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Domenica si torna a votare

San Benedetto del Tronto | "Ancora una volta, tra il 3 ed il 4 aprile saremo chiamati ad esprimere un giudizio, implicito, su chi ci ha amministrato, dando un voto a ciò che si è fatto e a ciò che, nei progetti, si potrà ancora fare".

di Clemente Ciampolillo

 
 
Cambiano i protagonisti, ma il gioco delle parti è sempre lo stesso: da un lato, coloro che chiedono una riconferma, affermando la bontà del loro operato e gli ottimi risultati raggiunti; dall’altro, chi invece impersonifica l’opposizione e, ovviamente, osserva gli sprechi, le inefficienze ed i difetti del governo in scadenza di mandato.
Una vera disquisizione politica sarebbe tale allorquando riuscisse a soffermarsi sui programmi di mandato (id est: quali outputs raggiungere con gli inputs a disposizione), non cadendo nella demagogia ma illustrando un percorso realmente sostenibile con le risorse, sempre più ristrette, con le quali gli Enti pubblici possono erogare servizi pubblici.

Purtroppo raramente questo avviene e, negli ultimi anni, il confronto elettorale si è svolto sul terreno del votare “pro” o “contro” qualcuno, non già a favore di un programma, di un’iniziativa, di progetti che toccheranno direttamente la nostra vita quotidiana. Perché la faccia di chi ci governa interesserà fino ad un certo punto, ma se l’ospedale al quale dobbiamo rivolgerci sarà dotato di macchinari efficienti e personale qualificato, ne andrà di mezzo la nostra sopravvivenza.
Proprio per questo, ho sempre ritenuto che un governo, fosse quello politico romano o quello amministrativo dei singoli enti territoriali, dovrebbe sempre agire da buon “mandatario”: una volta ottenuto il diritto (rectius: legittimazione) ad amministrare, è comunque tenuto a rendere il conto della sua attività, mostrando ciò che ha fatto con un “potere” che non gli era arrivato dall’alto dei cieli, ma era stato pur sempre conferitogli dalla gente.
In tale contesto, mi sembra il caso di fare due considerazioni.
La prima, riferibile a quella sorta di emozione che coinvolge i nostri anziani nel ricordare i “grandi politici” del dopoguerra, quelli che davano pensioni a tutti, che mettevano “il sociale” innanzi a tutto, che innescavano gli ammortizzatori sociali se l’impresa andava in crisi, che costruivano, investivano, realizzavano…  Tutti “grandi politici” che ci hanno, però, lasciato una voragine di deficit pubblico che colloca il nostro Paese agli ultimi posti dell’Unione europea, con dati macroeconomici più simili a quelli dei paesi del Terzo mondo che non a quelli industrializzati con cui vorremmo competere. Debito pubblico che adesso è chiamata a coprire la nostra generazione.
Forse non tutti sanno che il rapporto debito pubblico/Pil dell’Italia è superiore al 103 per cento (qualche anno fa sfiorò anche il 120%), mentre i parametri di Maastricht imporrebbero ai Paesi aderenti al patto di non superare il limite massimo del 60%.  Stati come la Francia e la Germania hanno sì problemi con il secondo parametro da rispettare per garantire la stabilità valutaria dell’Euro (il rapporto deficit/Pil, che non può superare la famosa soglia del 3%), ma mantengono comunque il loro disavanzo consolidato ben al di sotto del limite suindicato.
Cosa significa un debito pubblico come il nostro? Avere un euro di debito ogni euro prodotto dalla nostra economia significa, essenzialmente, dover pagare ogni anno interessi passivi a chi “finanzia lo Stato”. Chi ha debiti deve pagare gli interessi; questa è la legge di mercato. E questi interessi devono essere anche appetibili, altrimenti i finanziatori (non soltanto i cosiddetti Bot-people, piccoli risparmiatori, ma soprattutto gli “investitori istituzionali” quali le banche) investono i propri capitali in altre forme di risparmio, più remunerative.
Quindi: più interessi passivi uguale meno risorse correnti da destinare alle esigenze attuali.
In realtà, un “grande amministratore” non è colui che investe in opere pubbliche con soldi che non ha, indebitandosi e lasciando alle generazioni future il compito di saldare il conto. Il “grande amministratore” è invece colui che si comporta da “buon padre di famiglia”: in altre parole, colui che fa quel che può con i mezzi economici a sua disposizione. Facendo bene o facendo male; ma compiendo il passo alla portata della sua gamba.
La seconda considerazione ci riporta ai contenuti di questa lettera: le elezioni regionali.
Sebbene si tratti di elezioni amministrative, lo sconto dialettico tra i poli che può ascoltarsi sulle televisioni, sui giornali, ma anche per le nostre strade è sempre lo stesso: Berlusconi sì, Berlusconi no.  

