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San Benedetto del Tronto | Si diffonde rapidamente e impercettibilmente, penetra nelle nostre menti con disarmante candore, invadente più delle polveri sottili: è l’irresistibile desiderio di semplificare.

di Pietro D’Angeli

 
A volte i cambiamenti più difficili da percepire sono quelli che avvengono sotto i nostri occhi, tanto più impercettibili quanto più reattivi, in grado di imporsi come risposta, plausibile e generalizzata, a situazioni oggettivamente problematiche. In questi termini, credo, la semplificazione si pone spesso rispetto al problema della complessità. Quale che sia l’ambito di riferimento la complessità è forse la dimensione più caratteristica delle moderne società occidentali; ne facciamo esperienza quotidianamente nella gestione dei nostri tempi e dei nostri spazi ma anche nella gestione dei nostri ruoli e delle nostre relazioni.

E’ dunque anche un problema individuale. La complessità crea spesso disagio, rende superate certezze che si pretendevano acquisite, impone di rivedere convinzioni e comportamenti consolidati, crea facilmente insicurezza e smarrimento. La complessità la si può conoscere e gestire ma la si può anche ridurre o semplicemente negare. In molti casi è proprio la difficoltà a farsene carico a generare la tentazione di semplificare.

Ma se questa è la risposta ad un problema non è forse il caso di chiedersi se la “soluzione tentata” non sia divenuta essa stessa un problema ben più grave di quello intendeva risolvere?

E’ in primo luogo una “soluzione” che si pone in atteggiamento di rottura rispetto all’aspetto forse più qualificante e fecondo della cultura occidentale che è quello dell’analisi e della razionalità: “cogito ergo sum” (se in Occidente abbiamo preso qualche abbaglio è stato semmai nel momento della sintesi...).

E’ in secondo luogo una “soluzione” non sempre innocua: il prodotto del processo di semplificazione non è soltanto e sempre la superficialità o l’approssimazione (di cui pure non si avverte il bisogno). Basta pensare ad uno dei più banali meccanismi di semplificazione: il ricorso alla forza. Non ci si riferisce ovviamente alla sola forza fisica; se un’adeguata risposta alla complessità sta nel confronto dialettico, non sembra esagerato denunciare una diffusa risposta patologica nel “vizio” di ridurre le relazioni sociali, politiche, professionali e personali a rapporti di potere.

Per di più queste dinamiche molto spesso si autoalimentano: l’utilizzazione di posizioni di potere per imporre la propria volontà o le proprie idee (nel lavoro come nell’informazione, nella politica come nella cultura)  genera comportamenti puramente adattivi o al massimo induce la costituzione di schieramenti contrapposti, impone di riconoscersi in un’idea o nel suo opposto, è in grado, in sostanza, di omologare i comportamenti.

Spesso  alla semplificazione viene impropriamente attribuito il fascino (e il merito) della semplicità. La semplicità è il punto di arrivo di un processo di riconoscimento, accettazione ed elaborazione della complessità laddove la semplificazione ne è la negazione.

D’altro canto la semplificazione non è necessariamente elementare nella sua elaborazione; al contrario può manifestarsi in un ragionamento complesso e articolato ma fondato, ad esempio, su presupposti riduttivi o parziali.

Perché si semplifica spesso in malafede: se c’è chi semplifica perché non è capace di leggere la complessità o di sostenerne il peso, c’è anche chi ricorre alla semplificazione per togliere volutamente cittadinanza o credito alle opinioni diverse o per alimentare  letture tendenziose  di fenomeni che conducano a conclusioni di comodo. E chi semplifica in mala fede sa bene di poter trovare terreno fertile nella diffusa esigenza di poter contare sempre su risposte facili e veloci.
E’ soprattutto la diffusione di questo atteggiamento che preoccupa anche perché passa attraverso un pericoloso processo di sottrazione dell’aspetto etico dall’ambito dei presupposti e dei meccanismi di relazione con gli altri, incentrati invece su una dinamica di acquisizione del consenso, inteso come fonte di potere, e di rifiuto del dissenso (“chi non la pensa come me è mio nemico”); è questo un limite ad un positivo e fecondo sviluppo delle relazioni personali e sociali  che è urgente riconoscere,  smascherare  e  denunciare se non si vuole rischiare che alla fine diventi poco riconoscibile proprio perché generalizzato e dalla sua diffusione ricavi in qualche modo la sua stessa legittimazione (secondo un altro micidiale meccanismo di semplificazione).

La sensazione è che queste dinamiche abbiano occupato un terreno lasciato libero anche da un arretramento verso una dimensione spiccatamente privata delle migliori attitudini ad un esercizio rigoroso della facoltà di critica, ad una attenzione lucida capace di coltivare la consapevolezza e gestire la complessità. Come se, mentre si sceglievano con cura i libri da leggere o i films da vedere o si disquisiva con erudizione e rigore, con particolare attenzione ai momenti della propria vita privata, non ci si accorgeva che era soprattutto la dimensione pubblica a cambiare e a farsi conquistare (o riconquistare) dal vizio della semplificazione.

 Se così è questi meccanismi si combattono non solo prendendone individualmente le distanze ma anche rendendone in qualche modo pubblica o almeno condividendone l’estraneità, coltivando un rigore che sappia denunciare già le manifestazioni linguistiche di questa diffusa “arte” di semplificare. La fortuna di certi slogans, del resto, non è quasi mai casuale: perché non chiedersi, ad esempio, se la condivisa perentorietà di un’espressione come “tolleranza zero” non risponda, in realtà, ad una ben più complessa e strumentale esigenza di ricondurre e ridurre ad una mera dinamica di controllo ogni forma di disagio sociale?

Tra il rischio di affidarsi a facili semplificazioni, cullandosi nella  rassicurante trappola del conformismo e dell’omologazione, e il rischio di restare invischiati in un’infinita e paralizzante analisi della complessità c’è una via di mezzo, per quanto faticosa: guardare la realtà con sguardo diritto e lucido ma anche accogliente e non intimorito dalla complessità. Il rigore e il coraggio di denuncia possono accompagnarsi ad una profonda e solare vitalità.

Questa è forse una delle più significative lezioni di metodo (e di libertà) che ci hanno lasciato in eredità i non tanti maestri degli scorsi decenni come Pier Paolo Pasolini o Don Milani, solo per citarne due tra i più lucidi. Si potrebbe (e, quindi, si dovrebbe) ricominciare da lì.
 
d.a.pietro@libero.it

06/03/2005





        
  



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