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Tasse, la scelta rischiosa della politica

| Italia, il paese diviso fra evasori e tartassati.

di Tonino Armata

Nel 1980, Ronald Reagan promise una riduzione delle imposte che avrebbe portato ad un aumento del gettito fiscale, un progetto che persino il suo vicepresidente George Bush aveva definito “economia vodoo”. La teoria, era che con aliquote fiscali più basse, i lavoratori avrebbero lavorato di più, la forza lavoro sarebbe aumentata, il risparmio sarebbe cresciuto a dismisura e questi effetti dell’offerta avrebbero generato un reddito talmente alto che, anche con aliquote più basse, il gettito fiscale sarebbe comunque lievitato. Invece, il risparmio è rimasto ad un livello sconfortante, anzi è persino lievemente diminuito, e non ci sono state conseguenze corrette sull’offerta di manodopera. La riduzione delle entrate non accompagnata da un parallelo taglio delle spese, provocò una crisi fiscale lunga un decennio, che Bill Clinton riuscì finalmente ad affrontare nel 1993.

Come l’inflazione, le tasse sono un tiro alla fune dentro la società. Tra individui, fra categorie. Evasori e tartassati era il titolo perfetto, anni fa, dal pamphlet di un esperto, Antonio Pedone: basta enunciarlo per rendersi conto del vincolo che lega chi strapaga e chi evade. Vincolo perverso, ma efficientissimo. Perché tra l’evasore e il tartassato c’è una specie di legame di sindrome di Stoccolma, carnefice e vittima. L’abbiamo sempre saputo che il falegname che chiede “con fattura o senza fattura?”, che il meccanico o il carrozziere o la segretaria dell’odontoiatra e del fisioterapista, che alludono allo sconto e al taglio dell’Iva nel caso di un pagamento informale, “nero”, cash, senza assegni se non intestati “a me medesimo”, senza tracce contabili, senza carte di credito, lo abbiamo intuito fin dal primo istante che lui è il nostro nemico di classe.

Eppure l’offerta di un risparmio ai danni dello stato è di solito irresistibile. Il pagamento in nero, con relativa evasione, illustra meglio d’ogni altro esempio la teoria del free rider, quello che non paga il biglietto in autobus e di conseguenza fa crescere le tariffe, colui il quale si nega al vincolo civico e con un ammiccamento offre la possibilità del peccato antisociale e anticomunitario: niente tasse, almeno per una volta. Naturalmente è un’illusione, non si scappa: ogni tassa non pagata la paga qualcun altro, preferibilmente chi abbocca all’esca dell’evasion spicciola, modesta, irrilevante. L’elettricista che evade è la premessa di aliquote più elevate per chi evadere non può. Tuttavia la risposta d’obbligo: ma mi faccia il piacere, io le tasse le pago e voglio che le paghi anche lei, sembra confinare con il masochismo. Oppure con la petulanza del richiamo alle regole. Con un puntiglio “di sinistra”, se non addirittura con una decenza borghese palesemente fuori moda.

Quali regole, oltretutto? Il rapporto degli italiani con le tasse è la dimostrazione che le classi esistono ancora, con la relativa lotta. Questa è la regola. Da una parte il lavoro dipendente e i pensionati, inquadrati, schedati, “ritenuti” alla fonte: dall’altra un esercito irregolare, libero di esercitare la sua discrezionalità con lo stato e la polis. A rincorrere le ragioni storiche della simpatia per l’evasore, o della tolleranza per chi elude, verrebbero le vertigini: si potrebbe inseguire la mentalità cattolica semplificata che preferisce dare a Dio anziché a Cesare, il “particolare” guicciardiniano, le gride manzoniane, l’assenza di un potere centrale fino all’Ottocento avanzato, la diffidenza verso l’unificazione piemontese, l’atomizzazione della borghesia durante il fascismo, il “familismo amorale” con cui Edward Banfield, in una classica ricerca degli anni Cinquanta, descrisse un Mezzogiorno incapace di fiducia e lealtà nei rapporti pubblici.

