La religiosità popolare sambenedettese nel pomeriggio di “Piceno d’Autore”
San Benedetto del Tronto | Interessante e per certi versi toccante, il pomeriggio di martedì 19 luglio, in Palazzina Azzurra, sul tema della religiosità popolare, trattato mirabilmente dall’intervento del Presidente Emerito del Circolo dei Sambenedettesi prof.ssa Trevisani.
di Umberto Sgattoni
L'occasione pomeridiana è stata proficua e significativa per trattare l'argomento - con il Presidente Emerito del Circolo dei Sambenedettesi, la prof.ssa Benedetta Trevisani - indagandone ed approfondendone il versante della religiosità popolare, più propriamente quella sambenedettese.
Viva la soddisfazione dell'avvocato Silvio Venieri de "I Luoghi della Scrittura" per il riscontro lusinghiero sia in termini qualitativi (in riferimento allo spessore dei relatori e dei contenuti trattati) sia quantitativi (sotto il profilo dell'apprezzamento e della considerevole presenza di pubblico) che sta contraddistinguendo questa edizione - la VII - di Piceno d'Autore 2016.
La prof.ssa Trevisani nell'esordire con modestia dicendosi non specificamente o particolarmente vocata alla filosofia, ha tuttavia sapientemente trattato il tema dell'incontro culturale "La religiosità popolare tra sacro e profano" indirizzandolo e collocandolo coerentemente, nell'indagine e nell'ambito dello specifico approfondimento della religiosità popolare sambenedettese.
Punto di partenza e di arrivo della relazione della Prof.ssa Trevisani - dunque - è stata la religiosità popolare sambenedettese.
I maggiori studiosi - dal Braudel al Matvejević - sono concordi nel ravvisare e riconoscere come al di là delle specificità e peculiarità di ciascun popolo o civiltà legata al Mar Mediterraneo, sia riscontrabile una koiné mediterranea che, nel corso dei secoli, ha interconnesso tutte le civiltà ed i popoli che si affacciano sul Mare Nostrum; "sia chiaro" - ha puntualizzato la prof.ssa Trevisani - "ciascuno con le proprie peculiarità e specificità"; ma, lasciando trasparire pertinentemente tra le righe che, se andiamo a ben vedere, già ad un sottolivello comunque significativo e non troppo nascosto, il denominatore comune costituito dal Mare, possa essere elemento di forte significato e comunanza fra tutti quei popoli che dal mare, nel mare e sul mare hanno tratto la propria sussistenza, esistenza, sviluppato la propria civiltà ed intessuto le proprie relazioni.
Sulla base poi della constatazione del grande studioso croato Predrag Matvejević, il quale riscontrò la consuetudine di come le città di mare si scegliessero dei propri santi protettori, non è poi così peregrino ritenere dunque, che fra i "popoli del mare" non vi fossero solo scambi commerciali ma anche - per così dire - "scambi spirituali"; santi protettori - peraltro - che non solo erano protettori dalle scorribande barbariche, piratesche o di qualsivoglia natura o scopo, ma anche dai più generali ed imprevisti pericoli del mare.
Ed è proprio in quest'ottica e contesto che si innesta, la leggenda/storia/mito di Benedetto - soldato romano di stanza nella colonia romana di Cupra ai tempi di Diocleziano (intorno al 300 d.C.) - che fu martirizzato (decapitato) per non aver voluto abiurare e rinnegare la fede cristiana; si dice che il suo corpo, gettato dapprima nel torrente Menocchia fosse finito poi in mare; e di lì, ricomposto dai delfini dopo esser stato spinto dalle onde ad appena 4 miglia, fosse finito su una spiaggia dove, venne raccolto da un contadino che gli diede degna sepoltura sul primo promontorio antistante. La tomba del martire, sarebbe poi divenuta - presto - un luogo di culto; e, attorno ad essa, nel tempo, si sarebbe formato il nucleo originario della città di San Benedetto.
