Intervista ad Hélène Blignaut
Milano | Esperta di comunicazione e analisi di tendenze, è ideatrice e realizzatrice di eventi di immagine per la moda internazionale.
di Francesca Romana Rinaldi
Se è vero che Museo significa immobilità, stasi, banalità allora non si può che essere d'accordo col suo parere. Ma un museo della moda non deve per forza di cose essere "immobile e statico".
Diametralmente opposta l'idea di museo della moda proposta da Hélène Blignaut, scrittrice sudafricana residente da molti anni in Italia, autrice di romanzi e saggista, oltre ad essere docente di Psicosociologia della Moda e Comunicazione Integrata presso diversi istituti universitari. Esperta di comunicazione e analisi di tendenze, è ideatrice e realizzatrice di eventi di immagine per la moda internazionale.
Che tipo di museo della moda desidera vedere realizzato a Milano?
L'augurio è di poter vedere realizzato un museo della moda innovativo. Il museo, a mio parere, deve essere inteso come laboratorio di sperimentazione e luogo che si apra alla riflessione sui cambiamenti che la società impone e in cui l'abito è considerato inevitabilmente "contenitore-manifesto del corpo".
Qual è l'obiettivo?
Quello di dar vita ad un museo-laboratorio aggiornato con forti link passato-presente-futuro, che attraversi un percorso-tempo in maniera dinamica, un museo didattico, propedeutico al lavoro di ricerca e di comprensione dell'oggetto vestimentario come formidabile mezzo di comunicazione del Sé. Si tratterebbe di un laboratorio interattivo per un "nuovo umanesimo dell'oggetto industriale" che renda partecipe ed attivo il visitatore.
Ma come si fa a legittimare la moda come forma d'arte?
La moda è già legittimata, in questo senso. Si pensi alle esperienze del '900, dal Liberty a Londra, al Wiener Werkstatt a Vienna dove un artista come Klimt lavorando con sua moglie, la stilista Emilie Floge, creava opere in cui il vestito era protagonista. Oppure, l'antesignana della moda Elsa Schiaparelli che a Parigi lavorava con Man Ray, Picasso e Salvador Dalì. Oggi abbiamo stilisti come Martin Margiela che dalla scuola di Anversa ha incantato il mondo non solo per la sua moda portabile ma per le sue opere d'arte (vedi il gilet realizzato con pezzi di piatti rotti) ed esposto al Museo dell'Arte Moderna di New York oppure l'esperienza che sa inglobare musica e fotografia dello stilista di pret-à-porter Hybris con la musica rock e in particolare con il musicista- cantante-fotografo Bryan Adams. E molti altri. Come non citare fenomeni dell'importanza di Issey Miyake con le sue "strutture" architettoniche che travalicano il senso della moda?
In questo modo la moda potrebbe essere legittimata ad apparire in un museo d'arte.
Si. Però bisogna che l'oggetto esca metaforicamente dalla cornice e vada alla persona. Il senso della moda in realtà non è solo estetico, ma è manifesto del corpo, contenitore obbligato: mettere in mostra un vestito deve dare una vita concreta alla vita sospesa agli abiti vuoti passando per una lettura spontaneamente semiologica.
Lei ha viaggiato e continua a viaggiare continuamente tra le varie città della moda: cosa pensa di Milano rispetto alle altre? Quali sono gli elementi che maggiormente la connotano?
Milano rappresenta comunque l'Italia, tramanda la tradizione rinascimentale della bottega artigiana e inoltre è una testa di ponte per un dialogo serrato con l'area mediterranea, con quelle culture che sembrano lontane, ma in realtà si affacciano su un bacino geografico comune.
Se potesse augurare qualcosa a Milano come città della moda, a cosa darebbe priorità?
Priorità all'ottimizzazione dei servizi logistici per accompagnare il visitatore e per invitare anche i cittadini a partecipare ai numerosi eventi che la moda propone in questa città
Cosa cambierebbe di Milano?
Mancano piazze sgombre e ariose, fontane, zone verdi e zone pedonali. E' una città claustrofobica che non sa dare un'idea di libertà. E questo contraddice proprio quel senso di eterna evoluzione degli orizzonti che invece la moda sa dare.
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03/09/2007
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