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Per un multiculturalismo politicamente scorretto

San Benedetto del Tronto | Proviamo a scavare sotto gli altisonanti valori del dialogo e dell’integrazione culturale…

di Fabrizio Marini



Tobie Nathan è un etnopsichiatra che dirige a Parigi il Centro George Devereux, dove si occupa delle sofferenze psichiche delle persone immigrate. L’etnopsichiatria è una disciplina nata nella seconda metà del XIX°secolo, cercando di inscrivere la cura delle patologie mentali di un individuo all’interno del suo contesto culturale.

Nathan in particolare intende il concetto di cultura in senso forte: “è una struttura specifica di origine esterna (sociale) che contiene e rende possibile il funzionamento dell’apparato psichico” ovvero “un sistema che contribuisce alla costruzione del mondo di una persona e la garantisce dalle sue crisi di presenza” (definizioni tratte da Medici e Stregoni, Boringhieri 1996, scritto dal medico francese in collaborazione con la filosofa Isabelle Strangers).

Dobbiamo approfondire questo concetto “forte” di cultura poiché ci condurrà a scoprire alcuni “luoghi troppo comuni” in ciò che riteniamo naturalmente umano e che invece non lo è.
In genere pensiamo che la “cultura” abbia una valenza soltanto conoscitiva, ossia sia il bagaglio di credenze, o dei modi di comportamento, delle convenzioni di una persona, come se in definitiva fosse qualcosa di sovrastrutturale rispetto alla comune natura umana che la filosofia occidentale e il sapere scientifico ci hanno insegnato a riconoscere in ognuno. Ma questa definizione di cultura, anche alla luce degli eventi contemporanei, pare non avere più solide fondamenta.

E’ per questo che gli inviti al diaologo, alla partecipazione delle tradizioni, sembrano ormai appartenere a una antica retorica, visto che dobbiamo assistere, con stupore, alla rinascita nel nostro occidente, o nelle sue vicinanze, dei conflitti religiosi. Secoli di illuminismo, di lotta alle superstizioni, di scienza e tecnica, non hanno impedito questa resurrezione di un fenomeno che credevamo estinto.
Per poter comprendere questi fenomeni nei quali l’incontro con l’altro è decisamente conflittuale e disorientante dobbiamo cambiare il senso al concetto di cultura. Dagli studi antropologici si evince che quelle modalità elementari del comportamento che noi riteniamo naturali, come il contare, dipendono invece da rappresentazioni collettive, che hanno nel sentimento religioso la loro origine.

Con esse la mente umana opera sul tempo e sullo spazio sottraendolo alla sua indifferenza e anche al suo mistero. La divisione del tempo in giorni e anni, in cadenze festive e profane è un atto eminentemente culturale e religioso, così come l’organizzazione del territorio. Senza tali ordinamenti, differenti in ogni parte del globo, non esisterebbe l’uomo come essere dotato di coscienza.
Come afferma Nathan allora, “cultura” è una struttura di origine sociale che consente alla nostra mente di riconoscersi in un individuo, di identificarsi rispetto agli altri e rispetto al mondo. La cultura produce l’individuo, ed essendo molte le culture, avremo altrettanti modi di sentirsi al mondo e di sentire il mondo.

Ne deriva che l’accentuazione posta sul dialogo e la relazione oltre a essere, come vedremo, tendenziosa e ideologica, risulta alquanto problematica e difficilmente realizzabile se non intacchiamo i fondamenti stessi del sentirci noi “a casa attendendo l’altro…”

Da questo punto di vista dobbiamo renderci conto che la nostra è una cultura particolare, che avendo avuto successo sulle altre, ha tratto da ciò l’impressione che la sua fosse cultura universale, che avesse cioè gli strumenti per comprendere tutte le altre. Noi oggi applichiamo all’intero pianeta i concetti distillati dall’esperienza scientifica come se fossero naturali e non storicamente determinati.

La medicina è una: quella occidentale; la religione è fondamentalmente una; il diritto è uno…
Confusi da una illusione prospettica non comprendiamo che gli stessi termini “tolleranza”, “dialogo”, “pace” nascono dalla espansione occidentale nel mondo. Solo a questa condizione entriamo in contatto, solo a questa condizione l’altro può essere incontrato e invitato al dialogo. Solo perché l’altro è costretto ad abbandonare la sua geografia nasce l’esigenza della relazione, che dunque non è una scelta libera e alla pari. Si tratta in effetti di una comprensione ideologica che opera proprio laddove crediamo d’essere cosmopoliti.

