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Piergiorgio Morosini: tra mafie ed emergenza istituzionale che la politica torni ai cittadini.

San Benedetto del Tronto | E’ un allarme quello lanciato dal magistrato nell’incontro che si è tenuto sabato pomeriggio presso la sede comunale di Grottammare per la presentazione del suo libro “Il Gotha di Cosa Nostra” edito da Rubbettino.

di Maria Teresa Rosini

E' un allarme quello lanciato dal magistrato Piergiorgio Morosini nell'incontro che si è tenuto sabato pomeriggio presso la sede comunale di Grottammare per la presentazione del suo libro "Il Gotha di Cosa Nostra" edito da Rubbettino.

Nel pieno della discussione pubblica circa l'ennesimo provvedimento ("riforma" ?) sulla giustizia e sui magistrati, strettamente intrecciata (nulla di nuovo) alle vicende giudiziarie personali del nostro Presidente del Consiglio, Morosini ci offre uno spiraglio di verità sulla mafia nel nostro paese: se avevamo creduto di essercene liberati con gli arresti eccellenti dei capi storici dell'organizzazione prepariamoci ad un amaro risveglio.

La verità arriva da una sentenza, unico documento che oggi sembra in grado di informarci e portarci alla comprensione di cosa è avvenuto dentro Cosa Nostra, di cosa essa è diventata iscrivendosi nel dna nel sistema politico, economico e sociale della nazione, abbandonando l'uso spettacolare dei codici e simboli arcaici con i quali era nata e il contesto territoriale un tempo circoscritto al sud del paese, e inserendosi nelle cellule sane del corpo sociale per divenire invisibile e proliferare indisturbata.

E' all'interno delle numerose pagine di una sentenza, atto solenne di per sé in grado di produrre conseguenze all'interno del sistema statuale, che oggi possiamo trovare anche un'analisi e un'interpretazione culturale, dettagliata e approfondita, dell'attuale fase della criminalità organizzata nel nostro paese.
E già questo potrebbe sembrare un paradosso, ma tra un'informazione spesso superficiale e contraddittoria, se non addirittura ambigua e asservita, e gli studi teorici o storici sul fenomeno, non sempre accessibili ai più e tendenti ad intervenire a posteriori, non è difficile comprendere come una sentenza possa oggi dirci molto di più su ciò che ci sta accadendo e su cosa potrebbe accadere in futuro.

Morosini ci offre inoltre, attraverso la sentenza, una panoramica, forse ancor più pregnante e gravida di conseguenze per la nostra lettura della realtà, del versante politico del fenomeno mafioso. Non è oscuro ormai a nessuno il legame tra mafia e politica che ha accompagnato e segnato la storia del nostro paese, ma, come in ogni incubo che si rispetti, le modalità con le quali questo legame si proietta sulla nostra realtà attuale, va ben al di là di ogni nostra capacità immaginativa.

L'antico connubio tra appalti per opere pubbliche e centri decisionali politici del territorio non si è spezzato, semmai ha trovato sistemi più sofisticati e tragicamente più efficienti per attuarsi. La politica sembra aver compreso che il proprio legame con la criminalità organizzata, o comunque con modalità di gestione del "bene pubblico"quanto meno asservite agli interessi di pochi potenti, è ineludibile e che una sorprendente sinergia di obiettivi la lega al mondo dell'illegalità assunta a sistema.
Se esponenti politici delle istituzioni che hanno subito condanne penali per connivenze con la mafia, come Cuffaro, esultano per una sentenza di condanna, o, come Dell'Utri, dichiarano pubblicamente che Mangano, lo stalliere di Arcore (condannato anche per omicidio) è un eroe, afferma Morosini, siamo ad una emergenza istituzionale.