In riferimento a ciò, la professoressa Trevisani non volendo addentrarsi troppo sulla natura leggendaria, storica o mitica della questione, ha voluto semplicemente sottolineare e rimarcare alcuni fondamentali e rilevanti aspetti: d'un lato l'amore che la Città ha per il Santo da cui prende il nome (e del quale, non ha mancato di specificare come questo amore si veda in quello stesso nome che ella, Benedetta, porta) e dall'altro, come più in generale il popolo senta un intenso e radicato bisogno di tali "figure guida" e particolarmente carismatiche.
Ci ha tenuto poi a precisare come, fermo restando il vivo amore per il Santo Patrono Benedetto, nell'ambito e contesto marinaro, la devozione rivolta a San Francesco di Paola (patrono della gente di mare) sia particolarmente sentita a San Benedetto del Tronto, e radicata in maniera davvero profonda; una chiesetta - quella dedicata al santo eremita Francesco di Paola, di poco distante dalla città - alla cui festa, il martedì dopo Pasqua, nessun sambenedettese verace ha mai mancato di partecipare; una chiesetta nella quale ha detto la professoressa Trevisani "non so se ancora siano presenti tanti ex voto, ma una volta c'erano ..."; ex voto di marinai scampati a fortunali e/o tragedie e pericoli del mare.
Alla radicata devozione rivolta a San Francesco di Paola, il popolo sambenedettese non ha poi mai mancato di onorare la Madonna: la Stella Maris, madre e sposa; "quando i marinai erano in mare, lontani da casa e dagli affetti" ha precisato la prof.ssa Trevisani "era naturale come la figura femminile a cui affidarsi, quella che si sovrapponeva come figura di tutela rassicurante ed incarnava perfettamente gli affetti coniugali e materni, non poteva che essere la Madonna".
Una religiosità e devozione popolare sempre profondamente radicata e mai scissa dalla vita e dalla quotidianità del popolo stesso; profondo senso religioso che - ha detto la prof.ssa Trevisani - possiamo ben rintracciare negli affreschi veraci della nostra letteratura dialettale.
Una vita ed una storia, quella della marineria sambenedettese, durissima e senza sconti, che spesso veniva violata da immani tragedie che sconvolgevano e travolgevano intere famiglie e privavano di affetti cari (mariti, capifamiglia e figli); sciagure generate proprio da quello stesso mare che, con l'incostanza sprezzante e dispettosa di un dio capriccioso ed umorale, se da un lato dava vita e sostentamento, dall'altro con l'inesorabile violenza di una divinità capricciosa, non esitava a togliere, con spietata indifferenza, quanto si aveva di più caro.
Ed è assolutamente comprensibile come, il dolore per la perdita di un figlio e di un marito, potesse sconvolgere e turbare profondamente il mondo femminile, lasciando ferite profonde ed impronte e cicatrici indelebili.
Sia pure di fronte a situazioni simili, la prof.ssa Trevisani - proprio rimanendo sotto il profilo documentale della testimonianza letteraria - facendo un parallelo con il pessimismo tragico che si evince e riscontra in molte pagine di Giovanni Verga, ci ha tenuto a precisare come il microcosmo sambenedettese fosse per contro - pure di fronte a simili e dure prove dell'esistenza - caratterizzato da una straordinaria forza reattiva, in cui certamente il profondo senso religioso che ha animato e contraddistinto la nostra gente, ha giocato un ruolo importante se non determinante.
"Noi abbiamo vissuto le nostre sciagure" - ha detto Benedetta Trevisani in riferimento al popolo sambenedettese ed alla sua marineria - "ma non lo abbiamo vissuto con quel pessimismo tragico che si vede e si legge nelle pagine di Giovanni Verga".
Nell'incontro culturale sono state poi meravigliosamente incastonate delle perle poetiche significative e mirabilmente interpretate - da Katia Zappasodi (Ciarevedeme su! del poeta Giovanni Vespasiani), da Gianluca Cesari (lu Scijò da "Mare Sanguigno" dello scrittore Guido Milanesi) e dalla giovanissima Lucrezia Tomassetti (La bbezzocche di Giovanni Vespasiani) - che hanno dato voce, spirito e sostanza viva, a quelle immagini, quelle storie di vita sambenedettese, sapientemente trattate ed evocate dalla riflessione della prof.ssa Trevisani.