Personalmente, nella mia personale indifferenza per il Cavaliere, mi stupisco nel sentir ricondurre anche queste elezioni ad un giudizio sul governo avuto da Berlusconi in questi quattro anni di legislatura, quando ciò si andrà a votare domenica sarà il Consiglio Regionale e non certo il Parlamento. Ciò a dire che la diatriba dovrebbe essere, al massimo, tra “D’Ambrosio sì, D’Ambrosio no”, dal momento che è quest’ultimo ad averci amministrato in questi ultimi anni ed è sull’operato del suo governo, uscente, che dovrebbero realizzarsi i confronti.
Proprio i risultati raggiunti dal governo D’Ambrosio, quale “mandatario” della nostra gente, dovrebbero indurre il cittadino a valutare, nell’urna, se la sua Giunta ha amministrato secondo i canoni del “buon padre di famiglia”, oppure no.
Ebbene, da dottore commercialista, non mi permetto di parlare di sanità, di infrastrutture o di politiche agricole. Certamente, la prima cosa che mi torna in mente è il contenuto della nuova legge regionale appena varata, la quale ci consegna una struttura del Consiglio nella quale i rappresentanti del Piceno saranno due in meno rispetto ad oggi.

Di questo, ritengo che dovrebbero spiegarci qualcosa i consiglieri eletti con i nostri voti (Ascoli, San Benedetto, Fermo ed interland) che in questo periodo, riempiono i muri delle nostre città con manifesti elettorali nei quali mettono “il Piceno nel cuore”. Non ci vuole Nostradamus per immaginare un ulteriore spostamento del baricentro politico (e quindi economico, culturale, sociale e quant’altro) nel Nord della regione, a scapito nostro.
Ma l’osservazione che volevo avanzare era diversa e riguardava alcune brevi considerazioni in materia di fiscalità.
Attualmente, le tre leve fiscali alle quali l’Ente Regione attinge per reperire risorse di natura tributaria sono: l’addizionale regionale Irpef; l’imposta regionale sulle attività produttive (Irap) e la tassa automobilistica.
Le prime due sono, dal punto di vista oggettivo, le più alte d’Italia, mentre la tassa di circolazione è (ad esempio) dell’8% superiore a quella del vicino Abruzzo.
Non esiste altra regione italiana che abbia imposto Irap e addizionale Irpef in misura così elevata. Il dato è incontrovertibile: basta prendere le istruzioni ai modelli di dichiarazione dei redditi che, in calce, contengono l’elencazione delle aliquote adottate da ciascuna regione italiana. Solo le Marche esigono un’aliquota Irap del 5,15%, mentre quasi tutte le altre regioni sono ferme al 4,25%. Addirittura le addizionali all’Irpef si spingono sino al 4%, contro l’1,50% (massimo) delle altre regioni.
Ebbene, al di là della questione afferente alla legittimità di tali misure di imposizione (non più tardi di una settimana fa la Commissione tributaria Provinciale di Ascoli Piceno ha contestato la validità delle aliquote imposte dalla nostra regione sui redditi più alti, mentre c’è voluta una legge ordinaria dello Stato per salvare l’aliquota “speciale” Irap del 5,75% che il nostro governo regionale - sebbene in modo non solitario - aveva applicato a carico di istituti creditizi ed assicurativi), si pone il problema delle implicazioni economiche di tali tributi.
Nelle dichiarazioni degli attuali governanti, si scarica la colpa di siffatta imposizione (si ribadisce, unica tra tutte le regioni italiane) sul governo centrale, reo di avere ridotto i trasferimenti erariali a favore degli enti periferici (i cosiddetti “rubinetti pubblici”) o di ritardarne i pagamenti e, di conseguenza, di avere messo le autonomie locali in gravi difficoltà finanziarie.
