Il discorso del sindaco nel Giorno del Ricordo
San Benedetto del Tronto | L' amministrazione comunale coltiva il valore della memoria, attraverso alcune date salienti della storia locale e nazionale.
di Giovanni Gaspari
Gaspari pronuncia il discorso nel Giorno del Ricordo
Buongiorno a tutti, alle autorità, ai cittadini e agli studenti. Abbiamo dichiarato sin dall’insediamento di questa amministrazione comunale di voler coltivare il valore della memoria, che passa anche per alcune date salienti della storia locale e nazionale.
Sabato scorso abbiamo celebrato San Biagio, festa dei funai, ed è stato istruttivo e commovente ascoltare la relazione dello storico Gabriele Cavezzi, che ha evocato in maniera straordinaria un lavoro e un modo di vivere così importanti e radicati nella storia della nostra città. Un mondo che sembra lontanissimo nel tempo, eppure ben presente nella memoria di tanti sambenedettesi, e che soprattutto dobbiamo letteralmente difendere dall’oblio, per non dimenticare da dove veniamo.
Il sabato precedente avevamo commemorato una ricorrenza istituita con legge dello stato, la 211 del 2000: il 27 gennaio “Giornata della memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”.
Non ci nascondiamo che la ricorrenza odierna genera in Italia polemiche più forti di quelle che accompagnano quasi ogni provvedimento del governo, indipendentemente dal colore politico. Dobbiamo allora dire perché siamo qui, cosa celebriamo e che cosa non celebriamo. Dobbiamo sforzarci di essere più chiari possibile. Non intendiamo infatti commemorare in maniera formale le date della nostra storia, attraverso un ossequio esteriore verso leggi che pure siano state votate dal parlamento.
Diciamo allora subito che cosa non celebriamo oggi. Nessuna data, tantomeno quella odierna, tantomeno nell’Europa del 2007, può servire per un uso della storia finalizzato ad uno scopo politico. A San Benedetto abbiamo una elevata qualità della vita, abbiamo il mare, la collina e uno splendido entroterra. Ma il nostro mare ha un’estensione simile a quella di un lago e dall’altra sponda, verso est, parte un mondo molto diverso dal nostro. Nel corso della storia abbiamo avuto rapporti stretti ma molto complessi con le comunità delle coste slave: intendo noi del litorale sambenedettese, ma anche noi italiani. Un mondo molto diverso, in definitiva, con il quale pure condividiamo qualche millennio di storia comune.
Voglio dire che nonostante la distanza della nostra città da Trieste e dal confine detto “orientale”, nonostante gli anni trascorsi dai fatti che oggi commemoriamo, nei territori tra Italia Slovenia e Croazia non sono del tutto sopiti certi sentimenti di ostilità, nutriti da minoranze irredentiste, che appunto in quelle zone assumono un aspetto particolarmente sinistro.
La ricorrenza di oggi intende rimuovere l’oblio da fatti dolorosi come la morte di migliaia di persone nelle foibe jugoslave, e come l’esodo istriano. Ma neppure dimentichiamo i crimini italiani in Jugoslavia, cui pure sono stati dedicati studi e ricerche. Quella di oggi non è una ricorrenza “contro” qualcuno, non una ricorrenza rivolta al passato. In politica, come nella vita civile di una comunità, è sterile, se non pericolosissimo, inseguire le colpe. Ancora oggi vediamo infatti che i conflitti generati da questioni di confini territoriali sembrano inestricabili, affondati come sono nella storia. Semmai l’insegnamento è un altro, ovvero che l’uomo non dovrebbe tentare di separare ciò che la storia ha messo in contatto e unito, attraverso rapporti di vita, scambi, commerci.
Il 10 febbraio 1947 fu sottoscritto il trattato di Parigi, che assegnava l’Istria, Fiume e Zara alla Jugoslavia. Si intensificò l’esodo di massa di italiani verso la penisola o verso altri paesi d’Europa e del mondo, già iniziato negli anni precedenti. Si calcola che l’esodo istriano abbia riguardato circa 250 mila persone. Alcune migliaia furono i morti nelle foibe, due delle quali – Basovizza e Monrupino – sono oggi monumento nazionale. Ma alcune decine di migliaia furono anche gli esuli tedeschi e slavi che lasciarono la Venezia Giulia per l’italianizzazione realizzata dopo il 1918. Questo per dire appunto che la ricerca delle colpe, o di chi abbia iniziato “per primo”, è il prototipo della ricerca che non può dare una sentenza finale, persa in un regresso nel tempo più interessato a rimuovere, che a costruire.