La Trevisani non ha mancato poi di esplorare quel versante in cui - sempre a livello popolare - sono fiorite e si sono prodotte figurazioni che mettono insieme divino e demoniaco, storia e mito, senza una chiara linea di confine e/o di demarcazione.
Prima fra tutte, la Barca di Caronte; un mito, quello di Caronte evidentemente reso celebre nel nostro immaginario contemporaneo dalla Commedia dantesca, ma già presente in Virgilio e che comunque affonda le radici nel mito antico. Nell'immaginario popolare sambenedettese (ed in quello dei popoli del mare), la leggenda raccontava che Caronte - nella notte fra il 1 e 2 di novembre - andasse per mare a raccogliere le ossa di tutti i morti in mare. Un mito che, affonda la sua nascita nella notte dei tempi, ma che parla soprattutto della paura dell'uomo nei confronti del mare, di un mare pieno di cadaveri; per alcuni - e questo a testimonianza di come questo mito abbia attraversato i secoli subendo evidentemente una contaminazione - Caronte non era altro che un marinaio della flotta che aveva partecipato alla Battaglia di Lepanto e andava raccogliendo - appunto - le ossa di tutti quelli che erano morti in mare.
La professoressa Trevisani, ci ha tenuto poi a soffermarsi per un attimo sul valore della nostra marineria: nel citare e parafrasare Jack La Bolina che ha definito i nostri marinai "ignorantissimi fra gli ignoranti, audacissimi fra gli audaci" la professoressa ha sottolineato come i sambenedettesi, solcando i mari e finanche gli oceani, con estremo coraggio e spregio del pericolo, lo abbiano fatto non sulla base di scienza nautica, ma su quella dell'esperienza.
Di un'esperienza che vedeva i sambenedettesi diventare uomini di mare, ancora bambini; prima fenare e poi merè (mozzo di bordo), sin dall'età di 7 anni.
"Una scuola durissima" ha sottolineato la prof.ssa Trevisani; la quale ha poi ricordato come anche suo padre sia stato "allievo" di questa severissima scuola di vita; una scuola che - ha detto la Presidente Emerita del Circolo dei Sambenedettesi - il padre e molti sambenedettesi non hanno comunque mai rinnegato; ed anzi, hanno visto come il nido dal quale hanno schiuso le ali alla vita.
Sempre nel merito della commistione tra sacro e profano - in quel mare in cui si scatenano forze demoniache e nelle quali forse la religione non è argine sufficiente - si è poi citata la leggenda de "Lu Scijò"; la terrificante tromba marina dalla forza sovraumana e demoniaca e dalla furia imprevedibile, cui solo un iniziato che abbia appreso la formula dello scongiuro ed in grado di tagliare lo Scijò con un coltello, può indebolire ed infine placare.
"Purtroppo" ha detto la professoressa Trevisani, rimanendo sul filo della leggenda "non tutti gli equipaggi, avevano a bordo un tagliatore di Scijò".
Volgendosi poi verso la conclusione del suo intervento, ha anche parlato delle prèfiche (donne pagate per piangere ai funerali) o della pratica diffusa di intere nottate di preghiere.
E se certamente la fantasia creava suggestioni, questo non faceva tuttavia perdere il senso profondo, radicato e sincero della religiosità e della devozione popolare; e sia pure nella compresenza di figure e di un immaginario in collisione con i dettami della religione, tutto questo - ha sottolineato con forza la prof.ssa Trevisani - non ha minimamente intaccato o scalfito la concezione della vita di un popolo - quello sambenedettese - che ha avuto sempre un fortissimo ed intimo legame con la devozione religiosa.
"Vi ho rappresentato" ha detto in conclusione del suo bello e denso intervento sulla religiosità popolare sambenedettese la professoressa Trevisani "l'anima del popolo; e la conosco bene, perché io vengo da lì".
Un momento culturale credo di altissimo profilo, non meno che di intenso significato emotivo e di senso di appartenenza - almeno così credo - non soltanto per chi vi scrive.
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20/07/2016
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