La separazione dei magistrati, conviene?
| Le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri devono essere riformate e non rivoluzionate
di Ettore Picardi
La separazione delle carriere dei magistrati rappresenta uno dei temi caldi in materia di giustizia, quello dove maggiori sono i contrasti tra il potere politico e quello giudiziario. La domanda è: conviene separare il ruolo e le vicende di chi indaga e sostiene l'accusa (pubblico ministero) da quelli di chi giudica. Questo è il ritornello che continuamente torna alla ribalta.
Sostengono molti esponenti politici, favorevoli alla separazione, che il P.M. deve essere inquadrato in una struttura ed un ambiente diverso da quello di chi giudica, altrimenti avrà il vantaggio di un trattamento processuale di favore da parte del giudice, che probabilmente subirà il condizionamento di chi gli è collega. Inoltre l'attuale sistema consente al pubblico ministero di poter "improvvisamente" transitare alle funzioni di giudice in una stessa area territoriale, portandosi dietro i condizionamenti e la mentalià dell'inquirente, anche se non potrà ovviamente giudicare quegli stessi procedimenti in cui ha effettuato le indagini.
Controbatte la magistratura associata che il pubblico ministero deve restare accomunato al giudice, soprattutto per dirigere le sue attività con spirito non esageratamente poliziesco, ma con l'equilibrio e le garanzie di chi ha una formazione giurisdizionale: ovvero quella di chi cerca di essere il più impossibile imparziale sin dai primi momenti del procedimento penale, le cosiddette indagini preliminari. Inoltre una separazione netta delle carriere viene avversata nel timore che in definitiva conduca il pubblico ministero alle dipendenze del potere esecutivo, con una più o meno grave erosione della sua autonomia ed indipendenza.
Le riforme in cantiere sembrano aver comunque abbandonato, almeno in apparenza, gli assolutismi iniziali. Tuttavia la soluzione al problema è davvero più semplice di quanto appaia nei dibattiti giornalistici e televisivi in materia: anche perchè la prassi quotidiana già suggerisce la strada giusta. Infatti in concreto sono davvero pochi i magistrati che passano dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, sobbarcandosi il peso di una laboriosa riconversione professionale. Maturata una decina di anni di anzianità è davvero raro osservare passaggi tra funzioni diverse.
Va preliminarmente chiarito che è assolutamente infondato il sospetto che il giudice sia condizionato dal pubblico ministero perchè collega del medesimo ordine; anzi, l'esperienza quotidiana suggerisce il contrario. Suscita ben più timori e condizionamenti il rapporto con polizia e carabinieri, che rappresentano un potere forte ed esterno, percepito come estraneo e determinato. In realtà il problema non si pone, il giudice bravo non subisce condizionamenti di nessun genere.
Resterebbe quindi al legislatore il facile compito di assecondare e perfezionare quanto già accade: rendere il passaggio tra le funzioni impossibile nella stessa area geografica (basterebbe il circondario del Tribunale o comunque il distretto della Corte di Appello) e consentirlo tra aree geografiche diverse mediante approfondite verifiche di attitudini e preparazione. Non occorre nulla di più. Infatti è davvero un patrimonio di garanzia per tutti che a dirigere le indagini non vi sia un superpoliziotto ma un magistrato che abbia la mentalità del giudice e non quella dell'inquisitore: a patto che sia anche buon conoscitore delle dinamiche di polizia, dovendo dirigerle.
Tuttavia questo è un altro, rilevante e diverso problema, quello del reclutamento e della formazione dei magistrati. Un problema che richiederà un ulteriore ed autonoma trattazione.
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15/04/2003
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