Le pajarole di Acquaviva Picena: prodotto artigianale e patrimonio culturale
San Benedetto del Tronto | Passeggiando per il centro storico di Acquaviva Picena, è possibile imbattersi ancora in alcune anziane signore che vendono ai passanti dei cestini di paglia e vimini, tipico prodotto dell’artigianato locale.
di Elvira Apone
le pajarole di Acquaviva Picena
Passeggiando per il centro storico di Acquaviva Picena, soprattutto durante le sere d’estate, è possibile imbattersi ancora in alcune anziane signore, sedute su una panchetta o su una piccola sedia davanti alla soglia di casa, con un grembiule di stoffa pesante appoggiato sulle gambe, che vendono ai passanti le “pajarole”, dei cestini di paglia di frumento, vimini e vari tipi di canne palustri, tipico prodotto dell’artigianato locale.
Così, tra le strette e anguste vie che, intrecciandosi proprio come i fili che compongono questi pittoreschi panieri, portano fino al cuore del borgo, costituito dall’imponente fortezza trecentesca, il visitatore sarà trasportato indietro nel tempo alla scoperta di un mondo ormai dimenticato, fatto di oggetti semplici e genuini, frutto di un lavoro che si è tramandato per secoli di generazione in generazione.
Non si conosce con esattezza quando incominciò ad Acquaviva la fabbricazione delle pajarole, ma pare che risalga addirittura all’epoca medioevale.
Tuttavia, il primo documento scritto, in cui se ne parla, è il libro dello storico Crivellucci dal titolo "Una comune delle Marche", del 1798, dove, riferendosi alla popolazione di Acquaviva, l’autore sostiene che viveva di industria tessile e della fabbricazione di canestri fatti di paglia, giunchi e vimini, affidata esclusivamente alle donne, che imparavano questo mestiere sin da giovanissime. Talvolta, persino i bambini, quasi per gioco, partecipavano a questa attività, pulendo i rami di vimini e ricevendo in cambio le scorze esterne, che poi intrecciavano per farne delle corde con cui saltare.
In genere, le donne del paese si procuravano il materiale nelle campagne circostanti, o lungo il corso dei vicini torrenti, mentre chi possedeva un pezzo di terra usava la paglia e i vimini che trovava nel proprio campo. L’importante, però, era tenere i fasci di vimini immersi nell’acqua per fare in modo che i ramoscelli restassero teneri e fossero, così, più facili da lavorare. Ultimato l’ intreccio, questi cesti erano generalmente disposti per alcune ore in contenitori, in cui veniva fatto ardere lo zolfo per disinfettare la paglia e renderla più chiara, e poi lasciati asciugare all’aria aperta prima di essere venduti o usati.
Questa produzione andò aumentando nel corso degli anni tanto che, circa un secolo dopo, sia donne sia uomini vi si dedicavano per oltre due mesi l’anno.
In ogni caso, una bella fetta dell’economia del paese si basava proprio sulla vendita delle pajarole, che le donne barattavano con i prodotti dei contadini locali o dei vicini mercati e gli uomini andavano a vendere più lontano, fino ai confini con il Lazio, l’Abruzzo e l’Umbria, ricevendo in cambio la quantità di legumi, castagne e patate che questi cesti riuscivano a contenere.
Nel dopoguerra, poi, le pajarole costituirono una vera e propria fonte di guadagno per diverse famiglie, che arrotondavano il salario con la loro vendita o scambio.
E oggi come allora, le pajarole rappresentano un segno distintivo dell’artigianato locale, una memoria storica che si vuole preservare sia attraverso il museo della Pajarola, ospitato nell’antica fortezza, che custodisce una raccolta di cesti, utensili, abiti e bamboline realizzati a mano con intrecci di paglia e materiali naturali, sia grazie all’infaticabile e appassionato lavoro di tutte quelle “pajarolare”, che tengono ancora viva una tradizione che non è solo artigianale, ma anche culturale e sociale, specchio di una comunità che è riuscita a salvaguardare il proprio patrimonio e la propria identità.
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25/06/2016
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