Dicevamo quindi che “natura umana” è un concetto particolare, creato da una cultura particolare che si interpreta, a causa del suo dominio, come universale. Se il discorso sembra macchinoso giungono le prime prove. Scopriamo infatti con sorpresa che la medicina non può essere unica, soprattutto la psichiatria e la psicologia.

Dicevamo che Nathan si occupa dei disturbi psichici in soggetti immigrati: ebbene ha scoperto che le categorie nosografiche tradizionali (quei nomi con cui si identificano le patologie mentali) non riescono a dare ragione della sofferenza in esame. La psichiatria da scienza come credeva d’essere ci appare per quello che è: una etnopsichiatria, ossia un complesso di cure nato e cresciuto in un contesto geografico e storico specifico. Come tale essa può “curare” soltanto la mente occidentale ... Per questo Nathan è andato alla ricerca di tutte quelle tecniche considerate superstizione, come lo sciamanesimo, per integrarle nel setting terapeutico. (Ricordiamo che ancorché considerati primitivi, i metodi di cura delle società illetterate hanno una indubbia efficacia, riconosciuta dall’OMS).

Nelle sue sedute, il medico francese, evoca gli spiriti degli antenati, la magia, ossia tutto quel complesso simbolico che la persona, nel suo viaggio della speranza, ha dovuto abbandonare, insieme alla sua sanità mentale.
Come se non bastasse Nathan sorprende i perbenisti dell’intercultura raccomandando alle autorità francesi di “favorire i ghetti per non costringere mai una famiglia a abbandonare il suo sistema culturale”.

Egli comincia a prendere coscienza che la diversità non è qualcosa che sia naturalmente vocata all’incontro, al dialogo e alla tolleranza, perché con tali espedienti l’occidente intende invece il dominio, la rottura delle comunità tradizionali senza i quali la sua espansione non potrebbe esistere. Il dialogo a tutti i costi non è che una foglia di fico che cela un’ansia profonda, quella di dover fare i conti con un “vero diverso”, quello che non si lascia interpretare, classificare, nominare.
L’ansia più oscura della nostra civiltà è proprio quella di non riuscire a dare un nome a qualcosa per poterlo com-prendere, dove nella parola rimane quel “prendere” che evoca un atto violento.

Se vorremo ridurre il pericolo di una diffusa resistenza dell’altro a entrare nell’universale umano occidentale, dovremmo imparare a convivere con i conflitti, a gestirli. Da questo punto di vista il diverso è l’uomo in quanto tale, la sua storia particolare, le sue geografie sconosciute. Il diverso deve cessare di essere una categoria del discorso, un luogo ideale dove ci si incontra senza in realtà aver più nulla da dire, poiché il protocollo diagnostico o burocratico ha già predetto tutto.

Il diverso deve smettere di doversi rendere a tutti i costi “familiare”, svuotandosi di fatto della sua originalità. Mimesi: questa è la parola d’ordine vera che si nasconde dentro l’entusiasmo del multiculturalismo. L’ altro è permesso solo se è stato preventivamente disinnescato quanto alla sua lontananza disorientante. Lo invitiamo al dialogo solo a condizione che dica le nostre parole.

La diffusione dell’etnico è da questo punto di vista emblematica. Si moltiplicano i ristoranti esotici…ma perché non troviamo nel nostro sistema sanitario le pratiche terapeutiche non convenzionali (o alternative) ? Per il motivo che l’accettazione del differente è solo superficiale, si limita al folklore e alla fruizione mercantile.

Nell’opera di Nathan riscontriamo il vero nocciolo dell’intercultura ove l’incontro con l’ altro contiene un rischio, quello di venir modificati dall’incontro, perché l’altro è lasciato parlare con tutti i suoi simboli.
Vedendo le carrette del mare e i disperati che giungono sulle nostre spiagge da paesi ex-coloniali destabilizzati e ai quali, se non vengono rimpatriati, viene chiesto di dimenticare l’origine, di adattarsi quanto prima, di assimilarsi e quindi di mimetizzarsi, come ormai da secoli hanno già fatto gli autoctoni, parlare di dialogo interculturale risulta palesemente grottesco.

28/08/2006





        
  



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