Ora, la storia non passa mai lontano da ognuno di noi, i suoi binari e i suoi spazi aperti sono ovunque. Il 1 gennaio di quest’anno la Slovenia è diventata il tredicesimo paese europeo che ha adottato l’euro come propria moneta, dopo l’ingresso nell’Unione europea, avvenuto il 1 maggio 2004. Quest’ultima sembra soltanto una data come tante. Ma quegli studenti che siano andati in gita scolastica a Trieste avranno anche visitato Gorizia, una città che fino a quella data era divisa in due da un confine. Non parliamo di Berlino prima del 1989, ma di Gorizia, Italia.
Il 1 maggio 2004 è un data-simbolo, particolarmente significativa per commemorare questa del 10 febbraio “Giorno del ricordo”. Quella data di tre anni fa segna la volontà lungimirante di guardare ad un futuro comune, contro il pericolo di regredire ad un passato di odio e divisioni. Non possiamo non ricordare che a seguito della legge n. 92, con cui il 20 marzo 2004 il parlamento italiano ha istituito la ricorrenza odierna, il parlamento sloveno ha istituito il 15 settembre (giorno del 1947 in cui era entrato in vigore il trattato di Parigi) “Festa della unione del litorale con la madrepatria”.
È come dire che tutto ciò che assomiglia ad una rivendicazione genera una rivendicazione uguale e contraria. Pazienza per quelle discussioni che diventano litigi nella vita privata. Sono ben più drammatiche quelle rivendicazioni di massa che diventano rancori, odi, guerre, pulizie etniche. Noi siamo qui oggi per dare questo messaggio ai nostri giovani, alla nostra comunità e idealmente a tutti coloro che vivono l’esperienza di un confine e del contatto con individui o comunità diversi da sé: il nostro modo di pensare e di agire tenga sempre conto delle conseguenze, e non si ponga l’obiettivo di “fare giustizia” infliggendo sofferenze.
Le date della storia, di cui parlavo all’inizio, segnano il percorso della nostra identità nazionale, e vorrebbero anche essere “storia condivisa”. All’interno del nostro paese dovrebbero rappresentare terreno di accordo e motivo di unità. Avremmo in questo modo un volto più disteso da mostrare verso l’esterno. Non il volto potenzialmente minaccioso di giornate del ricordo contrapposte, e neppure quello dei nazionalismi che in Europa ritornano periodicamente, ma un atteggiamento disposto a conoscere senza dimenticare, ad approfondire certi fatti senza per questo dichiarare guerra al passato e agli altri. In breve, avremmo lasciato senza rimpianti l’epoca dello scontro con il “nemico”, e conquistato forse stabilmente l’atteggiamento razionale del confronto con l’altro e dell’età adulta.
Sabato scorso abbiamo celebrato San Biagio, festa dei funai, ed è stato istruttivo e commovente ascoltare la relazione dello storico Gabriele Cavezzi, che ha evocato in maniera straordinaria un lavoro e un modo di vivere così importanti e radicati nella storia della nostra città. Un mondo che sembra lontanissimo nel tempo, eppure ben presente nella memoria di tanti sambenedettesi, e che soprattutto dobbiamo letteralmente difendere dall’oblio, per non dimenticare da dove veniamo.
Il sabato precedente avevamo commemorato una ricorrenza istituita con legge dello stato, la 211 del 2000: il 27 gennaio “Giornata della memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”.
Non ci nascondiamo che la ricorrenza odierna genera in Italia polemiche più forti di quelle che accompagnano quasi ogni provvedimento del governo, indipendentemente dal colore politico. Dobbiamo allora dire perché siamo qui, cosa celebriamo e che cosa non celebriamo. Dobbiamo sforzarci di essere più chiari possibile. Non intendiamo infatti commemorare in maniera formale le date della nostra storia, attraverso un ossequio esteriore verso leggi che pure siano state votate dal parlamento.
Diciamo allora subito che cosa non celebriamo oggi. Nessuna data, tantomeno quella odierna, tantomeno nell’Europa del 2007, può servire per un uso della storia finalizzato ad uno scopo politico. A San Benedetto abbiamo una elevata qualità della vita, abbiamo il mare, la collina e uno splendido entroterra. Ma il nostro mare ha un’estensione simile a quella di un lago e dall’altra sponda, verso est, parte un mondo molto diverso dal nostro. Nel corso della storia abbiamo avuto rapporti stretti ma molto complessi con le comunità delle coste slave: intendo noi del litorale sambenedettese, ma anche noi italiani. Un mondo molto diverso, in definitiva, con il quale pure condividiamo qualche millennio di storia comune.