Ma questa che ormai potrebbe essere un’indole, o forse meglio questa seconda natura, italiana, esemplificata da Totò evasore e “perseguitato” dal maresciallo Aldo Fabrizi nel film I tartassati di Steno, non va ascritta soltanto ad uno sfondo antropologico. E’ chiaro che la facoltà d’evasione sia stata anche costruita politicamente, a partire dal dopoguerra e lungo tutti i decenni della storia della Repubblica. Chi governa deve esercitare la fiscalità. Intuitivamente ciò non rappresenta uno strumento per accrescere il consenso. Le tasse sono impopolari. E allora, per restare al governo mezzo secolo, è opportuno e in apparenza conveniente concedere franchigie, realizzare condoni, chiudere un occhio o tutte e due sulla qualità delle denuncie.
Intere categorie sociali e professionali più o meno esentate, rappresentano una parte consistente del blocco sociale che si è saldato in cinquant’anni con gli assegni d’invalidità, le pensioni dopo quindici anni di lavoro, le assunzioni clientelari, la lottizzazione degli impieghi pubblici, insomma con tutte le forme assunte del welfare “clientelare e particolaristico”, come dicono i politologi, che contraddistingue l’Europa mediterranea.

La realtà è che l’antidoto, ossia la formula “pagare tutti per pagare meno”, non è mai stato convincente. Anche perché con gli anni Ottanta, e con le forsennate tirate antistatali sulla scia di Reagan e Thatcher, e magari con il conforto delle teorie di Robert Nozick sullo stato minimo, la polemica antitasse è diventato uno degli idoli tribali della destra. Ma se il sofisticato tributarista Giulio Tremonti poteva concedersi espressioni come “stato criminogeno”, valutando la follia amministrativa delle “cento tasse”, un uomo più sbrigativo come il Cavaliere si è sentito autorizzato a precipitare nelle teorie più giustificatorie (“oltre il 30% l’evasione diventa morale”, per sovrammercato esprimendo concetti del genere davanti alle Fiamme gialle), oppure nelle barzellette più brianzole, quasi eguagliando l’ineffabile materialista lombardo, l’imprenditore Zampètti in molti film dei Vanzina: “Chi è?”. “I ladri!”. “Meno male avevo paura che fosse la Finanza”.

Intanto, però, il tiro alla fune è riuscito: agli altri. A quelli che hanno fatto il condono, o che hanno speculato sull’euro. I free rider. Sicché vedendo le ultime trovate sul taglio delle tasse, con una redistribuzione che toglie ai poveri per dare ai ricchi, si capisce che hanno vinto loro: si sono presi i soldi, sono scoppiati a ridere e hanno mollato la fune, sicché tutti gli altri si sono ritrovati con il culo per terra.

Per finire vorrei parlare del “fondo di solidarietà”. A me sinceramente fa un po’ girare le scatole questa faccenda. Odora di beneficenza d’elargizione annuale ai bisognosi, e rovescia il concetto stesso di prelievo fiscale. Le tasse non si pagano perché ci si sente generosi e benevolenti con i poveri, si pagano perché si è parte di una collettività e si considera necessario contribuire al suo progresso. Il “contributo di solidarietà” mi fa tornare in mente il triste “padronato scolastico”, una specie d’imbarazzante colletta che si raccoglieva a scuola tra gli alunni benestanti in favore di quelli in difficoltà economiche. I meno educati tra i facoltosi se ne facevano vanto, consegnando alla maestra o al maestro una busta più pingue delle altre, tipo la gag di Giorgio Gaber “il mio papà è più ricco del tuo”. Il “contributo di solidarietà” (39% + 4%), è una sgradevole manomissione della cultura fiscale di questo paese. Il risultato non cambia, e i soldi sempre quelli sono. Cambiano i modi, e cambiano in peggio, assecondando il progressivo smottamento dell’etica pubblica.

02/12/2004





        
  



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