Con "Gli amici del deserto" esordio degli "Incontri con l'autore"2013: intervista a Marco Mancassola
San Benedetto del Tronto | "Essenziale" è l’aggettivo che mi è venuto subito in mente dopo il mio incontro con Marco Mancassola, autore di “Gli amici del deserto”, col quale ieri sera ha preso il via l’estate letteraria degli “Incontri con l’autore” a San Benedetto.
di Maria Teresa Rosini
Massacci, Mancassola e Minuto
Marco mi è sembrato essenziale nell'aspetto, nelle parole con le quali ci ha parlato del libro, nella naturalezza del suo stare con gli altri, prestando un'attenzione educata e pacata e concedendosi a persone con cui divideva, in fondo, solo alcune ore di un percorso esistenziale che lo avrebbe velocemente riportato alla sua città, alla sua vita.
Una persona insomma, non un personaggio. Nessun alone romantico o intellettuale da "scrittore", nessuna stranezza o stravaganza che, soprattutto noi provinciali, siamo così attenti a cogliere. E quando ci siamo incontrati il giorno successivo per l'intervista, questa impressione è rimasta e si è anzi consolidata all'interno di una conversazione lineare e spontanea su se stesso, il suo lavoro, la sua esistenza, il suo rapporto con alcuni dei fenomeni che più connotano il nostro presente.
A che età hai pubblicato il primo libro e come è stato il rapporto con il tuo primo editore? Come sei riuscito a pubblicare: hai fatto un percorso di rifiuti e frustrazione o è stato tutto abbastanza semplice?
Avevo 27 anni quando ho pubblicato il mio primo libro, che fu un romanzo di formazione ("Il mondo senza di me" 2001 Pequod) e si ispirava pesantemente a quelle che erano state le mie esperienze precedenti, quelle dei vent'anni.
Non fu incredibilmente difficile arrivare all'esordio editoriale perché avevo già pubblicato dei racconti e avevo cominciato a conoscere l'ambiente. Io stesso lavoravo già come editor in una piccola casa editrice che si chiama Meridiano zero.
Avevo stabilito alcuni rapporti all'interno di quel mondo attraverso i quali venni in contatto con una piccola casa editrice marchigiana, Pequod, che oggi si chiama Italic, e fu abbastanza facile e naturale fare questo libro con loro.
Nonostante i problemi e i limiti tipici della piccola editoria, le frustrazioni per l'uscita, che avvenne in ritardo, le difficoltà nella distribuzione, in realtà uscire con un piccolo editore contribuì a creare un caso da libro ricercato ....se ne parlava e si trovava con difficoltà e per le regole del marketing questo aiuta.
Non fu un esordio folgorante, ma il libro andò bene tanto che Mondadori successivamente lo ripubblicò.
E prima? Esperienze, formazione, lavoro....
Già dopo le superiori, a diciassette anni, ho iniziato a lavorare e a mantenermi da solo. All'inizio ho lavorato per un paio d'anni collaborando con il proprietario di una bancarella di libri a metà prezzo... giravamo per tutto il nord Italia...fu interessante, direi una scuola alla cui riserva di esperienza attingo ancora oggi.
Poi ci fu una lunga serie di lavori, più o meno stabili, più o meno retribuiti.
Erano gli anni novanta quando iniziai a lavorare nel mondo editoriale prima scrivendo per alcuni giornali, poi facendo anche l'addetto stampa e, infine, approdando al lavoro di editor con l'editrice Meridiano zero.
Intanto avevo scritto il mio primo libro che ebbe, come dicevo, un discreto successo, se non altro si fece notare. Questo mi permise di iniziare a fare della scrittura il mio lavoro, a vivere cioè di contratti editoriali.
La acuta previsione del tuo maestro elementare circa il tuo futuro di scrittore, e i "Racconti di Gogol" ricevuti in regalo da tua madre a sette anni non si coniugano molto agevolmente col fatto che definisci la tua famiglia come appartenente alla classe lavoratrice? I tuoi erano grandi lettori?
Credo che, semplicemente, mia madre sia stata consigliata dal libraio. Certo forse bisognerebbe chiedersi perché un libraio consiglia un libro così per un bambino così piccolo...comunque il libro mi piacque molto.
Era però dalla variegata biblioteca dei miei fratelli maggiori che saccheggiavo un po' di tutto. Io ero il più piccolo e la mia formazione "letteraria" fu di conseguenza un po' anarchica e disordinata: libri gialli, libri rosa, libri per adulti, romanzi d'avventura.
