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Parla don Giovanni Saverioni: “Quel 16 giugno 1944, la Liberazione di Teramo…”

| TERAMO - Il brindisi con il Generale H. Alexander e il Cappellano militare al “Caffè Fumo”, il rigido inverno del ’44, l’aiuto prestato ai soldati alleati Edmund William Layland e Nicola Kartashov.

di Nicola Facciolini


Don Giovanni Saverioni, umile prete di campagna, giornalista, viaggiatore, poeta e scrittore, ha attraversato indenne 61 anni di storia patria del Novecento teramano, vivendo da protagonista fatti che alcuni vorrebbero semplicemente vedere sepolti per sempre. Invece, Don Giovanni di cose da raccontare ne ha ancora molte, soprattutto ai più giovani e a chi non c’era in quei tristi giorni della Seconda Guerra Mondiale quando i nostri patrioti preparavano la strada alle Armate alleate dei generali Montgomery ed H. Alexander, gli artefici della Liberazione di Teramo dai nazisti, quel lontano 16 giugno 1944.

“E’ passato il tempo della lepre!”, ripete don Giovanni. “Sono nato a Sciusciano, il 5 aprile 1919 in una famiglia di piccoli proprietari. Sapete? Sciusciano significa: il paese delle prugne bianche, le migliori in assoluto e ce n’erano talmente tante che i contadini non riuscivano a mangiarle. Così le coglievano, le mettevano in mezzo al fieno e poi, quando d’inverno andavano a tagliare il fieno, trovavano le prugne secche! Entrato in seminario a 10 anni, ho compiuto gli studi dalla quinta elementare al quinto ginnasio a Teramo, i tre anni di liceo e i quattro di teologia a Chieti.

Ordinato sacerdote il 29 settembre 1944 a Teramo, la mia prima parrocchia fu quella di Tottea di Crognaleto dove rimasi dal 1945 al 1949. Fui poi parroco di Poggio Cono dal 1950 al 1968, quindi fui chiamato a organizzare la parrocchia di Villa Mosca dove sono rimasto fino al 2 settembre 2000. Ho insegnato Lettere nel Seminario Aprutino, Religione al Liceo Classico di Teramo (1952-53), poi all’Istituto “V. Comi” di Teramo (1960-1985). Sono un giornalista da una vita, ho fondato: La Tenda, il piccolo mensile parrocchiale che fino a qualche tempo fa, distribuivamo in 2400 copie anche all’estero, e la Libreria Cattolica di Teramo”.

I Teramani come vissero l’arrivo dei patrioti e degli alleati, quel 16 giugno 1944?
“Leggo su questa mia agendina del 1944: <Giovedì 15 giugno da Teramo vanno via gli ultimi tedeschi. Il 16 giugno, venerdì, Armando Ammazzalorso e Bruno Santacroce, con un migliaio di patrioti, scendono a Teramo alle ore 10,30 circa. Alle 17 viene il Generale inglese e il Cappellano. Io ossequio il Cappellano con cui brindo al Caffè Fumo>. L’anno dopo, il 16 giugno 1945, scrissi un articolo per ricordare l’avvenimento, precisando che, forse, doveva trattarsi del Generale Montgomery o Alexander. La mattina del 16 giugno ’44, in una giornata di sole intenso, da Torricella discesero i patrioti che durante una stagione di freddo asprissimo, avevano fatto la spola sulle nostre montagne. Quel giorno il sole volle avvolgerli tutti, saturarli di luce e calore, quasi in compenso di tanto freddo patito. Sfilarono senza l’inquadramento rigido delle parate fasciste: alcuni laceri e sporchi, tutti col sorriso, la gioia e il canto sulle labbra. L’umile popolo che sa afferrare immediatamente il significato di una manifestazione spontanea, applaudì quelli che non avevano avuto la pretesa di scrivere un’epopea eroica sui nostri monti, ma che avevano voluto semplicemente agitare la bandiera della libertà rischiando la vita. Tuttavia quelli erano momenti di odio contro i fascisti e i loro collaboratori. Si voleva la vendetta da parte degli antifascisti e soprattutto dei patrioti. Mentre i patrioti sfilavano per il Viale Bovio e si immettevano su Piazza Garibaldi, io mi trovavo tra la folla, all’altezza dell’attuale chiesa dell’Immacolata. Accanto a me c’era la signora Luisa Venturoni, madre del partigiano Antonio Scarponi. La signora, emozionata per la sfilata dei patrioti, ma soprattutto perché era finito l’incubo di oltre un anno per il figlio fuggiasco e continuamente in pericolo, disse forte: <Ora basta! Non ci devono essere più mamme che trepidano per i loro figli!>. Lo stesso amico Ammazzalorso, affacciandosi al balcone della Prefettura, pronunciò parole di riconciliazione. Purtroppo le loro voci non furono ascoltate e i morti ci furono ancora”.