E neppure possiamo consolarci affermando che tale sistema è appannaggio solo di alcune parti politiche: l'approvazione della legge che innalza il tetto di spesa oltre il quale è richiesta una gara pubblica per la concessione di appalti, è stata approvata con i voti di tutti i partiti presenti in Parlamento. In ogni caso l'adozione di una decretazione d'emergenza consente di effettuare la scelta aggirando la trasparenza delle gare pubbliche.
Attraverso le intercettazioni telefoniche di conversazioni tra esponenti della criminalità organizzata e tra politici emerge con chiarezza come i soldi pubblici (che, come ci viene ripetuto, sono sempre pochi per molte necessità del paese come scuola, ricerca, università, lavoro) e chi ha la funzione di gestirli, siano disinvoltamente considerati "pecore da tosare", denaro da assegnare per opere pubbliche inutili per il bene collettivo, ma atte a garantire l'interesse dei disonesti e il proliferare inarrestabile di un'illegalità sempre più capillarmente diffusa.

Tutto questo avviene senza che si levino, all'interno delle istituzioni deputate all'approvazione, voci di dissenso: i politici che utilizzano questo autodistruttivo "patto col diavolo" ("il nostro amico col bastone") non temono dissensi o opposizioni perché, ci dice Morosini, "al gioco ci stanno tutti": nessun freno esercita, infine, il timore che all'interno dei partiti qualcuno possa evidenziare e sanzionare comportamenti troppo disinvolti dei propri esponenti.
Il "test d'integrità", strumento sovrastatale previsto all'interno della comunità europea, che stabilisce che non possano ricandidarsi esponenti di partiti condannati o oggetto di indagine, non è ancora stato recepito, a distanza di qualche anno, dalla nostra legislazione: alle ultime elezioni i casi in cui il codice deontologico è stato disatteso sono oltre cento.

In questo contesto, in cui la capacità di controllo dentro le istituzioni e dentro i partiti è gravemente deficitario, i nodi non possono che arrivare direttamente al pettine della magistratura, quando ormai il danno alla collettività è stato perpetrato e nessuna sanzione, ammesso che il procedimento arrivi alla sua naturale conclusione, potrà ripararne gli effetti in termini di dissipazione di tempo e di pubbliche risorse.

Estrema barriera al dilagare di un'illegalità diffusa, è invece la magistratura a divenire oggi oggetto di una riforma punitiva che vede nel suo operato l'ultimo ostacolo ad una rivoluzione del senso comune nella direzione di un allentamento della pressione che le leggi e la loro applicazione esercitano nell'ambito della convivenza civile.
L'indipendenza della magistratura oggi in gioco rappresenta quindi l'ultimo avamposto di una battaglia che altrove sembra definitivamente persa.
La diffusione di una considerazione dei magistrati come inetti e irresponsabilmente politicizzati e della giustizia come di un sistema che non funziona è la condizione che prepara alla sconfitta di questo ultimo avamposto. La strumentalizzazione demagogica di episodi di mala giustizia è funzionale a questo disegno.
Una magistratura debole, sottoposta ai poteri forti significherà quindi, secondo Morosini, la chiusura del cerchio, il coperchio definitivo a ogni tentativo di rendere questo paese più stabile e rigoroso nel darsi le leggi e nell'applicarle nella gestione delle risorse comuni.

Quale iniziativa, azione, possibilità resta al cittadino onesto per contribuire a interrompere una continuità che ormai sembra scavalcare qualunque argine formalmente posto al debordare dell'illegalità, del privilegio, dell'ingiustizia?
Non resta che un'assunzione di responsabilità che parta dal basso, suggerisce Morosini, testimone di esperienze che vedono circoli, associazioni, comitati di cittadini operare nella direzione di un controllo del territorio, dell'amministrazione e di tutto ciò che vi accade.
Sembra insomma che delegare attraverso il voto i propri rappresentanti a prendere decisioni assumendone la responsabilità non sia sufficiente a garantire una reale democrazia e legalità nel paese, e che nulla ci garantisca meglio, come cittadini, della presenza attenta, informata e vigilante all'interno delle nostre comunità territoriali.

11/04/2011





        
  



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