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Il grande tsunami e il piccolo uomo

| SENIGALLIA - "Lo tsunami verrà ascritto nella storia come uno di questi momenti di ‘prova’ che l’umanità deve superare ciclicamente, come il terremoto di Messina del ‘908, come l’esplosione del Krakatòa nel 1883".

di Andrea Cesanelli


In questo drammatico e duro gioco col destino che è la vita, le tragedie, individuali e collettive, ci saranno sempre e sarà compito drammatico e duro dell’uomo affrontarle, superarle e continuare a vivere, oppure perire ad esse. Sia come singolo, sia come collettività (le poche volte in cui, l’animale-uomo, rendendosi conto della fondamentale fratellanza che lo lega ai suoi compagni, capisce che insieme ha sempre maggiori possibilità di sopravvivere alle sventure e difficoltà.)

Lo tsunami verrà ascritto nella storia come uno di questi momenti di ‘prova’ che l’umanità deve superare ciclicamente, come il terremoto di Messina del ‘908, come l’esplosione del Krakatòa nel 1883, o ancora il terremoto che rase al suolo Lisbona del XVIII secolo (di cui inorridì persino Voltaire), e via indietro indietro fino ad arrivare all’ultima glaciazione, oltre cui si perde qualunque memoria culturale di simili fatti.

E’ il nostro status di piccoli animali che vivono su questo dinamico e, sostanzialmente, indifferente pianeta, che ci impone questa realtà; umanamente è una cosa angosciante, ma oggettivamente è un semplice dato di fatto, né bello né brutto.

Umanamente si potrebbe essere comunque soddisfatti per la semplice constatazione che l’umanità ha avuto a che fare con simili eventi per migliaia di anni e ne è sempre uscita viva e vitale, darwinianamente la nostra specie ha saputo adattarsi anche agli imprevisti devastanti e sopravviverne. E’ consolante pensare che gli individui soccombono, ma la nostra genìa, e la cultura che essa porta avanti, sopravviveranno.

Ma il punto è proprio questo, che garanzia abbiamo che la specie umana possa sopravvivere?
Il ‘pregio’ di certi eventi drammatici, come lo tsunami, è che ci strappano violentemente dal sonno in cui viviamo il più del tempo, presi dai mille problemi quotidiani (molti dei quali molto sciocchi, se paragonati al vero e unico problema dell’uomo), per buttarci in faccia la precarietà del nostro essere, come individui e come specie.

E se l’unica risposta seria alla domanda fatta poc’anzi è: nessuna! Anche questo non è necessariamente negativo, può essere invece uno sprone ad apprezzare di più la vita e le sue piccole gioie. Una rosa non è meno bella per il fatto che domani sfiorirà, anzi, la meraviglia e l’incanto sono datele proprio dalla sua brevità nel tempo. Solo le cose effimere possono essere davvero sublimi.

Un altro ‘pregio’ di cataclismi come lo tsunami, specie in epoche di grande informazione come questa, è di mostrarci come, nella tragedia, tutti gli uomini sono davvero uguali: le lacrime di una madre dagli occhi a mandorla o dalle guance scure sono salate come quelle delle donne ariane o semite. E allora davvero c’è una grande occasione da non perdere, realizzare il sogno che fu di un grande afroamericano, attivo negli anni ’60, di nome Martin: una rivoluzione culturale che ci porti a sentire la fratellanza di tutti gli uomini e della necessaria loro alleanza per vivere meglio su questo pianeta, insieme.

Perché un vero e grande dramma è che la maggior parte dei problemi che vive l’umanità sono creati dall’umanità stessa, non gli tsunami uccidono 30.000 bambini ogni  giorno di fame nel mondo, non lo tsunami costringe più di un miliardo di persone a vivere con meno di 2 dollari al giorno, non lo tsunami manda a morire miseri soldati in una delle migliaia di guerre che hanno flagellato la terra dalla fine della 2° guerra mondiale (che avrebbe dovuto esser l’ultima).

Si potrebbe continuare, all’infinito. Ma non serve il nozionismo, qui meno che altrove, non è l’esatto numero degli uccisi ad Auschwitz che deve farci sobbalzare, ma il fatto che Auschwitz sia esistito, che ad uomo sia bastato animo di degradare e macellare un altro uomo.

Ecco il significato vero della commemorazione, che cade quest’anno, del cinquantenario della liberazione del tristemente famoso lager polacco da parte delle truppe sovietiche, evento di cui noi italiani abbiamo indimenticabili immagini di primo piano grazie ai libri di un ebreo torinese, Primo Levi, che visse la prigionia e la liberazione sulla sua pelle e riuscì a tornare a casa.

Alla domanda, che percorre sottintesa le intense pagine del “Se Questo è Un Uomo” di Levi e che è la stessa che tormenta i parenti delle vittime dell’11 settembre americano o del 26 dicembre asiatico: perché la guerra? Perché lo tsunami? Perché il Male? La risposta sia: per farci capire che c’è solo un lavoro e un ideale per cui vale la pena lottare e impegnarsi: un futuro migliore per tutta l’umanità. Il resto è vano contorno.

E’ retorica o trito buonsenso? Giudichi ognuno… ma solo chi ha il coraggio di accettare la sfida a metterlo in pratica ha, nonostante tutto, il diritto di essere, oggi, ottimista.

09/04/2005





        
  



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