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La tutela del “Made in Italy”

| "Non commette il reato di cui all’art. 517 del codice penale la società che, nel commercializzare beni prodotti all’estero, inserisce in questi la dicitura del nominativo e dell’indirizzo italiano della società commerciale."

di Antonio Morelli


Con una sentenza del febbraio u.s., che rappresenta di fatto un primo intervento interpretativo della norma penale introdotta dalla Legge Finanziaria n.350 del 2003, la Corte di Cassazione ha precisato che “ non commette il reato di cui all’art. 517 del codice penale la società che, nel commercializzare beni prodotti all’estero, inserisce in questi la dicitura del nominativo e dell’indirizzo italiano della società commerciale.
Nel dettaglio, con la norma penale richiamata viene previsto che “ l’importazione e l’esportazione ai fini di commercializzazione  ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza costituisce reato ed è punita dall’articolo 517 del codice penale.
Costituisce falsa indicazione la stampigliatura “made in italy” su prodotti o merci non originari dell’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine dei prodotti; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata sia indicata l’origine e la provenienza delle merci, l’uso di segni, figure o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana”.
Con la sentenza della Cassazione viene quindi operata, per ciò che concerne l’applicazione della norma, una distinzione tra il concetto di origine e di provenienza del bene.
 
Giuridicamente, il concetto di provenienza è sempre stato assimilato al “produttore” e non al “luogo di fabbricazione”; su tali basi, la cassazione conferma che una interpretazione diversa da questa si porrebbe contro il principio generale di tassatività delle fattispecie penali. Viene altresì precisato che, ove il legislatore avesse voluto dare peso specifico al luogo, nei casi in cui ad esempio fattori ambientali o climatici possono incidere sulla qualità del prodotto, lo ha sempre fatto in modo espresso.
Nella sostanza, operare una estensione troppo ampia della fattispecie penale in materia potrebbe includere anche casi che sarebbero palesemente irrilevanti nell’interesse primario della norma, che è quello di tutelare il consumatore contro indicazioni che potrebbero trarlo in inganno sulla qualità del bene.
 
Il concetto di origine trae invece la sua origine nella normativa europea in materia, ed in particolare nel Regolamento CEE del 1987, in materia doganale, nel quale l’origine del prodotto viene individuata in via generale  dal luogo di produzione o di ultima trasformazione di un bene.
La Cassazione, in tale disamina, ha ritenuto che l’art. 4 della Finanziaria 350/2003 contenga di fatto disposizioni riferite a fattispecie diverse; infatti, nel primo periodo, che riguarda le false e fallaci indicazioni di provenienza del prodotto, deve ritenersi che si riferisca al concetto di provenienza così come giuridicamente inteso, ossia legato al produttore e non la luogo; il secondo periodo, al contrario, riguarda invece la tutela propria del “Made in Italy” e dispone che costituisce falsa indicazione l’apposizione di questo marchio su prodotti e merci non originari ( in senso “doganale”) dell’Italia  ai sensi della normativa europea sull’origine.
 
Evidente conseguenza a tale interpretazione è quindi che, nella sostanza, una società italiana che opera una fase del processo produttivo di un bene in un Paese diverso dall’Italia a mezzo di una società controllata e che esercita un costante controllo su questa per quanto attiene le tecnologie produttive, le formule e le procedure aziendali e si assume la responsabilità economica e tecnica del processo di produzione, garantendo quindi al consumatore finale quelle garanzia di qualità del bene assolutamente analoghe a quelle che si potrebbero riscontrare in beni prodotti direttamente dalla società italiana, l’apposizione del marchio e della denominazione sociale di quest’ultima sui prodotti esteri non può definirsi idonea ad ingannare il consumatore sulla “provenienza” e sulla qualità dei prodotti stessi, e non può quindi integrare la fattispecie penale in esame.

18/09/2005





        
  



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