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Léo Ferré, col tempo…

San Benedetto del Tronto |

di Francesco Tranquilli


Sono già passati vent’anni da quando Léo Ferré si esibì per la prima volta sul palco del Teatro Calabresi, coronando il sogno dell’allora assessore alla Cultura Gino Troli, grazie all’entusiasmo e alla tenacia di Giuseppe Gennari, attuale presidente del Centro, che allora era solo un “semplice” professore di francese con grandi doti di trascinatore, mentre oggi è per Ferré quello che San Paolo fu per Gesù di Nazareth. Poi, nel 1993, Léo se n’è andato a suonare il pianoforte di Dio, ma San Benedetto non l’ha mai dimenticato, prima con un Memorial, poi con il “Festival Léo Ferré” che quest’anno è giunto alla sua XII edizione.

L’ide di girare “Léo Ferré in Italia”, il film presentato all’Auditorium delle Biblioteca Comunale lo scorso sabato 25 novembre, nasce nella regista Maria Teresa De Vito nel 2004. La De Vito divenuta Ferré-dipendente lavorando a un documentario su Giovanni Testori, e scopre quanto materiale straordinario su Ferré la RAI conservi ancora nelle sue Teche.

Si presenta dunque a San Benedetto chiedendo di poter riprendere qualche minuto del X Festival, in corso di svolgimento. L’accoglienza dell’organizzazione e degli artisti la spingeranno a fare molto di più: le esibizioni di Francesco Guccini, Xavier Ribalta, Giangilberto Monti, e le testimonianze critiche di Enrico Medail e Mauro Macario, odierni apostoli del verbo di Ferré, formano infatti l’ossatura del documentario, dove vediamo anche brani di esibizioni RAI di Léo che mettono emozione solo a menzionarle: dal Cantagiro del 1972, dove canta Avec le temps, alle straordinaria esibizione al piano come “accompagnatore” della stessa canzone per la voce di Milva; da un’esecuzione straniata di Paris canaille che termina con le note dell’ Internazionale, fino alle lacrime di Giovanni Testori che ascolta Ferré cantare i suoi versi messi in musica.

Navigando nell’immenso mare di materiale d’archivio che, come ci mostra il film, era a disposizione per questo documentario, la De Vito ha saputo tracciare un profilo di sottile sensibilità e perspicacia dell’arte e del pensiero di Ferré. Uno dei brani d’archivio scelti, che occupa una posizione centrale del documentario, contiene forse l’indizio chiave per comprendere il particolare rapporto che legava Léo Ferré, monegasco di nascita, parigino per necessità, al nostro paese, dove si era stabilito nel 1969. Vediamo Gino Paoli , “un caro amico” ospite di Léo alla RAI, che nel 1977 canta in italiano Rotterdam (scritta fra il ’68 e il ’69).

Nella traduzione di Enrico Medail il verso finale suona “questo almeno assomigliasse alla libertà”. Bella conclusione, però nel testo originale invece di “la liberté”, c’è “l’Italie”. Non c’è errore, secondo noi, o facile ripiego, nella traduzione, ma un’intuizione precisa.

Alla fine degli anni ’60, nel momento della sua massima popolarità, Ferré abbandona la Francia per lasciarsi alle spalle gli anni in cui è divenuto un “mostro sacro” della canzone, a prezzo di mille condizionamenti, amarezze, invidie. Cerca un nuovo inizio, si crea il proprio paradiso in terra di Toscana, e poi anche una maison d’édition tutta sua, e forse trova solo nella sua seconda (o terza) patria la libertà più profonda, come musicista e come uomo, potendo finalmente dare e darsi senza limite e senza freno, lui che ha sempre odiato l’autorità, la regola, il limite, che venissero dalla morale o dalla politica o dalla religione, che ha saputo parlare in nome dell’individuo solo e delle moltitudini dimenticate, aspirando con successo a diventare l’autentico Vate della lotta contro l’oppressione della stupidità umana. Per lui, crediamo, “liberté” e “Italie” erano davvero sinonimi.

La visione di Léo Ferré in Italia è stata introdotta dal giornalista e critico musicale Paolo De Bernardin, e preceduta dall’intervento dell’autrice. Maria Tersa De Vito ha avuto modo di raccontare, in toni accorati ma non rassegnati, quale sia l’attuale situazione della produzione di documentari, e della programmazione culturale in genere, ai piani alti di viale Mazzini: “Agli attuali dirigenti la cultura non interessa proprio. I cittadini, i politici, gli amministratori dovrebbero farsi sentire.”

La De Vito ha girato 70 documentari per la RAI, e ciononostante solo con fatica è riuscita, due anni fa, ad ottenere l’approvazione dei capi-struttura a questo suo ultimo (per il momento) progetto.

Dopo l’avvento di Sky, e la contemporanea chiusura dei canali satellitari culturali della RAI, pare che la situazione attuale sia priva di sbocchi per qualunque produzione che non sia di immediato impatto commerciale in termini di audience e di pubblicità.

Se Léo avesse visto cos’è diventato il nostro paese da quando lui se n’è andato in tournée altrove, avrebbe traslocato ancora? O sarebbe rimasto a battersi?

27/11/2006





        
  



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