Fui anche un assiduo frequentatore della biblioteca del mio paese, un piccolo centro in provincia di Vicenza. In questa biblioteca c'era una sorta di "apartheid" tra il settore dei ragazzi e quello degli adulti. Io mi stufai presto del settore dei più piccoli e già a sette, otto anni cominciai a provare curiosità e ad attingere corposamente dall' "altro" settore, con grande sconcerto della bibliotecaria.
Ricordo in particolare la prima volta che presi un libro dalla sezione per gli adulti. Si trattava delle "Mille e una notte" che, nonostante le edizioni per bambini, in realtà, nell'edizione integrale, non è affatto un libro per bambini perché vi sono narrate storie anche abbastanza crude..... Il commento della bibliotecaria fu: "Se i tuoi genitori si lamentano non è colpa mia". Ma da allora fu come se avessi un tacito lasciapassare.
Esiste un libro "speciale" letto in adolescenza che ti ha fatto dire a te stesso: voglio diventare uno scrittore?
Potrebbe esistere ma... non me lo ricordo. Ho pensato di poter fare lo scrittore già da bambino... probabilmente erano tutti i libri che leggevo a rafforzarmi in questa determinazione, non ne ricordo uno in particolare.
C'è stato un momento preciso in cui hai pensato: ce l'ho fatta? Che ti sei sentito rassicurato da come le cose sono andate...è stato importante per te?
Io credo seriamente di non avercela ancora fatta....forse sono un po' troppo ambizioso. Credo che l'obiettivo vero sia ancora al di là.
Certo le prime recensioni al primo libro una scarica di adrenalina me l'hanno data. Anche il fatto di aver vinto dei premi letterari, anche se non famosissimi, ma di qualità è stata una bella sensazione.
Ricordo per esempio la festa a sorpresa che mi organizzarono i miei per l'uscita del secondo libro... sicuramente non mi sentii arrivato, ma se non altro questo mi rafforzò nella mia identità di fronte agli altri. Se però mi misuro con me stesso credo di avere ancora strada da fare.
Che ne pensi dell'auto pubblicazione così di moda in questi tempi? Può essere una strada o così si finisce per stampare libri che non hanno grande valore. Si dice che in Italia esistono addirittura più scrittori che lettori....
Il dramma del nostro regime etico è che dobbiamo rispettare la libertà altrui anche quando ci rendiamo conto che alcune azioni compiute dagli altri non fanno bene al "mondo". Pubblicare un libro è una responsabilità. Io non mi sono trovato nella condizione di considerare questa scelta perché lavoravo già all'interno dell'ambiente editoriale, ma non credo che avrei potuto decidere di farla. Credo che, il più delle volte, si tratti di una gran perdita di tempo e di denaro.
Oggi è un po' diverso. Esistono molti siti di self publishing che è un altro fenomeno ancora....diverso dalla pubblicazione a pagamento.
Il fatto è che scrivendo hai la responsabilità di aggiungere e sovrapporre la tua voce i tuoi stimoli, le tue note ad un panorama che è già molto rumoroso, cacofonico e inquinato e quindi devi pensare che il tuo libro, stampato pur non essendo stato valutato come abbastanza buono, non farà altro che andare a coprire la voce di un libro migliore.
E' difficile però addossare le responsabilità ai singoli libri autoprodotti. In realtà è tutto il settore della scrittura e della pubblicazione in Italia ad essere diventato davvero tortuoso e pieno di contraddizioni.
Gli editori sono aziende fondamentalmente...E' difficilissimo guardare alla situazione editoriale e capire con chiarezza chi ha colpa di cosa. Forse si può guardare invece all'altro attore della situazione che sono i media e chi amplifica e dovrebbe diffondere i prodotti editoriali. Da parte dei media ci sono responsabilità fortissime nella divulgazione di letteratura di evasione più o meno scadente, che è vero che è sempre esistita, anch'io ne ho letta da ragazzo, ma che non può essere spinta ad assorbire la gran parte di ciò che si pubblica e che si pubblicizza.
Una volta c'erano figure competenti che erano incaricate di distinguere la qualità e proporre riflessioni ai lettori attraverso le pagine culturali.... Figure da parte delle quali c'è stata in questi ultimi vent'anni una grande rinuncia di ruolo. Gli "addetti ai lavori" sono oggi un'élite minoritaria che parla a pochi....