E poi cosa accadde?
“A mezzogiorno Teramo già riprendeva il suo regolare andamento, pur conservando un non so che d’insolito e di festa. Io, Ammazzalorso e Bruno Santacroce andammo a mangiare alla casa del partigiano Antonio Scarpone, dietro la villa comunale.
Ma verso le ore 14 una furiosa sparatoria a piazza Garibaldi, all’imbocco di Corso San Giorgio, richiamò l’attenzione di tutti. Gli animi agitati da tanti timori si misero in apprensione: erano forse tornati i tedeschi? Della gente accorse in piazza Garibaldi e lungo il Corso…Ancora qualche fucilata, poi grida confuse di gioia. Erano due soldati alleati, della Nembo, giunti da Ortona. Come il lampo corse la voce: è arrivato il Generale dell’VIII Armata col suo Cappellano! Giunsi anch’io a Piazza Caduti per la Libertà, già gremita di gente. Dal balcone del Palazzo del Consiglio Provinciale dell’Economia si erano affacciati il Generale e il Cappellano che aveva subito cominciato a parlare. Gli sguardi e gli animi erano tesi verso quell’uomo che, parlandoci in italiano, sembrava portarci l’eco di Roma (liberata il 4 giugno, ndr) proiettata anche sulle rive del Tamigi. Interprete dei sentimenti del Generale, il Cappellano disse: <Siamo venuti a Teramo non per portare la guerra, non per combattervi, ma per liberarvi. Siamo venuti non come nemici, ma come fratelli>. Sui teramani, abituati dai tedeschi al linguaggio della provocazione e della minaccia, passò un’ondata di immensa commozione. Bastò quella frase perché cadesse, come d’incanto, tutta la montatura di una propaganda improntata alla calunnia di un nobile popolo che ha sempre fraternizzato con gli Italiani. Poi il Cappellano, sotto la maglietta e il basco del soldato, risentì affiorare il suo cuore religioso e ci esortò a ringraziare Dio per la ottenuta libertà. Era quello che ci voleva. Dopo tante stragi e tanto odio, la figura di quel benedettino nato sotto un altro cielo ma animato dalla stessa nostra fede, ci apparve dal balcone come un angelo della pace. Poi continuò: <So che il vostro Vescovo è malato; noi partecipiamo al vostro dolore e alla vostra ansia. Formuliamo per lui l’augurio di una sollecita guarigione e, sicuri di interpretare un vostro desiderio, gli chiediamo, per noi e per voi, la santa benedizione. Benedici, Eccellenza, questo popolo amante della pace!>. E Mons. Antonio Micozzi che da una finestra dell’Episcopio ascoltava le parole del Cappellano, sporse il suo viso cereo. Era diventato un’ombra! Diciassette anni prima era venuto a Teramo sano e robusto; ora viveva gli ultimi giorni della sua vita, consumandosi, a poco a poco, come un lume senza olio. La folla applaudì e Mons. Micozzi, con un gesto ampio e solenne, alzò le mani scarne e ci benedisse. Tutti erano commossi e tornarono ad applaudire”.

