscrittori.
Si cede alle lusinghe o alle minacce mafiose, per desiderio di potere, per ricerca di vantaggi politici, per fame di denaro, per vincere barando o, infine, per insipienza e incapacità di attribuire un senso e un'etica alla propria esistenza e si diventa parte di un meccanismo infernale in cui i confini tra chi è usato e chi usa diventano sempre più incerti e sempre meno chiari e indistinti gli scopi delle proprie azioni.
Intanto un intero paese è stato e continua ad essere tenuto in scacco, un numero spaventoso di persone ha perso la vita, danni gravissimi sono stati inflitti e una catena lunghissima di tragiche conseguenze ha segnato la nostra storia.
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19/08/2011
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