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Festa del 25 aprile

San Benedetto del Tronto | Quel gioco di riscrivere la storia.

di Tonino Armata


Ogni tanto, secondo gli opportunismi della politica, riprende il gioco sui morti, un gioco truccato perché i morti non possono parlare e li si può usare come si vuole.

Fanno parte dei morti le continue provocazioni dei vivi, neo o post fascisti, di abolire la festa del 25 aprile per sostituirla con una che metta sullo stesso piano partigiani e sostenitori di Salò e, a Venezia come a Trieste, c’è chi chiede di celebrare le vittime della ferocia titina, senza distinzione alcuna fra chi era per la libertà e la democrazia e chi per difendere fino all’ultimo il totalitarismo.
Il tutto senza ricordare e considerare minimamente il contesto storico che vale anche per i morti, che i morti non possono ricordare, ma la storia sì. Quando lavoravo per la realizzazione del libro “La risiera di San Sabba”, ho conosciuto la storica Alessandra Kersevan, la quale mi ha detto: “Non so se ha mai sentito parlare del campo di concentramento fascista di Gonars: fu il più grande campo di concentramento per internati civili jugoslavi al di qua del vecchio confine gestito dal Regio esercito. Al di là c’era il campo di Arbe Rab ancora più grande e tragico.

Dalla primavera del 1942 al settembre del ’43 vi furono internati in condizioni indicibili 6 mila persone, uomini e donne, vecchi e bambini. Vi morirono in 500, la gran parte nell’inverno 1942-43 per la fame, il freddo, le malattie”.

L’argomento dei campi di concentramento fascisti è pochissimo conosciuto a livello d’opinione pubblica ed è per questa scarsa conoscenza che personaggi come il premier può dire che Benito Mussolini mandava i suoi oppositori in vacanza. Il gioco dei morti è francamente inaccettabile quando risponde a un opportunismo politico come quello attualissimo dei neo fascisti, nipotini di Salò, e allievi di Giorgio Almirante, attualmente al governo della Repubblica democratica. Ed è inaccettabile anche l’uso sacrale che si fa dei morti per dimostrare che le idee per cui morirono gli uni valgono come quelle per cui morirono gli altri. Nel caso italiano non si tratta di recuperare la storia dei vinti e di correggere quella dei vincitori, ma di ricordare che se non si fossero scambiati i ruoli noi non saremmo qui a parlarne, saremmo finiti in massa in qualche lager o in qualche camera a gas e per il lungo futuro del Terzo Reich noi e i nostri figli e nipoti saremmo vissuti, ove non eliminati, in una società barbarica.

Altro che vaghe passeggere distinzioni fra diverse bandiere, diverse idee, diverse utopie: la scelta era tra la schiavitù razzista e la libertà civile, tra la fedeltà cieca alla tirannia e i diritti umani.
La pietà verso i morti è antica come il diritto dei loro parenti e amici a ricordarli, ma la pubblica cerimonia coinvolge un giudizio sulle loro azioni da vivi e le celebrazioni di quanti, fino all’ultimo, stettero dalla parte del Reich nazista è celebrazione del nazismo.

Non si fa un passo avanti verso una civile convivenza degli uomini se si continua con il gioco dei morti, con l’impostura che il peso dei morti cancelli o cambi le responsabilità dei vivi. Sono morti anche loro per un ideale! Quale ideale? Mandare sei milioni di persone alle camere a gas? Ma anche nei gulag del comunismo si dice, sono morti milioni di persone forse di più e forse in modo più folle perché la maggior parte erano comunisti. Ma nell’uno come nell’altro caso la morte non è una giustificazione delle follie dei vivi.

La proposta di legge che equipara ai partigiani chi combatté per la repubblica di Salò non riguarda solo i superstiti di quella tragica stagione della nostra storia. La manovra è subdola e non si limita a un riconoscimento morale e pratico per chi, nei fatti, operò come ausiliario delle truppe naziste, comprese le operazioni di rastrellamento, le torture, le stragi. Dietro ai riconoscimenti individuali c’è la rivalutazione dell’ultima fase disperata e crudele del fascismo, comprese le istituzioni che la rappresentano. Il disegno ha il fine ultimo di equiparare sotto ogni aspetto i combattenti delle due parti incrinando così il patto antifascista sul quale è stata scritta la Costituzione che regola la vita dei singoli e delle istituzioni. Nessuno può chiedere che le motivazioni di chi combatté al fianco (quando non al sevizio) dei nazisti, siano equiparate a quelle dei “Volontari della libertà”.

E’ confortante constatare con quale fastidio molti italiani abbiano accolto il tentativo maldestro di modificare la Costituzione, causa non secondaria degli ultimi risultati elettorali. Un paio d’anni fa la Einaudi ripubblicò le “Lettere dei condannati a morte della Resistenza”, con la prefazione di Gustavo Zagrebelsky. Lo scritto si chiudeva con queste parole, che faccio mie: “Chiunque anche oggi leggerà queste ‘Lettere’ vi troverà un’altra Italia e non potrà non domandarsi se davvero non ci sia più bisogno di quella voce o se, al contrario, non si debba fare di tutto per tramandarla e mantenerla viva nella coscienza, come radice da cui attingere forza”. E’ quasi doloroso riconoscere che di quella voce abbiamo più che mai bisogno.
 

24/04/2005





        
  



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