E i Teramani come risposero all’invito del Cappellano militare?
“Il Cappellano, continuando a parlare, ricordò il Sommo Pontefice Pio XII. Quel ricordo del Papa, fatto in un giorno di Vittoria e da un britannico, aveva un significato profondo: la Chiesa universale, con la sua potente attrazione, volge a Roma anche i figli più lontani e più estranei all’Italia. Anche la foresta ha un canto per il successore di San Pietro. Il Cappellano concluse: <Ora diciamo un’Ave Maria per il Papa…!>. I demagoghi, gli arruffapopoli, gli oratori famosi, preoccupati degli applausi scroscianti, alla fine di ogni discorso vanno in cerca della frase brillante per la chiusa. E difatti scroscia l’applauso, ma spesso è accompagnato da un sorriso che cela un furbo sottinteso. Questa volta la frase altisonante era mancata e, caso strano, si finiva con un’Ave Maria. Il popolo dapprima rimase incerto, era troppo abituato ad altri finali, poi con sicurezza ripeté il Saluto angelico ed applaudì. I cittadini di Teramo ritrovavano allora il loro vero volto: quello della preghiera, del perdono e della fratellanza. E ricordo chiaramente l’incontro che avemmo, circa 13 persone, con il Generale e il Cappellano al Caffè Fumo, dopo il suo discorso dal balcone di quella che era la Camera di Commercio, gli attuali uffici del Comune in piazza Martiri. Brindammo con dello spumante, una bevanda introvabile a quei tempi. Il Generale, naturalmente, brindò alla Vittoria; il Cappellano, volgendosi verso di me, brindò dicendo: < Viva il Papa! >. In Inghilterra, nel passato, l’offesa più grave che si potesse fare a una persona, era dirgli: <Sei un papista!>”. Oggi, 61 anni dopo, il Caffè Grande Italia (ex Fumo) dovrebbe ricordare quello storico brindisi, magari esponendo qualche foto d’epoca!

Scoppiò anche la guerra civile nel teramano?
“Nell’inverno del 1944 c’era anche la guerra civile in Italia, come descrive bene Giampaolo Pansa nel suo libro Il sangue dei vinti. Sui nostri monti e sulle nostre colline, vivevano alla macchia i patrioti, dopo lo scontro con i tedeschi al Bosco Martese. Io li incontravo quasi ogni sera: Armando Ammazzalorso, Angelo De Dominicis e Bruno Santacroce (che avevano sposato due ragazze di Sciusciano), Arturo Scarpone e Bruno Cellini che fu ucciso una notte d’inverno del ’44 oltre il Ponte Vezzola dopo aver cenato con me”.

Cellini fu ucciso mentre le due formazioni Rodomonti e Ammazzalorso, credendo di contrastare i tedeschi, sparavano l’una contro l’altra?
“Non penso, perché fu l’amico socialista Ammazzalorso a raccontarmi come si svolsero realmente i fatti. Felice Rodomonti si appostò per uccidere il cugino Marcucci, poiché questi aveva lasciato la sua formazione partigiana per unirsi con Ammazzalorso, ma uccise per sbaglio Bruno Cellini. La vendetta si consumò nel Dopoguerra: l’ex capo partigiano Felice Rodomonti organizzava spesso delle serate da ballo nella scuola elementare vicino Cartecchio e una sera vi andò anche il cugino Attilio Marcucci, credendo ormai passato ogni rancore nel cuore di Felice. Il quale appena lo vide, gli sparò: Rodomonti fu accusato dell’omicidio del cugino Marcucci, vi fu la causa che nessuno può negare, ma fu scagionato, si disse, per legittima difesa grazie alla testimonianza di alcuni amici che affermarono di aver visto Attilio impugnare una rivoltella”.

