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"La fiera delle vanità" al Cineclub Ascoli

Ascoli Piceno | Becky sensibile al fascino di una vita più agiata ripudia il suo ambiente di origine.

La fiera delle vanità: la locandina del film

Appuntamento Martedì 10 e Mercoledì 11 Maggio al Cinema Piceno alle ore 21.15 con "La fiera delle vanità"

Trama: Figlia di uno squattrinato artista inglese e di una ballerina francese, Becky resta orfana in tenera età. Fin da bambina è sensibile al fascino di una vita più agiata e ripudia il suo ambiente di origine. Abbandona l'Accademia di Miss Pinkerton a Chiswick, decisa a conquistare l'alta società inglese con ogni mezzo a sua disposizione. Per scalare le vette sociali ricorrerà a tutta la sua intelligenza, astuzia e sensualità.

L'ascesa di Becky ha inizio con un lavoro come governante presso l'eccentrico Sir Pitt Crawley, nella campagna dell'Hampshire. Becky conquista le figlie di Crawley e persino la ricca zia zitella, Matilda. L'intera famiglia si affeziona moltissimo alla giovane Becky, tuttavia, lei sa che non riuscirà mai a far veramente parte della società inglese fin quando non si trasferirà in città, e accetta quindi l'invito da parte della zia Matilda, di andare a vivere a Londra.
 
Londra nei decenni delle guerre napoleoniche e in quelli subito seguenti sono lo sfondo de La fiera delle vanità di Mira Nair, tratto dal romanzo di Thackeray e presentato all'ultima Mostra di Venezia.
Il contesto è quello della Rivoluzione industriale: propensione oceanica, egemonia in Europa, estensione dell'impero commerciale, fanno della Gran Bretagna l'iperpotenza di allora. Le prospettive di guadagno che lambiscono quasi ogni suddito accelerano il ricambio delle élite e stimolano la figlia (Reese Witherspoon) di artisti squattrinati, per giunta di madre francese, a tentare la scalata sociale con l'intelligenza, la cultura, la rabbia.

A suo modo, lei è una ragazza seria, che cerca un marito, meglio se titolato, non importa che sia il grande amore. Senza illusioni, ha sempre guardato il mondo che conta dal basso e quello che non conta dall'alto. Nessuna idea di socialismo sfiora questa visione predarwiniana... Indiana, abituata a società non meno piramidale di quella britannica, la Nair -che con Monsoon Wedding aveva vinto un Leone d'oro - non ha patito la fame in patria, come il suo personaggio, ma poi deve avere misurato le durezze castali inglesi, così il quadretto di gentry e aristocrazia le riesce bene.
Maurizio Cabona (Il Giornale Nuovo)
 
Ritratto di un’epoca attraverso ritratti donne. E’ La fiera delle vanità di William M. Thackeray (1811-1863), quadro satirico della vita del primo ‘800 nel quale questo scrittore inglese nato in India sottolinea i vizi e le deformazioni della società britannica.

La “fiera delle vanità” è quella che emerge dal confronto di due compagne di scuola, Becky e Amelia. Furba e di pochi scrupoli la prima, che sposa per interesse il figlio di un baronetto e si fa largo a spallate sulla strada dell’alta società; mite e sprovveduta l’altra, che dopo la rovina finanziaria del padre sposa il fidanzato George, fatuo ed egoista, arresosi al matrimonio solo per l’intervento deciso di un altro corteggiatore di Amelia, il capitano Dobbin, che gli impedisce di venir meno alla promessa fatta. George cade nella battaglia di Waterloo e Amelia giura fedeltà alla sua memoria. Ma quando Becky le rivelerà che il marito l’ha tradita anche con lei, si convincerà a sposare il devoto Dobbin.
La fiera delle vanità è un romanzo che risente dei limiti imposti dalle rigide convenzioni vittoriane dell’epoca (Thackeray lo scrisse fra il 1847 e il 1848 rimpiangendo la libertà espressiva di cui godevano i romanzieri francesi) e, nel portarlo sullo schermo, Mira Nair avrebbe potuto cercare di depurarlo da tutti i condizionamenti sofferti in quel periodo.

