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Perchè un’isola come Sumatra non era monitorata?

| Il dubbio angoscioso che riaffiora continuamente nella mente delle vittime e dei soccorritori del maremoto del sud-est asiatico.

di Renato Novelli

Molto tempo è trascorso dal più disastroso maremoto della storia recente dell’umanità e insieme alle domande sull’efficacia dei soccorsi, ai dilemmi sulla ricostruzione, un dubbio angoscioso riaffiora continuamente nella mente delle vittime e dei soccorritori.

Hussein Alatas, il più autorevole degli scienziati sociali della Malaysia, lo ha riassunto così: perché un’isola come Sumatra, nella cui area ci sono stati tre maremoti in poco più di cento anni, non era monitorata?

“Rimane il dubbio, dice Alatas, che questa tragedia avrebbe potuto essere evitata”
Ci sono pochi dubbi, invece, sul fatto che gli effetti del disastro avrebbero potuto essere contenuti, se le coste del Sud est asiatico non avessero subito quel “cataclisma a rallentatore” rappresentato dal modello di sviluppo rapido dell’economia, fondato sull’export che ha caratterizzato l’area asiatica negli ultimi quindici – venti anni pochi hanno notato che i Chao – Le, il popolo nomade del mare che gli inglesi hanno impropriamente battezzato con l’epiteto di Sea Gipsy, pur vivendo nella zona colpita dal Tsunami sia in Tailandia che in Birmania, ha minimizzato i danni del maremoto, attraverso le conoscenza tradizionali del mare.

Molte delle coste devastate un tempo erano coperte di foreste di mangrovie dall’India fino ad Aceh, ma da anni sono state tagliate e hanno lasciato il posto agli allevamenti di gamberi, che sono stati oggetto di un dibattito acceso perché identificati come responsabili di un processo di salinizzazione del suolo, di espropriazione degli abitanti dei villaggi, di pericolosità del prodotto per la salute. Poco si è discusso del fatto che le vasche di trenta metri riva costruite a ridosso del mare, lasciano la costa del tutto indifesa. Vanno aggiunte l’espansione delle costruzioni, gli alberghi schierati in prima fila tutti con le finestre con vista mare, l’erosione della linea di spiaggia, la sovrapopolazione turistica ed altre cause legate alla pressione umana.

Le coste dell’Asia colpite sembravano preparate ad accogliere nel modo peggiore un disastro che, si pensava, forse non sarebbe mai arrivato.

Le mangrovie hanno sempre avuto la funzione di rompere le onde, attenuare gli effetti delle maree che inondano la terra almeno due volte al mese, aumentando la portata, nel giorno della luna piena , ma con l’ambiguità della loro collocazione tra terra e mare aiutano la vita marina. Lungo le coste tailandesi del Mar delle Andamane, le mangrovie coprono oggi il 15% delle rive, mentre solo 10 anni fa rappresentavano il 33% della linea costiera. Il numero delle vittime del Tsunami sono più di 300.000.

Nel 1883 il vulcano Krakatoa esplose. Produsse una nuvola che modificò il clima nel successivo 1884 e generò un’onda che uccise 35.000 persone in Indonesia, Bangladesh ed altri paesi dell’area. Il 10% di vite umane del Tsunami del 2004. La differenza di queste cifre ci dice in modo immediato che informazione diffusa e prevenzione ambientale sono due misure che siamo obbligati a prendere immediatamente perché l’urgenza di un governo saggio ed unitario del mondo, non è più rinviabile. Il maremoto ci ha lasciati attoniti per la morte di tante persone, ma anche le conseguenze sull’ambiente sono state pesanti e avranno effetti che oggi non riusciamo a valutare.

I reef corallini e le praterie di rupie, le piante con fiore che sono il cibo di dugonghi e di molti pesci, sono danneggiati dalla violenza dell’impatto dell’onda anomala, dalla polvere bianca ricaduta sui coralli, dalle auto,barche, mobili scaraventati sul fondo del mare. A Surin un’isola tailandese confinante con i bellissimi arcipelaghi della Birmania, il banco di corallo più grande del Mar delle Andatane, che misura 8 Kmq., ha almeno 2 Kmq. morti.

La distruzione dell’ambiente presenta ora un grave rischio per la ricostruzione e la qualità della vita delle popolazioni locali. Può accadere  che lo straordinario flusso di aiuti da tutto il mondo venga usato per accentuare il modello industriale per l’export e che il mondo delle culture locali della costa, già percosso così duramente, subisca uno scacco irreparabile verso la marginalizzazione e l’estinzione.

Si perderebbero esperienze di riscoperta dell’Asia dei villaggi e di inserimento di know how tradizionali nei segmenti di mercato internazionale dove lo scambio, realmente corrispondente ala dimensione dei nuovi consumi, è un rapporto non solo monetario, ma un incontro tra domanda di stile di vita e offerta di produzione assennata. Per ora, al di là dei temi dell’emergenza  della solidarietà, ogni attenzione dei governi dei paesi colpiti sembra orientata al turismo di massa e all’industria di allevamento di gamberi, che per rimanere ai dati del 2003, assicurava un’export di 125.000 tonnellate per totale di 967 milioni di USS, ad investitori di medie – grandi dimensioni.

L’industria è stata danneggiata, soprattutto per la perdita delle larve dei gamberi stivate in contenitori vicino alle vasche. Ma chi può dire oggi a quanto assommi il danno provocato dalla costruzione degli stessi allevamenti lungo la costa ?
Il danno inflitto alla produzione locale da parte di questa industria di cibo falsamente di lusso e in realtà di massa, è già stato notevole negli ultimi venti anni.

Gli ecosistemi delle aree del Tsunami sono caratterizzati da reef corallini, praterie di rupie, isolotti di roccia vulcanica con grotte, mangrovie e foresta pluviale adiacente. In questo sistema complesso, molti ricercatori cercano la risposta alla cura dei tumori, la farmacopea orientale ricava il 50% delle erbe curative tradizionali, i piccoli pescatori catturano granchi e pesci pregiati con trappole o allevano con sistemi di qualità la cernia del reef corallino, gli isolotti nascondono ancora potenzialità di alto livello come il gambero di acqua dolce che vive nei laghetti formatisi all’interno delle grotte, ancora poco studiato e noto solo alla cucina locale.

Dobbiamo lavorare tutti perché questi mondi non si perdano e diventino un patrimonio positivo dell’economia sostenibile internazionale.

01/02/2005





        
  



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