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Quali confini tra giustizia e politica?

San Benedetto del Tronto | Pregiudizi e verità sugli inevitabili e pericolosi intrecci magistratura-politica

di Ettore Picardi

Quale dev'essere il corretto rapporto di un magistrato con la politica? Fino a che punto un magistrato può esercitare i propri diritti politici e fino a che punto un sistema giudiziario deve limitare l'esercizio di tali diritti? Occorre preliminarmente distinguere tra attività extra giudiziarie ed attività di  ufficio del magistrato.

Sembra semplice risolvere le questioni relative al secondo punto. Infatti è ovvio che nessun giudice o pubblico ministero debba nell'ambito delle proprie attività professionali svolgere attività politica o farsi condizionare da appartenenze ideologiche o di partito.

Se la soluzione astratta appare scontata, la realtà manifesta tutta la sua complessità. Infatti chi decide una controversia è comunque pur sempre un uomo che inevitabilmente ha passioni ed opinioni: pertanto anche chi abitualmente non manifesta il proprio pensiero e non è palesemente schierato, oppure nemmeno frequenta gruppi contigui a  forze politiche, dentro di sè ragiona e decide spinto dalla proprie convinzioni.

Quindi non solo una preferenza ideologica o di schieramento può condizionare ogni giudice, anche il più riservato, ma tutte le scelte e gradimenti in materia di società, religione, sport, appartenenza geografica, arte, musica, possono influenzare e di fatto influenzano le scelte decisionali di un magistrato così come di un qualunque funzionario.

Non potrà esistere nessuna legge o decreto che garantisca l'onestà intellettuale, unica vera fonte del corretto esercizio della giurisdizione. Certamente risulta impossibile immaginare un sistema così automatico da non consentire spazi interpretativi e quindi scelte discrezionali al giudice, che  certamente subirà l'influsso del proprio modo di pensare ma dovrà limitarsi il più possibile, cercando di trovare nei vuoti normativi non se stesso ma l'intenzione legislativa. Intenzione che è ricavabile da un processo logico complesso e fittizio, ma non legato alla volontà dell'interprete bensì a quella di un soggetto reale ed intangibile qual'è il legislatore.

Peraltro la serenità di giudizio né si insegna né si compra in un esercizio commerciale, ma si trasmette con gli esempi che vicendevolmente si danno e ricevono nella comune vita sociale ed istituzionale.

Qualunque giudice avrà sicuramente un opinione politica, avrà probabilmente simpatie e antipatie di partito. Dovrà dimenticarsene più possibile quando dovrà scegliere la migliore lettura di un fatto e di una norma nel corso delle sue attività. Questo ragionamento, ricordando anche la non affidabilità di chi è fazioso riservatamente, ci conduce al secondo capo del problema.

Quanto è consentito che un magistrato pubblicamente esprima convinzioni politiche, appartenenze e simpatie politiche? La distinzione utile sembra quella della funzionalità professionale. Nel senso che gli operatori del diritto possono e devono pronunciarsi quando il mondo politico ragiona su riforme destinate a cambiare la vita giudiziaria. Si tratta però di un normale processo politico: chi decide deve ascoltare le ragioni di quelli che sono i destinatari di una riforma, che ben conoscono funzioni esigenze e disfunzioni del proprio settore lavorativo.

Chiaramente partecipare al dibattito non significa essere presenzialisti, prevenuti ed irragionevoli. Gli interventi non dovranno manifestare concetti o preconcetti ideologici bensì esprimere convincenti opinioni tecniche, a favore o meno che siano, degli interventi normativi proposti.

Del tutto fuori luogo appare invece il magistrato visibile in manifestazioni dal chiaro contenuto politico generale. Frequentare partiti politici, partecipare molto platealmente a manifestazioni di piazza dal contenuto fortemente ideologico, esprimere preferenze e gradimenti per partiti o singoli esponenti: ecco i comportamenti che non saranno mai giustificabili come libera espressione del pensiero. Infatti la libera espressione del pensiero, come tutte le libertà, incontra dei limiti logici nelle libertà e negli interessi altrui.

Chi è chiamato a delicate decisioni sulla vita e sul benessere altrui deve rappresentare un punto di riferimento certo, per cui anche il dubbio che la decisione sia condizionata da fattori esterni al diritto ed alla legge, rappresenta di per sè un grave danno di credibilità per il sistema giudiziario. Anche nel caso in cui la decisione fosse poi in concreto corretta e serena. Il danno in tali casi consiste nel non far comprendere all'utenza ed all'opinione pubblica che la soluzione giudiziaria sia avvenuta in modo naturale e professionale: facilmente una o più parti in causa potranno sentirsi defraudate anche da una decisione giusta.

Detto questo va ribadito che in società evolute e complesse, come quelle che sempre più si succedono nella storia, sono estremamente probabili conflitti d'interesse tra numerosi professioni ed attività politica. Avvocati, imprenditori, concessionari, medici, ingegneri, sportivi, artisti: tutti possono esercitare l'attività politica lasciandosi condizionare da scopi di bottega, se non addirittura individuali. Addirittura il magistrato che partecipa alla politica può risultare più adeguato di tanti altri rappresentanti, in quanto già portato all'esercizio di un potere dello Stato in modo indipendente ed imparziale.

È evidente quindi come le soluzioni violente ed autoritarie al problema non siano possibili. Da un lato occorre che i magistrati  ed in generale i pubblici funzionari siano sempre più consapevoli della responsabilità delle loro condotte extra professionali. Per altro verso un controllo esterno sulla correttezza deontologica finisce per creare sospetti, se non addirittura realtà, di indebite ingerenze. Si riproporrebbe in modo ancora più odioso un esercizio della giurisdizione  fazioso e parziale, in questo caso proveniente non direttamente dagli operatori ma da chi li controlla e condiziona. Agghiacciante, nulla di meno democratico.

Attualmente gli esistenti deterrenti deontologici e legali al magistrato politicizzato appaiono insufficienti. Bisogna anche comprendere se lo siano davvero o risultino inadeguati solo per la loro inattuazione pratica.

Il legislatore che intende riformare oggi l'ordinamento giudiziario però deve tenere ben presente quanto il magistrato sia un individuo pensante e che solo la libertà di valutazione lo rende affidabile, proprio perché interprete di una realtà che la legge non può mai fossilizzare in una norma scritta ed immutabile. Pertanto sono inaccettabili tutte le proposte che intendano limitare le attività interpretative e le espressioni del pensiero.

Bisogna, con un corretto ed incisivo codice disciplinare, punire gli opportunismi e cioè le condotte di coloro che appaiono soggetti politici e non più giudici. Viceversa non bisognerà demonizzare il fatto che i magistrati si diano ufficialmente e francamente alla politica, purché sia chiaro che con questa scelta lasceranno la toga definitivamente per l' evidente impossibilità di tornare credibili come giudici o pubblici ministeri, soggetti più di ogni altro imparziali e neutrali. Al massimo si potrebbero ritagliare dei ruoli tecnici in materia civilistica o di stretta esecuzione, dove l'appartenenza politica non suscita alcun tipo di turbativa o sospetto di parzialità.

La conflittualità politica e quella tra politica e magistratura ostacola però una responsabile e serena riflessione sul tema ed è davvero spiacevole ricordare che l'attuale Ministro della Giustizia abbia deciso di non parlare più con la magistratura, ritenendo ormai immutabili tutti quei i progetti di riforma che non piacciono proprio a nessuno (o magari a pochissini) degli operatori.

31/10/2004





        
  



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