Quali altri fatti di sangue macchiarono le nostre contrade?
“A Montorio al Vomano vi fu l’accanimento del partigiano yugoslavo Mirko Jovanovic contro i preti, a dimostrazione dell’esistenza di una lotta parallela anticlericale: era fuggito in Italia e si era unito ai patrioti contro i nazifascisti. Mirko uccise due sacerdoti: don Salvatore d’Ovidio, parroco di Poggio Umbricchio, e don Gregorio Ferretti di Collevecchio. E pensare che i montoriesi volevano pure intitolargli una strada! Ora, un prete di campagna non parteggia per nessuno in guerra: mi domando ancora, a distanza di 61 anni, perché mai furono uccisi quei due sacerdoti, se non per l’odio viscerale dei comunisti verso la Chiesa cattolica. Noi preti davamo da mangiare e da bere a tutti, anche ai tedeschi. Certo, noi volevamo la liberazione e la libertà. E non si può dimenticare il contributo di sangue dei nostri patrioti alla causa: è vivo il ricordo del martire Mario Capuani e di tanti altri. Ma le vendette successive alla liberazione di Teramo, furono una infamia. Fu l’amico Ammazzalorso a raccontarmi questi fatti e non credo che l’avrebbe fatto se non fossero stati veri e autentici. Una volta, nella casa di mio zio Raffaele, Ammazzalorso mi disse: <Io non sono comunista, sono socialista!>, per indicare che lui quelle cose non le faceva. Ma io non capii subito la differenza perché non sapevo nulla dei partiti politici, solo che il Papa aveva condannato il marxismo. Durante il Ventennio, infatti, non si poteva parlare di partiti: o eri fascista o eri morto. I libri sui partiti venivano custoditi in cantina”.

Alcuni soldati alleati trovarono rifugio e conforto nelle nostre case…
“Qualche volta andavo a trovare quelli che vivevano nascosti in un fienile, a Scapriano. Ricordo, tra gli altri, un giovane soldato britannico, il dott. Edmund William Layland di Sheffield (Inghilterra) che mi disse: < Se riesco a tornare a casa, comprerò una Fiat!>. Una sera ho avuto un incontro particolare con un soldato russo, fuggiasco anche lui, sulle nostre colline di Castrogno, per sfuggire ai tedeschi, in un tempo in cui vivevamo di paura e di ardimento per la guerra civile. Si chiamava Nicola Kartashov.
Ce l’ho ancora davanti agli occhi con quel pizzo biondo e l’andatura dinoccolata e stanca. Il bastone in mano e un cencio in testa: aveva l’aria di un brigante e di un sognatore insieme. E, quando comparve a San Pietro ad Lacum (in realtà ad Acumen che significa in cima: questo è il vero nome del paese) dove c’era la parrocchia, quasi tutti lo credettero una spia tedesca. Ci dicevano le donne a bassa voce: < E’ ubriaco, ha dormito un pezzo sulla neve come su un letto di piume. E’ salito in canonica senza neanche bussare. E’ troppo strano: deve essere una spia, il colore della barba parla chiaro>. Io tornavo col parroco dal camposanto di S. Pietro ad Lacum. All’invito di favorire in casa, non seppi rifiutare e salii. Era la sera dell’11 gennaio 1944. Era strano davvero, Nicola Kartashov! Sedeva vicino al fuoco. Vedendoci entrare, si alzò e ci salutò inchinandosi. Al nostro invito, sedette di nuovo, ficcò il bastone nel fuoco, cacciò un tizzo, accese la sigaretta mal fatta e cominciò a sorridere con l’indifferenza di chi è a casa sua. Non sapevamo come attaccare conservazione e rimanemmo muti mentre egli fumava. Pensammo che bisognava rompere il ghiaccio e gli domandammo chi fosse, donde venisse. Ci raccontò di essere stato fatto prigioniero dai tedeschi e di essere fuggito. Accennò alla Russia e a Mussolini. Per saggiare meglio il terreno, gli chiesi notizie di Tolstoj, Gor’kij e Dostoevskij. Era abbastanza colto e rispose con precisione: era diplomato in pianoforte. Divenne espansivo e parlò di Rossini e di Verdi. Alzò lo sguardo al cielo ed esclamò: <Bellissima musica italiana!>. La musica gli aveva rimesso l’allegria addosso e attaccò Finestra chiusa e Firenze: gli occhi brillavano come due fiammelle, gesticolava e agitava il bastone come Charlot. Era troppo e tornammo a dubitare”.

