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Giacomo Leopardi : morte e S.S. Sacramenti

| ...preferì donarsi la morte nel modo “più dolce possibile”.

di Vincenzo Ambrosio*

 L’eleganza della morte e il senso d’infinita dolcezza che Giacomo conferì ad essa, memorabilmente descritte furono da Ranieri nel suo “ sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi”                          
       
”..non mi sento bene mi disse, mi sento un pochino crescere l’asma. Si potrebbe riavere il dottore?La gente cadeva morta a migliaia e non era giorno da spedire messi…In questo mezzo , mentre tutti gli erano intorno , la Paolina gli sosteneva il capo e gli asciugava il sudore che veniva giù a goccioli da quell’ampissima fronte, ed io , veggendolo soprappreso da un certo infausto e tenebroso stupore, tentavo di ridestarlo con gli aliti eccitanti, or di questa, or di quella essenza spiritosa. E lui, aperti più dell’usato gli occhi, mi guardò più fiso che mai. Io non ti veggo più, mi disse come sospirando.

L’atto di morte venne registrato alla Chiesa Annunziata a Fonseca ed esso recitava:
“A 15 giugno 1837 Don Giacomo Leopardi conte figlio di Don Monaldo e Adelaide Antici, di anni 38, munito dei Santissimi Sacramenti, a' 14 detto mese, sepolto id. Deceduto Vico Pero n. 2”.
Questa breve premessa serve a chiarire i termini della accesa polemica che da tempo avvince gli studiosi leopardiani, la cui maggioranza, poggiando la propria tesi sulla anticlericalità del poeta recanatese e sulla circostanza che il prete agostiniano, padre Felice, fosse arrivato tardi in casa Ranieri , per la somministrazione dei S.S. Sacramenti , ritiene che quell’atto di morte possa essere stato artatamente riscritto dal Parroco della chiesa dell’Annunziata. Questi autori non tengono, invero, conto che a quei tempi, così come ci dice testualmente Monsignor Luigi Saviano, parroco di Ottaviano, intervistato ultimamente,“…i Santissimi Sacramenti per legge canonica potevano essere somministrati anche ad un defunto, ma entro massimo due ore dal decesso”, cosa che sicuramente avvenne e che giustificò, successivamente, la trascrizione dell’atto di morte,come sopra riportato.

Altro elemento che divide gli studiosi riguarda la causa della morte di Giacomo Leopardi. L’amato “Buccio”, simpatico appellativo col quale il poeta recanatese veniva chiamato negli anni della sua fanciullezza, era uno sfrenato mangiator di leccornie , ed in special modo di gelati e frolle, di cui era straordinario consumatore, tanto che suo passatempo principale era mangiarne a dismisura al vicino Caffè  d’Italia, all’angolo di Taverna Penta, ove “se faceva ‘a fila” per osservare lo scostumato conte che spesso era preso a  pernacchie da impietosi scugnizzi, tanto da far intervenire lo sconsolato Ranieri, messosi a  cercarlo per difenderlo anche dal lancio irriverente di “scorze di mellone”.

Un bramosissimo desiderio l’assaliva , facendogli compiere inenarrabili ed abbondanti consumi di: caffè, sciroppo di caffè, limonea, sciroppo di limone, cioccolate, sciroppi di cioccolata, gelati , schiumoni, frolle e quant’altro possa immaginarsi piacevolissimo al palato, quanto dannosissimo alla salute. Tra i tanti dolci ,egli aveva speciale preferenza per i confetti cannellini, proveniente dalla patria di Ovidio, Sulmona, e che nei primi anni dell’800 costituivano il tipico dono col quale si omaggiassero gli onomastici. E così, in quel 13 giugno del 1837 , Antonio Ranieri vedeva la sua casa invasa da amici , parenti e cartocci di confetti cannellini  che gli venivano offerti perché in quel dì si festeggiava Sant’Antonio da Padova. Due cartocci , ciascuno dal peso di una libbra e mezza , furono posti nella stanza di Giacomo , il quale riposava nel letto , prima di intraprendere, il giorno appresso , il viaggio per Villa delle Ginestre a Torre del Greco. Lo svegliarono i botti provenienti dalla strada ove i festeggiamenti ,in onore del grande santo, venivano esaltati dalle castagnole e da altri manufatti “scoppiettanti”.

Lui donò un tiepido sguardo ai cartocci e preferì “lasciarli ancora in vita” fino al mattino seguente , allorquando. uno dopo l’altro, ne ingurgitò il contenuto. Lui, malato di fegato, e quindi cirrotico, iperglicemico , “teneva ‘ o zucchero” , sapeva bene quale danno potesse ciò provocargli: ma non se ne diede peso. Anzi, ingerì con foga , per soddisfare la sete derivante dagli eccessivi zuccheri , una “limonea gelata”, comunemente detta granita il che gli provocò , istantaneamente , una congestione intestinale …e la morte repentina. Non aveva , fino a quel momento, mostrato i segni del colera, avendo, addirittura, cura di avvertire il padre Monaldo, il 27 maggio dello stesso anno, che tutto andasse bene, persino la salute. Del resto, tenuto conto che il fisico fosse minato da mille malattie, tecnicamente era impossibile, per qualunque altra forma di malanno, attecchire su di un corpo di già morto.

Persino nei giorni precedenti aveva asserito di sentirsi bene, ma che per evitare qualunque forma di preoccupazione, anche se di controvoglia, fosse stato conveniente ripiegare su Torre del Greco.

Non ci riuscì perché Lui stesso preferì morire ; preferì donarsi la morte nel modo “ più dolce possibile”.
 
*scrittore

08/01/2005





        
  



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