La regista indiana (autrice di Salaam Bombay, Mississippi Masala, Monsoon Wedding) ha scelto invece una strada diversa e, pur nella fedeltà al testo originario, ha cercato nelle pagine di Thackeray quegli elementi che mettono in risalto la solare distensione e la quieta serenità della cultura orientale per contrapporli all’educazione britannica e al suo rigido classismo che finisce per reprimere nell’individuo ogni impulso di libertà. 
Alla società inglese, chiusa, ipocrita e arrivista, fa così da contrappunto un’India colorata, gioiosa e traboccante di vitalità. La società che, nel finale del film, scelgono Amelia e Dobbin; la società che Mira Nair, studi di cinema e sociologia a Harvard, vede nelle pagine di Thackeray come il rimpianto e la nostalgia dello scrittore che non era ma riuscito a strapparsi dal cuore la terra in cui era nato e dove aveva trascorso la giovinezza. 
Enzo Natta (ANCCI)
 
Becky Sharp, la sfrontata eroina del romanzo La fiera della vanità (1848) dell'inglese W. M. Thackeray, è molto simpatica alla gente del cinema. Devono stimarla un po' simile a loro; è sfortunata dato che resta orfana in tenera età ma contemporaneamente è baciata in fronte dalla fortuna poiché la accolgono in un collegio signorile.

Furba com'è impara subito quel che va imparato. Se vuoi farti largo, così pensa Becky, devi sgomitare senza fartene accorgere. La Sharp non è languorosa come la sua migliore amica, Amelia. Si guadagna con l'astuzia la simpatia delle persone che contano. Così, di tappa in tappa (matrimoni segreti, relazioni pericolose e chi più ne ha più ne metta…) conquista un suo posto al sole nella nebbiosa Londra, centro di un impero in formazione (siamo ai tempi delle campagne militari in Europa di Napoleone). E punta ancora in alto, sempre più in alto.
Di Becky Sharp l'indiana Mira Nair coglie l'aspetto volitivo, l'ostinazione nella scalata sociale - e nel finale il senso di precarietà che accompagna ogni successo mondano - facendone quasi una protofemminista. Ma la considera un prodotto, piacevole ma non certo "esemplare", di una società che, sotto vistosi pregiudizi e belle maniere, coltiva la ferocia, protegge l'ordine consolidato e favorisce i "ribelli" quando si limitano ad aspirare unicamente a beni di fortuna.

Questa visione critica di un costume, per certi versi "moderno", proprio simile al nostro, consente a Mira Nair di districarsi con disinvoltura fra fastose coreografie, costumi ricercati, ambienti sofisticati. La fiera della vanità le permette inoltre di animare certe stampe d'epoca sull'impero inglese con i suoi nobili, funzionari e soldati catapultati in Asia da Londra e dintorni e con i principi e le plebi dell'India favolosa. Il film, infatti, recupera il capitolo indiano espunto, di solito per motivi di costo, dalle precedenti versioni del romanzo.

La riduzione della Nair del libro di Thacheray non sfigura rispetto ai rimaneggiamenti che se ne è fatto in passato, fra i quali va ricordato almeno Becky Sharp di Rouben Mamoulian che le storie del cinema lodano per l'uso del colore (allora in via di sperimentazione).

Stupirà piuttosto che una regista che si impose con amare descrizioni di mondi sottoproletari, da Salaam Bombay! a Mississippi Masala, sia arrivata, sia pure attraverso la mediazione di spiritose commedie, ai salotti vittoriani, e ci si trovi benissimo godendo nell'ascoltare i dialoghi spiritosi, davvero ben scritti, recitati dalla protagonista del film, la bionda Reese Witherspoon, con sicurezza professionale. Disinvolti anche tutti gli altri attori, in maggioranza inglesi.

Questa produzione costosa e sfarzosa mostra come l'industria cinematografica indiana possa ormai far concorrenza alle cinematografie dominanti nel resto del mondo puntando non tanto su elementi autoctoni ma su quanto di più tradizionale ci sia: un romanzo, magari un bel romanzo come nel caso di Thacheray, risalente all'Ottocento.
Francesco Bolzoni (L’Avvenire)

09/05/2005





        
  



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La fiera delle vanità: una scena del film
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