10 febbraio- Giornata del Ricordo
San Benedetto del Tronto | Questa è la giornata che si dedica al ricordo dei profughi giuliano-dalmati, una solennità nazionale istituita in memoria delle vittime delle foibe
di Sabrina Cava
una famiglia di profughi
Chi di spada ferisce di spada perisce.
Così potrebbero essere tristemente riassunti gli accadimenti storici che usiamo comunemente definire Foibe.
Oggi è il 10 febbraio, giorno del ricordo e ho accettato con piacere e curiosità (non lo avevo mai visitato) l'invito che dell'Amministrazione Comunale ha rivolto alla stampa e ho seguito la delegazione che ha accompagnato gli studenti in visita al centro profughi di Servigliano.
Questa è la giornata che si dedica al ricordo dei profughi giuliano-dalmati, una solennità nazionale istituita in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo dei superstiti, delle vicende che coinvolsero il confine orientale. Scelti a fare l’esperienza gli studenti delle scuole medie cittadine.
Accompagnati dall’assessore alle politiche giovanili Luca Spadoni, dai docenti e dalla dirigente dell’Isc Centro Stefania Marini, i ragazzi delle scuole medie inferiori “Cappella”, “Curzi” e “Manzoni” abbiamo visitato quello che rimane del Centro (oggi trasformato in centro sportivo), abbiamo assistito ad un laboratorio didattico e potuto visitare una mostra storica con foto e documenti che testimoniano come Servigliano fu nel corso degli anni campo di prigionia durante la Prima Guerra Mondiale, deposito di materiale bellico e, con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, campo di prigionia e di rastrellamento degli ebrei del Piceno e infine, al termine del conflitto, centro di raccolta profughi.
Un video dal titolo “Una città cosmopolita” di Filippo Leranò ha raccontato che, tra il 1945 e il 1955, nel centro di raccolta profughi passarono circa 50.000 persone provenienti dai territori giuliano – dalmati ma anche dalle ex colonie d’Africa, dall’Albania, dalla Romania, dalla Grecia e persino dalla Cina, portando ciascuno con sé dolorose vicende di partenze forzate dalla propria terra pagando così un pesantissimo tributo alla follia dei totalitarismi.
Le guide dell’associazione “Casa della Memoria”, che gestisce il centro, hanno guidato la visita delle mura di cinta del campo (contornati ancora dal filo spinato risalente alla prima guerra mondiale) e le due baracche superstiti delle 32 che componevano il campo. Questo campo racconta di amicizie, matrimoni, nascite e morti. I profughi vivevano una vita il più possibile normale relazionandosi con i cittadini di Servigliano, partecipando alle feste del paese, ideando attività ricreative, giocando nella squadra di calcio cittadina o suonando nella banda e godendo dei diritti politici (potevano esercitare il diritto di voto).
“Vista la vicinanza del campo di Servigliano a San Benedetto – dichiara l’assessore Spadoni – abbiamo pensato di proporre alle scuole un momento di riflessione sulla storia del ‘900 basato sull’esperienza e la conoscenza di uno dei luoghi del ricordo. Come è scritto su una lapide apposta sulle mura del centro, ci auguriamo che la storia e le storie dei profughi sia da monito anche ai nostri ragazzi affinché nessuno debba più soffrire a causa di discriminazioni culturali, politiche, religiose e razziali”.
Questo è il Campo di Servigliano, un campo che comunque non è stato mai di sterminio, neanche nei momenti più cruenti della guerra.
Quello che è stato raccontato oggi ai ragazzi è un campo profughi, per esuli.
Ma esuli perché?
Da cosa scappavano queste famiglie costrette ad abbandonare tutto e cercare la salvezza attraverso la fuga?
Bisogna allora spiegare un attimo da dove trae origine tutta la tragica vicenda umana delle Foibe.
Bisogna ritornare almeno al fascismo degli anni ’20, ove non prima, ripartire dai crimini dell’Italia in Jugoslavia, dai 100.000 jugoslavi deportati e internati per poi arrivare alle violenze jugoslave del settembre ’43 a maggio ’45, fino appunto all’esodo italiano.
Un popolo quello slavo che ha subito e non ha perdonato e da vittima si è fatto a sua volta carnefice.
Già all’indomani della fine della Prima Guerra Mondiale e agli inizi del ventennio fascista, l’Istria fu messa a ferro e fuoco. Venti anni dopo le truppe di Mussolini invasero Dalmazia, Slovenia e Montenegro, dando inizio a nuove stragi in nome della civiltà italiana.
Queste terre così annesse all’Italia dopo la prima guerra mondiale, i territori di Trieste e di Gorizia, dell’Istria intera, la provincia di Fiume e la regione dalmata di Zara, subirono le violenze fasciste e la “snazionalizzazione” forzata.
Le persecuzioni costrinsero ad andarsene più di 80.000 sloveni, croati, tedeschi e ungheresi, ma anche alcune migliaia di italiani antifascisti.
Nonostante l’esodo, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale nella Venezia Giulia il governo fascista censì almeno 607.000 persone ancora residenti in quelle terre annesse anni prima, una cifra notevole nonostante l’esodo degli ottantamila e nonostante che agli slavi fossero stati italianizzati i cognomi, fosse stato vietato di parlare la loro lingua, fossero state tolte le scuole e qualsiasi diritto nazionale.
Nonostante le persecuzioni subite, nonostante che migliaia di loro fossero finiti nelle carceri o al confino, e che alcuni dei loro esponenti “resistenti” fossero stati fucilati in seguito a condanne del Tribunale speciale fascista oppure uccisi dalle squadre d’azione fasciste in altre località istriane.
L’Italia fascista ha perseguitato e ucciso civili montenegrini, croati e sloveni deportandoli nei campi di concentramento approntati dalla primavera all’estate del 1942 dall’esercito per rinchiudervi vecchi, donne e bambini colpevoli unicamente di essere congiunti e parenti dei “partigiani”.
In quei campi sparsi dalla Dalmazia fino al Friuli ed altri in tutto lo Stivale, in molti morirono di fame, di stenti e di epidemie.
Io credo che tutto questo vada ricordato nella Giornata del Ricordo che si celebra in Italia da ormai una decina d’anni.
Non è giusto ricordare soltanto le nostre perdite: il dolore dei nostri italiani costretti a lasciare le terre concesse all’Italia dopo la prima guerra mondiale, il dolore delle famiglie degli infoibati nel settembre 1943 in Istria e nel maggio 1945 a Trieste.
È giusto, è doveroso ricordare foibe ed esodo, le nostre vittime, i nostri dolori, ma non si dovrebbero tacere il contesto storico, le colpe del fascismo che portarono alla sconfitta ed alla perdita di quelle regioni.
Non si dovrebbero tacere o volutamente ignorare le vittime delle popolazioni slave oppresse, martoriate e decimate dapprima nel ventennio fascista, ma soprattutto nella seconda guerra mondiale. Sulla bilancia e nel contesto storico vanno messi, dunque, anche i dolori che noi abbiamo arrecato agli altri. Quelle popolazioni avrebbero potuto perdonarci? Forse si ma non l’Hanno fatto e appena hanno potuto si sono vendicate.
Le responsabilità e le colpe per tanti anni di silenzio e oblio vanno ricercate come spesso accade nella politica, nei comunisti prima ma anche nelle file complici dell’opposizione dei liberal democratici dell’epoca che non vollero insistere su dei lutti che sarebbe stato controproducente riesumare. La politica come spesso accade intossica la storia che però, trova sempre il modo di venir fuori anche a distanza di decenni.
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10/02/2014
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