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Trent’anni fa i primi espropri

San Benedetto del Tronto | Cosi’ esplose la rabbia dei giovani.

di Tonino Armata

Prendersi gratis la musica, è così che nasce “l’esproprio proletario”. In gran parte del mondo i giovani erano scesi in piazza, s’erano lasciati crescere i capelli, e c’erano stati i primi raduni del rock. Era l’estate del 1971 e a Milano, al velodromo Vigorelli, si teneva più modestamente il Cantagiro, uno spettacolo di musica leggera con attrazioni come Boby Solo e Gianni Moranti, le lacrime sul viso e le bottiglie di latte. Troppo out e, per stare al passo dei tempi, gli organizzatori pensarono di chiamare degli ospiti stranieri; e invitarono i Led Zeppelin che era la rock band più tosta del mondo. Quella sera il pubblico festoso e pagante delle famiglie e degli appassionati di festival s’incrociò con migliaia d’extraparlamentari, con i piccoli leader della sinistra giovanile, con degli operai che cominciavano ad avere le fabbriche in crisi.

S’innescò una miscela esplosiva, perché disoccupati e studenti pretesero di avere, gratis, la “loro” musica,. Sfondarono i cancelli, occuparono i posti, lanciarono frutta sugli “urlatori” di casa nostra. E da tutta Milano arrivarono altri contestatori. Finì con il lancio di lacrimogeni, le fiamme sul palco, botte e manganellate, con Robert Plant, il mito che dovette mollare precipitosamente il microfono e scappare in camerino.

Pochissimi capirono “politicamente” quella serata di caos, ma era nata e stava diffondendosi la voglia di “autoriduzione”: niente più biglietto d’ingresso nei cinema e nei teatri, viaggi gratis sui mezzi pubblici per il “proletariato”. Erano anni d’occupazioni di case e fabbriche, e l’espressione “esproprio proletario” ebbe il suo culmine nelle manifestazioni di piazza del 1976, a Milano, a Bologna, a Roma e a Napoli. “Gruppuscoli” (come li definivano i verbali di polizia d’epoca) di giovani mascherati si staccavano dai cortei, smettevano di scandire slogan e assaltavano i negozi: rubavano i jeans, svuotavano le vetrine delle salumerie, razziavano i plateau delle pasticcerie. Spuntavano le spranghe. Si vedevano le bottiglie di spumante, appena razziate, passare di fila in fila e poi finire contro le camionette della Celere.

Quegli espropri coincidevano con l’esplosione politica dell’area dell’Autonomia e l’affermarsi di una linea politica che era definita di “assalto al centro” (nel senso del centro delle città). A Milano era culminata, il 7 dicembre 1976, con l’attacco alla Scala, la sera della Prima. E solo pochi mesi prima, nei dintorni del Parco Lambro, s’era capito quanto alta fosse la tensione. Si teneva il festival organizzato dai libertari di “Re Nudo” e migliaia di giovani si passarono parola: all’improvviso circondarono e svuotarono i camion dei vivere degli organizzatori.

Di lì a poco si sarebbe affacciata una stagione di scelte definitive, che avrebbe convinto migliaia di giovani ad avvicinarsi o a partecipare alla lotta armata, ed è con la tragedia degli “anni di piombo” che la contestazione si spegne e gli espropri tornano a quota zero. Fino alla breve ripresa nei mesi della “Pantera”, quando gli studenti tornarono in piazza per poi rifluire nei centri sociali delle varie città. Siamo tra l’88 e il ’91, e sempre a Milano, a Piazzale Loreto, viene svuotata una macelleria sotterranea, aperta nel mezzanino della metropolitana, o si organizza una gigantesca e gratuita mangiata alla mensa dell’università Statale. A Bologna si riparla del diritto al “sapere” e si saccheggia qualche libreria. Ma è l’ombra degli espropri di dieci anni prima.

E’ solo in queste settimane di prezzi assassini e massiccio astensionismo politico che la parola “esproprio” torna a farsi sentire nelle piazze, ma con una declinazione molto diversa. Innanzitutto non si tratta più di “azione clandestina”. Chi entra nei supermercati, com’è successo a Milano in via Ripamonti, o a Roma, non si nasconde. E nemmeno usa violenza. Mostra il simpaticamente tragico “San Precario”, il patrono dei nuovi umiliati. Riempie i carrelli di merce e chiede lo sconto, come un titolare della carta Fidaty. Non semina volantini minacciosi, ma propone questionari e sondaggi a clienti e a lavoratori. E’ dunque un esproprio che si consuma in una docile amarezza: il massimo dell’illegalità è sgranocchiare qualche prodotto tra gli scaffali e gridare che con il “casino delle libertà” al governo, “se tutto va bene, siamo rovinati”.

17/11/2004





        
  



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