Condannati a vita
San Benedetto del Tronto | Vari e controversi sono i punti di vista dai quali, nel corso dei secoli, la morale corrente ha guardato al suicidio.
di Francesco Tranquilli
Condannati a vita
“C’è un solo problema filosofico davvero serio: è il suicidio. Giudicare che la vita vale o no la pena di essere vissuta, è rispondere alla questione fondamentale della filosofia”. Così scriveva Albert Camus nel 1942.
Più di quattro secoli prima, parlando fra sé, Amleto aveva elaborato lo stesso pensiero, concludendo che ciò che ci trattiene dal suicidio è solo “la paura di qualcosa dopo la morte, il paese inesplorato dai cui confini nessun viaggiatore ritorna”.
Vari e controversi sono i punti di vista dai quali, nel corso dei secoli, la morale corrente ha guardato al suicidio. Quello di protesta, di eroica immolazione, d’onore, hanno spesso goduto di ammirazione esplicita. Quello per disperazione, per depressione, per amore, in tempi più recenti, ricevono spesso una muta, tragica comprensione. Si può considerarlo peccato mortale, si può considerarlo viltà, ma in taluni casi non si può negare che c’è una cupa, stoica grandezza nel gesto di chi decide di sbeffeggiare la morte battendola sul tempo sul suo stesso terreno, rivendicando così almeno l’estrema libertà di togliersi una vita che ha perso, per chi la detiene, ogni speranza o valore.
Ai giorni nostri, però, la tecnologia medica (non la “scienza”), è talmente progredita che sa sottrarre questa facoltà di scelta a persone che avrebbero ogni diritto morale di rivendicarla. Sono quelle persone la cui mente è rimasta lucida e presente a se stessa, ma è intrappolata in un corpo ormai inutile, devastato da malattie incurabili, quotidianamente torturato da inevitabili sofferenze. Queste persone hanno davanti a sé la sola prospettiva di una morte che, protratta fino a chissà quando dalla sofisticazione involontariamente sadica di macchine perfettissime, giungerà solo dopo aver azzerato quanto di dignità umana ci rende diversi e superiori a semplici ammassi di materia organiche.
Come condannati nel braccio della morte, sui quali altri uomini eserciteranno il potere definitivo di decidere quando farli morire, queste persone subiscono, incolpevoli, una condanna a vita. Ma una vita solo per modo di dire, meramente biologica: una sopravvivenza.
Una crudele schiavitù di sofferenze crescenti, durante la quale ogni decisione sulla loro esistenza è gestita da altre persone. E che esse parlino in nome di Ippocrate o di Dio, cambia poco. Questi condannati subiscono l’Inferno, il più atroce che una mente poco avvezza all’eternità possa concepire: senza colpa, senza scopo, senza rispetto, senza amore.
Perché non è amore il moralismo ipocrita e contraddittorio di chi rimette il problema nelle mani di Dio, opponendosi alla ricerca medica laddove essa apre prospettive in favore della vita (fecondazione assistita, ricerca sulle cellule staminali) e appoggiandola fervidamente quando si tramuta in prosecuzione del dolore e inutile fuga dalla morte naturale. E non è rispetto quello di chi delega all’eventuale insufficienza tecnica di una macchina il termine della sopravvivenza “artificiale” di malati che, fino a pochi decenni fa, avrebbero concluso più rapidamente la propria esistenza.
Io affermo che ogni qual volta una persona adulta, a causa di una malattia incurabile che gli/le renderebbe impossibile – volendo – mettervi fine con le proprie mani, ritenga che la propria vita non valga più la pena di essere vissuta, e manifesti la volontà di non proseguirla invano, questa volontà vada tassativamente rispettata. Queste persone, a cui la malattia ha tolto ogni altro potestà sulla propria vita, hanno il diritto di non essere lasciate “materialmente” sole. Hanno il diritto ad avere accanto qualcuno che si adoperi per rispettare la loro decisione se continuare a sopravvivere a oltranza o no. Se, in questa delicata materia che tocca gli estremi confini del senso e della dignità della vita, c’è un vuoto, etico, professionale, legislativo, è un vuoto che va riempito. La società, la medicina, la legge, devono farsi al più presto carico del problema del testamento biologico e del tabù ad esso legato, l’eutanasia. Che vuol dire “bella morte”, serena, dignitosa, senza sofferenza. Quella che tutti auguriamo a noi stessi e ai nostri cari.
In pieno possesso delle mie facoltà mentali e fisiche, io sottoscritto dichiaro che, se malauguratamente un male incurabile dovesse togliermi la potestà sulla mia esistenza, impedendomi di mettervi fine quando mi divenisse intollerabile, vorrei che le persone che mi amano, e quelle che hanno a cuore la dignità di vivere e morire, mi aiutino ad andarmene, non mi obblighino a restare.
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10/12/2006
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