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San Benedetto del Tronto | Un commento alla proprosta di Trigilia su una legge per le città.

di Renato Novelli

Un articolo importante di Carlo Trigilia sul Sole 24 Ore, di martedì 8 scorso, ha posto con chiarezza il problema delle città e delle periferie italiane. Proclamate brutte da Bondi, finalmente costringono ad un dibattito chi non si era mai accorto dei saggi di Antonio Cederna e molti altri.

Non è un problema solo architettonico, anche se il fatto che dal 1960 ad oggi solo il 4% delle costruzioni siano state costruite da architetti, dovrebbe inquietarci non poco. Non è solo un problema urbanistico, perché nei centri delle città storiche considerati tra i più rilevanti al mondo, si legge ancora un progetto di vita sociale, cambiato nel tempo, grazie ad straordinaria eredità di intelligenza degli italiani di ieri.

Mentre le periferie degli ultimi sessanta anni sono lo specchio di un non - progetto dove trionfano la pura speculazione dei costruttori semplificatori e la domanda di abitazioni. Un sistema di quartieri cresciuti nel disordine, di maxi baracche di lusso, senza neppure l'anima degradata, ma disperatamente poetica e proletaria che avevano quelle vere cantate da Pasolini e l'urgenza della sistemazione dipinta poeticamente da De Sica nel film "Il Tetto".

Ha ragione Trigilia: ora ci vuole un piano coordinato per le città che premi i progetti più che gli appalti, per tutte le città. Ma non basta. Perché, se non sono l'architettura e l'urbanistica a poter decidere come cambiare i nostri centri e rendere migliori i quartieri che abbiamo, dobbiamo operare con una costruzione sociale che fu assente, appunto, nell'Italia del saccheggio.

Ripartendo dalla storia dei loro abitanti, dai loro stili di vita, dall'uso concreto che del nulla programmato hanno fatto le persone. Individuare quali contenuti di socialità e di qualità si nascondono dietro il cemento soffocante il degrado. Ripartire, con le idee di Amartia Sen (premio Nobel dell'economia) che parla della povertà non come reddito, ma come esclusione dalle "capacità a fare"( traduzione del neologismo dell'economista indiano che dice capability), che la gente ha costruito o ha oggi la potenzialità di costruire. Non possiamo abbattere i palazzi, neppure quelli osceni, ma possiamo cercare una ricostruzione invisibile fatta di culture popolari che diventi una variante visibile di vivibilità e di qualità dei quartieri. Una ipotesi di lavoro di questo genere non è solo un piano generale per le città, con stanziamento di fondi del governo. Non esiste se non è locale e non ha un nome e cognome.

San Benedetto avrà pure un lungomare, una spiaggia, ma dietro la vetrina,terrificanti conurbazioni scandiscono la geografia quotidiana del nostro vivere. E correndo verso l'interno, la valle del Tronto fino a Monticelli di Ascoli, non appare meno compromessa. I tecnici locali, architetti, economisti, attori del cosiddetto capitale sociale, possono formare una task force di ricerca sugli stili di vita e il vissuto degli abitanti delle città e dei borghi che aiuti attraverso un processo di partecipazione democratica inedita e innovativa rispetto alle istituzioni politiche, ai pallidi "bilanci partecipati" di democrazia stanca e fortemente limitata.

Individuare gli stili di vita e di organizzazione di qualità tra la follia urbanistica della speculazione degli ultimi cinquanta anni, trasformare le potenzialità in proposte non solo urbanistiche, ma di know how, secondo i criteri delle economie della conoscenza, che determinano oggi il successo delle iniziative concrete. Solo così opere necessarie di riqualificazione urbana. Assumono un significato completo, come le strade rinascimentali, le logge dei mercanti, le piazze degli incontri, le simmetrie interiori dei tessuti urbani. Progetti e non appalti, come dice Trigilia, ma motivati localmente e coniugati con regole internazionali. Aspetto osservazioni.

11/07/2008





        
  



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