Ebbene, l’art. 1 del Testo unico sull’ordinamento degli enti locali (D.Lgs. n. 267/2000) dispone chiaramente che tutti gli enti locali sono dotati di “autonomia normativa, organizzativa, amministrativa, finanziaria e impositiva”. La legge può anche leggersi nel senso che sono finiti i tempi delle allegre gestioni della cosa pubblica, nelle quali era ammesso ogni spreco e alla fine interveniva sempre lo Stato-pantalone, pronto ad accollarsi i debiti di questa e quella gestione pre-fallimentare..
Da un pò di anni, l’ingente debito pubblico accumulato in passato grazie ai nostri “grandi politici” ha infatti imposto a ciascuna autonomia di responsabilizzarsi: ciascun ente locale dispone ora di proprie competenze, di un proprio bilancio, di entrate proprie e relativa uscite. Ciascuno di essi deve far quadrare i conti e, chiusi i rubinetti del governo centrale, deve finalmente comportarsi da “buon padre di famiglia”, (quanto meno) contenendosi nello sperperare denaro pubblico in azioni clientelari o comunque inutili alla collettività.
Il nostro governo locale, che domenica saremo chiamati a rinnovare, spesso sembra dimenticare questi principi elementari di diritto degli enti locali. Si appella ancora allo Stato, non rendendosi conto che, anche volendo, il nostro governo centrale deve a sua volta fare i conti con gli stringenti parametri di Mastreecht. Pena il warning della Comunità europea e le relative sanzioni.
Mi si consenta: perché poi prendersela ancora col governo centrale, quando la situazione marchigiana è tutta peculiare? A ben vedere, tutte le regioni italiane si trovano nelle stesse condizioni: tutte le regioni hanno visto ridursi i fondi nazionali, ma la regione Marche è quella che ha il livello più alto di Irap e di addizionale Irpef.  Perché? Perché non ce lo spiegano, nei cartoncini che arrivano nelle buche delle lettere delle nostre case? Perché solo le Marche?
Ma al di là dell’aspetto meramente economico, quello di pagare più tasse dei nostri vicini semplicemente perché residenti nella nostra regione, ci si rende conto che l’Irap così alta sta facendo scappare le grandi imprese dai nostri territori?
I politici si riempiono spesso la bocca con parole del tipo: “lavoro”, “occupazione”, “imprese”.
Ma il meccanismo distorsivo dell’Irap, che vede il costo del lavoro indeducibile nel calcolo di questa imposta e quindi tassato con l’aliquota del 5,15% annuo, rende la nostra regione sicuramente “non appetibile” per i capitali locali e, men che mai, per quelli esteri.
Il quesito è: perché le imprese di media e grande dimensione dovrebbe investire nell’ascolano, se già a Martinsicuro il lavoro costa meno (già soltanto per l’Irap; 4,25% rispetto al nostro 5,15%)? Ma ci si rende conto che i capitali esteri sviluppano indotto, creano posti di lavoro, danno linfa vitale all’economia di un territorio? Cosa dovrebbe invogliare le aziende di grande dimensione, non dico a trasferire capitali dalle nostre parti, ma almeno a non scappare? La bella faccia dei nostri governanti?
Queste osservazioni dovrebbero essere valutate nell’urna. Non le belle parole che i nostri oratori riescono ad esprimere quando si tratta di chiederci il voto. E, ancora soltanto per quest’anno, non ci si aggrappi a Berlusconi.                                                      

31/03/2005





        
  



2+4=

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