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Alzheimer in comunità

San Benedetto del Tronto | Uno studio rivela il fallimento delle terapie anti demenza. Piu' che i farmaci aiutano le strutture.

di Tonino Armata

Nel corso di un congresso sull'alzheimer, un medico tra il pubblico si alza e sbotta: "Volete dirci una buona volta se i farmaci contro la demenza servono davvero'". Al tavolo si scatena una bagarre. Un espero afferma che se le pillole fanno qualcosa lo si vede subito, entro 6-8 settimane, ma ci capita solo in un caso su dieci. Un altro ribatte che invece andrebbero prescritte a tutti i malati, almeno per sei mesi. Infine il moderatore taglia corto, salomonico: "Il tipo di certezza che lei chiede non l'abbiamo: ci mancano i dati".

Vero? Non proprio: perché invece i dati ci sono, eccome. Lo studio Cronos ha condotto in Italia la più vasta indagine di valutazione mai svolta al mondo sugli esiti, nel bene e nel male, dei trattamenti con gli inibitori della acetilco linesterasi, cioè le tre molecole ben note a tutti coloro i quali hanno in casa un malato di Alzheimer: donepezil, rivastigmina e galantamina. E i dati raccolti su circa 5.500 casi, sembrano dare ragione al più scettico degli esperi intervenuti al congresso.

Roberto Raschetti, responsabile del progetto dice: "Dopo nove mesi, solo un paziente su sei di quelli che non hanno abbandonato lo studio mostra un miglioramento clinicamente efficace. E se non c'è una risposta entro tre mesi, è difficile che arrivi più tardi": sono risultati ancora più modesti di quelli registrati negli esperimenti clinici condotti per ottenere la messa in commercio. E c'è una ragione, secondo Raschetti: i malati del Cronos sono stati seguiti più a lungo e non erano selezionati; sono più vecchi di quelli scelti per gli studi clinici effettuati dalle aziende, spesso con diversi malanni e già sottoposti ad altre terapie. Insomma, sono più simili a quelli che si incontrano nella realtà di tutti i giorni.

In compenso la comparsa degli effetti collaterali sembra meno frequente, ma bisogna considerare che quasi la metà dei malati ha abbandonato la cura, e di un terzo si è persa traccia: è probabile che si siano scoraggiati o perché i farmaci non funzionavano o perché davano troppi disturbi: oltre ai frequenti fastidi intestinali, nello studio Cronos si sono registrati anche episodi di allucinazioni, sincopi, convulsioni e altri inconvenienti preoccupanti.

I risultati del Cronos trovano conferma su "Lancet" il quale ha pubblicato una ricerca inglese, "AD 2000", il quale sentenzia: non cambia nulla di quel che conta davvero, se si confronta il destino dei pazienti trattati con donepezil rispetto a quelli cui è stato dato un placebo. Dopo tre anni, non risulta ritardato il momento in cui si rende necessario l'internamento in un istituto; è identica la progressione dell'invalidità nelle comuni attività quotidiane; non vi sono differenze neppure per quanto riguarda i disturbi del comportamento, i sintomi psicologici, i costi dell'assistenza e lo stress che grava sulla famiglia.

Migliorano solo i punteggi ottenuti ai test sulle capacità mentali e funzionali, ma di poco. Tanto che, dice Richard Gray dell'Università di Birmingham, autore della ricerca su "Lancet": "I benefici sono al di sotto di una soglia minima di rilevanza. Sulla base dei nostri risultati, i medici e gli amministratori possono chiedersi se le scarse risorse disponibili per la cura della demenza non si debbano destinare ad altri usi più proficui, piuttosto che una somministrazione di routine degli inibitori della colinesterasi".

Come se non bastasse, solo pochi mesi fa le autorità sanitarie europee (e italiane) hanno messo in guardia medici e familiari su un'altra categoria di farmaci, i cosiddetti antipsicotici atipici. Olanzapina e risperidone si usano molto spesso, non per migliorare le capacità cognitive, ma per controllare i disturbi del comportamento e dell'umore come agitazione, deliri, depressione e insonnia. Le pillole funzionano, ma sembra che il prezzo sia alto: negli anziani dementi triplicano gli ictus e raddoppia la mortalità.

Con un quadro tale, come si spiega che alcuni portavoce dei malati abbiano condotto, a marzo, addirittura uno sciopero della fame di due settimane per reclamare una più larga disponibilità dei farmaci? Patrizia Spadin, presidente dell'Associazione italiana malattia di Alzheimer, si sta battendo per ottenere che sia gratuita anche la memantina, un nuovo prodotto tedesco che avrebbe indicazione anche nei casi un po' più gravi di demenza: "Il Cromos ha funzionato male, perché è stato ammesso al trattamento solo un malato su tre di quelli che avrebbero potuto giovarsene. E noi abbiamo messo sul tavolo della Commissione unica del farmaco decine di lettere di medici che descrivono i miglioramenti che riscontrano nei farmaci, non in termini di punteggi e questionati come fanno gli studi, ma di qualità della vita. E quando s'interrompono le cure, il peggioramento è in picchiata". A una domanda precisa, Spadin nega che le posizioni Aima siano influenzate da finanziamenti dell'industria: "L'unica sponsorizzazione che abbiamo è quella della Pfizer, che versa 50 mila euro l'anno per la nostra linea verde, cui arrivano mille chiamate al mese".

