Dai Red House Painters ai Sun Kil Moon
San Benedetto del Tronto | Sun Kil Moon "Benji"
di
Sun Kil Moon
"Benji"
Trent'anni fa la scena del nuovo rock di San Francisco si illuminò con la stella brillante di Mark Eitzel (American Music Club) che, con il suo timbro vocale piuttosto grave e depressivo rappresentò la punta di diamante della scrittura alternativa americana. Dieci anni dopo sulla stessa scena comparve un altro artista che seguiva pedissequamente quello stile vocale. Era Mark Kozelek che con i suoi Red House Painters e le primissime incisioni per l'etichetta 4AD accentuò le atmosfere cupe del suo canto estremizzando in musica e attraverso canzoni tristi e malinconiche la sua delicata situazione personale perennemente in conflitto con la depressione e la droga. Quel genere vocale monocorde al limite della disperazione fu ribattezzato slowcore ed ebbe nel gruppo uno dei punti di massima forza espressiva.
La storia dei Red House Painters, dopo sei album, si concluse agli inizi degli anni Duemila quando Mark Kozelek diede una virata più positiva al suo canto fondando i Sun Kil Moon e proseguendo contemporaneamente con una sua carriera solistica ricca di produzioni discografiche (album di studio, supporto di colonne sonore oltre ad una serie lunghissima di dischi live). Instancabile e iperproduttivo Kozelek scelse il nome di Sun Kil Moon in omaggio alla sua passione viscerale per il pugilato e in onore del campione coreano Sung-Kil Moon e "Benji" rappresenta il sesto album della seconda fase della sua vita artistica. Come recita il testo di una lunga canzone di questo disco (doppio in versione deluxe ed edizione limitata e con in aggiunta un live registrato in Europa) "i watched the film and the song remains the same" in cui l'omaggio evidente ai Led Zeppelin non si traduce davvero in un analogo stile rock, anzi, nonostante l'apporto dei suoi collaboratori Steve Shelley, Owen Ashworth e Will Oldham, le canzoni di Kozelek scivolano via sempre uguali come quelle di un classico cantautore che si avvale della sua chitarra per raccontare le sue, spesso drammatiche, vicende personali.
E' tutto autobiografico il repertorio del californiano, dai ricordi del padre ("I love my dad"), di sua madre ("I can't live without my mother's love") e della cugina ("Carissa") agli episodi di una vita difficile fatta di amici, dolore e di incontri casuali. A tratti, come in "Ben's my friend", Kozelek cerca la via alleggerita del pop inserendo più ritmo e persino un sax, ma la costante della sua musica è la parola stessa, il racconto, la storia cantanta con lo stesso timbro crepuscolare di sempre che si sposa perfettamente con le immagini delle sue copertine nelle quali i colori d'ombra sono piccole fughe e spostamenti leggeri di tono e di luce senza grandi identificazioni. Stadi emozionali che variano sulle note di una voce e di una chitarra. Che sia in studio o davanti ad un pubblico la canzone di Kozelek subisce davvero limitatissime variazioni e se, qua e là, spunta qualche colore di sole o di cielo azzurro, essa fa sempre emergere un bianco e nero nello stile "Nebraska" del grande Springsteen mixato con gli accordi cadenzati di un glorioso e antico Leonard Cohen che recita in versi di preghiera la sua personale vicenda umana.
Voto 8/10
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08/03/2014
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