Voglio dire che nonostante la distanza della nostra città da Trieste e dal confine detto “orientale”, nonostante gli anni trascorsi dai fatti che oggi commemoriamo, nei territori tra Italia Slovenia e Croazia non sono del tutto sopiti certi sentimenti di ostilità, nutriti da minoranze irredentiste, che appunto in quelle zone assumono un aspetto particolarmente sinistro.
La ricorrenza di oggi intende rimuovere l’oblio da fatti dolorosi come la morte di migliaia di persone nelle foibe jugoslave, e come l’esodo istriano. Ma neppure dimentichiamo i crimini italiani in Jugoslavia, cui pure sono stati dedicati studi e ricerche. Quella di oggi non è una ricorrenza “contro” qualcuno, non una ricorrenza rivolta al passato. In politica, come nella vita civile di una comunità, è sterile, se non pericolosissimo, inseguire le colpe. Ancora oggi vediamo infatti che i conflitti generati da questioni di confini territoriali sembrano inestricabili, affondati come sono nella storia. Semmai l’insegnamento è un altro, ovvero che l’uomo non dovrebbe tentare di separare ciò che la storia ha messo in contatto e unito, attraverso rapporti di vita, scambi, commerci.
Il 10 febbraio 1947 fu sottoscritto il trattato di Parigi, che assegnava l’Istria, Fiume e Zara alla Jugoslavia. Si intensificò l’esodo di massa di italiani verso la penisola o verso altri paesi d’Europa e del mondo, già iniziato negli anni precedenti. Si calcola che l’esodo istriano abbia riguardato circa 250 mila persone. Alcune migliaia furono i morti nelle foibe, due delle quali – Basovizza e Monrupino – sono oggi monumento nazionale. Ma alcune decine di migliaia furono anche gli esuli tedeschi e slavi che lasciarono la Venezia Giulia per l’italianizzazione realizzata dopo il 1918. Questo per dire appunto che la ricerca delle colpe, o di chi abbia iniziato “per primo”, è il prototipo della ricerca che non può dare una sentenza finale, persa in un regresso nel tempo più interessato a rimuovere, che a costruire.
Ora, la storia non passa mai lontano da ognuno di noi, i suoi binari e i suoi spazi aperti sono ovunque. Il 1 gennaio di quest’anno la Slovenia è diventata il tredicesimo paese europeo che ha adottato l’euro come propria moneta, dopo l’ingresso nell’Unione europea, avvenuto il 1 maggio 2004. Quest’ultima sembra soltanto una data come tante. Ma quegli studenti che siano andati in gita scolastica a Trieste avranno anche visitato Gorizia, una città che fino a quella data era divisa in due da un confine. Non parliamo di Berlino prima del 1989, ma di Gorizia, Italia.
Il 1 maggio 2004 è un data-simbolo, particolarmente significativa per commemorare questa del 10 febbraio “Giorno del ricordo”. Quella data di tre anni fa segna la volontà lungimirante di guardare ad un futuro comune, contro il pericolo di regredire ad un passato di odio e divisioni. Non possiamo non ricordare che a seguito della legge n. 92, con cui il 20 marzo 2004 il parlamento italiano ha istituito la ricorrenza odierna, il parlamento sloveno ha istituito il 15 settembre (giorno del 1947 in cui era entrato in vigore il trattato di Parigi) “Festa della unione del litorale con la madrepatria”.
È come dire che tutto ciò che assomiglia ad una rivendicazione genera una rivendicazione uguale e contraria. Pazienza per quelle discussioni che diventano litigi nella vita privata. Sono ben più drammatiche quelle rivendicazioni di massa che diventano rancori, odi, guerre, pulizie etniche. Noi siamo qui oggi per dare questo messaggio ai nostri giovani, alla nostra comunità e idealmente a tutti coloro che vivono l’esperienza di un confine e del contatto con individui o comunità diversi da sé: il nostro modo di pensare e di agire tenga sempre conto delle conseguenze, e non si ponga l’obiettivo di “fare giustizia” infliggendo sofferenze.
Le date della storia, di cui parlavo all’inizio, segnano il percorso della nostra identità nazionale, e vorrebbero anche essere “storia condivisa”. All’interno del nostro paese dovrebbero rappresentare terreno di accordo e motivo di unità. Avremmo in questo modo un volto più disteso da mostrare verso l’esterno. Non il volto potenzialmente minaccioso di giornate del ricordo contrapposte, e neppure quello dei nazionalismi che in Europa ritornano periodicamente, ma un atteggiamento disposto a conoscere senza dimenticare, ad approfondire certi fatti senza per questo dichiarare guerra al passato e agli altri. In breve, avremmo lasciato senza rimpianti l’epoca dello scontro con il “nemico”, e conquistato forse stabilmente l’atteggiamento razionale del confronto con l’altro e dell’età adulta.
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10/02/2007
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