Non tutti la pensano allo stesso modo. Gabriella Salvini Porro, della Federazione Alzheimer Italia, non si stanca di ripetere che i bisogni prioritari dei malati e delle famiglie non sono i farmaci, ma una cura complessiva che li accompagni nel lungo percorso della malattia, che può durare fino a vent'anni. "E' insidioso enfatizzare il ruolo delle pillole. Quello di cui abbiamo bisogno come l'aria sono servizi efficienti", dice. E su questo tutti sembrano d'accordo. Tanto più che i tagli dei trasferimenti statali stanno mettendo in ginocchio molti comuni, inducendoli a risparmiare proprio sull'assistenza sociale.

La cosa preoccupa il nord, dove c'era una relativa abbondanza di servizi residenziali, che si stanno rarefacendo; ma soprattutto le regioni centro-meridionali, che non hanno quasi nulla e subiranno nei prossimi anni la più rapida crescita della popolazione oltre i 65 anni, e dovrebbero investire oggi per trovarsi preparate. "Dovremmo fare come la Francia, che ha destinato un giorno di lavoro per finanziare la non autosufficienza. O come la Germania e altri paesi europei, i quali hanno da qualche tempo un fondo speciale a questo scopo", dice il neuropsicofarmacologo Marco Trabucchi, presidente della società di geriatria.

Trabucchi, però, a proposito delle deludenti prestazioni dei farmaci, aggiunge: "Torno da un congresso a Montreal, da cui è chiaramente emerso che tutti gli sforzi per trovare qualcosa di curativo e non palliativo per il momento sono in stallo". Trabucchi si riferisce al fallimento degli esperimenti di farmaci, o vaccini, che si sperava potessero impedire l'accumulo nel cervello della sostanza amiloide, processo che si manifesta nei malati di Alzheimer. D'altra parte ritiene che posizioni esasperate siano complessivamente fuori luogo: "Si lascia credere che sia negato qualcosa che potrebbe far guarire, creando illusioni per oggi e per domani". Resta allora da capire se rimedi così poco incisivi, come quelli oggi disponibili, siano il modo giusto di spendere le risorse (scarse rispetto alle esigenze) che possono essere destinate alla cura della demenza. Nello Martini, direttore della neonata Agenzia del farmaco, non ha dubbi: "Quando ci sono le prove di efficacia e il farmaco è autorizzato, non si può pensare di lasciare il costo a carico delle famiglie, soprattutto nel caso di una tragedia sociale come l'Alzheimer".

La soluzione innovativa è stata appunto il progetto Cronos, cioè un sistema che consente di controllare l'uso appropriato e di osservare i risultati; con il vantaggio aggiuntivo di aver messo in piedi una rete di oltre 500 Unità di valutazione, sparse nel territorio, che ora possono continuare a funzionare come punti di riferimento per i malati e le famiglie. E' un piccolo miracolo all'italiana, ottenuto senza finanziamenti, che se non è lasciato cadere può essere la chiave di volta per gestire meglio la rete dei servizi esistenti e per affrontare le difficoltà dei dementi su tutti i fronti: dai disturbi del comportamento alle malattie concomitanti, come una frattura del femore o il cancro all'intestino. Perché una cosa è chiara: in mancanza di cure risolutive, la società dovrà fare i conti nei decenni a venire con un'epidemia di demenza: il rischio d'incapparvi per un cinquantacinquenne è di uno su quattro (uno su tre le donne).

Occorrerà molta disponibilità a rimboccarsi le maniche: da parte dei medici, infermieri, familiari, assistenti sociali, volontari.

Per finire, essendo (io) malato di Alzheimer, vorrei sommessamente, dare un consiglio a tutti (soprattutto a quelli che si avvicinano verso la terza età). Tenere la mente sempre in esercizio. Più dello sport sono le attività intellettuali a preservare dalla demenza senile. Solo la danza dà gli stessi vantaggi del bridge praticate almeno una volta alla settimana. Secondo gli scienziati, la causa di ciò sta nelle capacità plastiche della corteccia celebrale: le attività intellettuali stimolano nuove connessioni neuronali, ampliando la rete sinaptica e creando via alternative alle connessioni danneggiate. Chi ha frequenti contatti con figli e amici, è più protetto da tutti i fenomeni della demenza senile e depressione.

Di più conta la qualità delle relazioni: piuttosto di molti contatti non soddisfacenti, meglio restare soli. Conservare stretti rapporti sociali e incoraggiate i vostri nonni a fare altrettanto. Da qualche anno gli esperti di neuroscienze hanno buone prove che una partita di carte al giorno vale più di una visita in farmacia.

21/09/2004





        
  



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