Sei o sei stato credente... dato che nel libro si parla di conventi, religiosi, deserto...silenzio?
Non sono credente nel senso italiano di "cattolico", nonostante sia stato cresciuto in una famiglia cattolica. Però mi riconosco più generalmente e ampiamente nell'idea di cristianità. Direi che sono credente se con questa parola intendiamo il credere che ciò che vediamo non è tutto quello che c'è.
Che senso ha per te, dato che nel libro se ne parla, il "silenzio" ?
Il silenzio è una dimensione importantissima, direi fondamentale per scrivere...anche se a me sta succedendo sempre più spesso di scrivere ascoltando musica per coprire i rumori esterni.
Il silenzio è una dimensione che non è data solo dall'assenza di rumore. E', invece, quella della ricerca di un silenzio interiore, quello della mente, che permette l'emergere di ciò che è davvero necessario, importante, autentico... per me è la condizione principale per poter scrivere.
Che ne pensi dei social network e di come la gente li usa?
Mi sembra un mondo che è il contrario del silenzio. Un fenomeno ironico e amaro e paradossale...un mondo fittizio in cui tutti parlano, a volte gridano per non restare soli, per non sentirsi soli, e finiscono per restare ugualmente soli all'interno di un grande rumore.
Alla fine i social network sono strumenti, vanno usati, dosati, considerati per quel che sono....io li uso per essere in contatto con i miei lettori. Vanno presi con la giusta cautela...col contagocce.
Mi impressiona però l'esistenza di questa "share culture", di questa cultura della condivisione "artificiale", cioè l'idea che è reale è solo ciò che hai condiviso, non più ciò che hai esperito, ciò di cui hai fatto reale esperienza. Non sempre la condivisione sui social network coincide con una condivisione umana, reale, anzi direi che è abbastanza raro. La conseguenza è che finisce per "esistere" solo ciò che hai "condiviso" e il resto è come se non esistesse... e usare i social network diventa quindi una schiavitù, una nevrosi un po' infantile per cui si pensa che qualunque cosa si faccia e si viva non esiste se non la dici agli altri, se non la "condividi".
E questo non accade solo ai più sprovveduti e inconsapevoli, può accadere anche a persone istruite e preparate diventare un po' schiave della rete, dell'illusione di comunanza e vicinanza offerta dalla rete...
Secondo me forse il dato che fa la differenza, più che il livello culturale è la condizione di solitudine che ci si può trovare a vivere. Però la solitudine è una strana "bestia" perché è come una di quelle particolari malattie per cui più medicine assumi più peggiora.
Un consiglio di lettura oltre, naturalmente, al tuo "Gli amici del deserto"?
Io sto rileggendo Anna Karenina. La prima volta l'ho letto quando andavo a scuola e avevo il tempo di leggere i grandi libri, ma ora mi sto prendendo il tempo di rileggerlo perché ho in mente il progetto di scrivere un grande libro, una saga familiare, una storia estesa nel tempo. A volte è bello riprendere in mano i "classici" e riscoprire i motivi per cui sono dei classici, perché sono rimasti.
L'ultima domanda non te la faccio perché in realtà credo di essermi fatta già un'idea. La domanda era "Quanto narcisismo c'è in uno scrittore?E quanto ce n'è in te?". La mia sensazione è che tu non sia affatto narcisista, o lo sia molto poco. Ti riconosci in questa mia analisi?
Forse inganno bene...secondo me c'è sempre una dose di narcisismo, direi fisiologico in chi sceglie di essere uno scrittore...
Diciamo allora che c'è qualcuno che esorbita dal narcisismo "fisiologico" in modo evidente?
Gli eccessi appartengono forse a una vocazione personale che è indipendente dall'essere uno scrittore. E' vero però che c'è sempre in uno scrittore quel "quid", che è difficile distinguere se sia ambizione, orgoglio, vanità o altro, per indurti a pensare che valga la pena di pubblicare ciò che scrivi. C'è sempre in ogni scrittore quella infantile vocina interiore che dice: "...ma perché non mi hanno dato ancora il Nobel!"
Però è indispensabile anche un bel po' di realismo, soprattutto oggi che viviamo all'interno di un'industria culturale talmente "contorta" e "perversa" che è già abbastanza riuscire a conservare la fiducia in se stessi e in ciò che si scrive.
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08/07/2013
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