Dubitavate che Nicola Kartashov fosse un soldato alleato?
“Tentai ancora chiedendogli se conosceva Katiusha. Fu come avesse ricevuta una scossa. Depose il bastone, con gli occhi al cielo accompagnando coi gesti la voce non bella di baritono, cantò: < Raszvietàli iàbloni i grusci / popliì tumàni nad riekoj…>. Che significa in russo: la terra era fiorita di frutta / nella bruma dormivano le rose. In quel momento, dinanzi agli occhi luccicanti di Nicola, saranno passate le rive incantate del Volga, la steppa sconfinata, avrà sentito il palpito della Russia lontana, i colpi dei mortai sprofondati nella neve, la poesia di una fanciulla sulla pianura ondulata. <…Vichadìla na bieriég Katiusha / na visòkkij biérieg na krutoj>, continuava a cantare: Katiusha era sola nel prato / veniva sulla riva del fiume. La canzone si snodava nella sua nenia triste e cadenzata, i ricordi si affollavano sempre più numerosi e l’anima si faceva trascinare, cullata dalle acque del fiume.
Terminata la canzone, il russo tacque e riaccese la sigaretta. Io aspettai un poco e poi tornai alla carica chiedendogli se conosceva il Volga. Nicola non rispose, ma, afferrato di nuovo dalla nostalgia della patria lontana, invaso come da una frenesia, attaccò con lo stesso entusiasmo la canzone del fiume sacro. Dissi sottovoce al Parroco che era impossibile dubitare: era un russo, al massimo al servizio dei tedeschi. Eppure non sapevamo spiegare quel suo modo strano di agire. Era troppo espansivo per essere un prigioniero, cambiava troppo facilmente di umore, lui che sapeva di essere da tutti noi scrutato con l’avidità dello straniero e doveva avere il timore di chi teme qualche sorpresa. Nicola, intanto, dopo avere abbassato ancora lo sguardo a terra, tornò a parlare con serietà e pacatezza: < Prete italiano, buono, intelligente, bravo. Prete russo, no: molto ignorante e incivile>. Io soggiunsi: <Prete russo, pope?>. E il lui: < Sì, pope! Pope!>, e scoppiò a ridere forte. Mi decisi a fare la domanda che mi interessava di più: < Tu, cristiano?>. Il russo atteggiò un bel sorriso velato di tristezza e rispose: < Mia madre e mio padre, cristiani. Prima di mangiare, fare segno di Croce; prima che io dormire, mia madre fare segno di Croce sopra di me. Io vissuto sotto Stalin…>. E sorrise ancora, quasi compassionando se stesso, quasi chiedendo scusa”.

In che senso?
“Quella frase mi ferì l’animo e mi svelò il vero volto del comunismo ateo. Dopo la guerra scrissi un articolo: come ci liberammo dai comunisti, e in montagna dovetti fare una lotta alla don Camillo, per difendere la religione e i valori cristiani. Feci dei veri e propri comizi anti-comunisti a Poggio Cono e Tottea in previsione delle Elezioni del 1946. Alcuni mesi fa, all’ospedale civile di Teramo ho incontrato una donna e un uomo di Tottea che non vedevo da una vita. Mi hanno richiamato alla memoria un fatto curioso di cui non mi ricordavo: <Ti ricordi cosa dicesti a un comunista?>, mi dissero. < Un compagno ti fece notare che se vincevano i comunisti, a voi democristiani avrebbero tagliato la testa; e tu, don Giovanni, rispondesti: se vinciamo noi democristiani, la testa non ve la tagliamo, perché voi comunisti la testa non l’avete affatto!>. Beh, Le lascio immaginare quante risate ci siamo fatti! Ma 61 anni fa le cose andavano così. Comunque in Russia e nei Paesi dell’Est ci sono andato davvero nel Dopoguerra e ho trovato quella miseria nera, incredibile, difficile da dimenticare”.

E il soldato russo si salvò?
“Ho saputo, dopo un po’ di tempo, che Nicola Kartashov era stato sorpreso dai tedeschi sulla Teramo-Ascoli e ucciso. Mi è sembrato opportuno ricordare questo povero soldato russo, morto in Italia combattendo per la nostra Libertà, 61 anni fa, mentre i nostri, oggi, sulle orme dell’ARMIR, grazie al presidente russo Putin e al Governo Berlusconi, tornano sul Don, a ricordare i nostri soldati morti in Russia durante la Seconda Guerra Mondiale, per riportare in patria le loro povere spoglie”.

11/06/2006





        
  



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