Giovedì 15 il "No ticket day" della Confcommercio
San Benedetto del Tronto | Buoni pasto non spendibili nei bar e ristoranti per protesta contro la sentenza del tar Lazio.
Giovedì 15 Marzo, anche nei bar, nei ristoranti e negli esercizi di generi alimentari della provincia di Ascoli Piceno, aderenti alla Confcommercio, non verranno accettati i buoni pasto come forma di pagamento delle consumazioni.
L’iniziativa denominata “NO TICKET DAY” si svolge in contemporanea in tutta Italia e rappresenta una forte protesta della Confcommercio, della FIPE (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) e della FIDA (Federazione Italiana Dettaglianti Alimentari), nei confronti della sentenza del TAR del Lazio che in pratica ha annullato, creando un danno grave a tutta la filiera, alcune parti del Dpcm del 18 Novembre 2005 che aveva disciplinato dopo il NO TICKET DAY del 2005, correttamente il settore. In pratica con la sentenza del TAR si instaura una sorta di ritorno al passato e cioè al pagamento dei rimborsi degli esercenti anche dopo 8 mesi, al pagamento alle società emettitrici fino a 5/8 punti in più di commissioni e tante altre negatività che penalizzano gli esercenti e con nessun vantaggio per i consumatori.
“Il settore torna nel caos e siamo di nuovo al Far West dei buoni pasto – afferma Ivo Giudici, presidente provinciale dei pubblici esercizi Confcommercio – proprio quando si era riusciti dopo anni di battaglie ad avere una legge che metteva d’accordo tutti”. “Con il NO TICKET DAY – aggiunge Giudici – intendiamo difendere gli anelli più deboli della catena, cioè lavoratori ed esercenti”. “All’interno dei pubblici esercizi e dei negozi di generi alimentari associati a Confcommercio – precisa il direttore Giorgio Fiori – sono già affisse le locandine che avvertono i clienti del “NO TICKET DAY”, e purtroppo se non verrà sospesa la sentenza del TAR (anche a seguito del riscorso fatto al Consiglio di Stato dalla stessa FIPE – Confcommercio) lo sciopero del buono pasto potrà essere replicato anche in giornate successive”.
BUONI PASTO: COME FUNZIONANO
Il datore di lavoro che decide di fornire ai propri dipendenti il buono pasto in sostituzione del servizio mensa acquista da una società emettitrice i tagliandi il cui valore nominale (in media pari a E. 5) è riportato sul buono stesso. Poiché il datore di lavoro acquista un numero alto di buoni pasto, chiede uno sconto sull’intero lotto (che può arrivare fino al 20% del valore nominale del buono pasto) alla società emettitrice, creando una differenza fra il valore nominale di ogni singolo buono. Il costo a carico del datore di lavoro per buono pasto da E 5, decurtato dello sconto del 20% a questo punto è di E 4.
Il buono pasto può essere venduto al lavoratore. Nel secondo caso, la cifra richiesta al lavoratore varia da E 1,5 della pubblica amministrazione fino a E 3 richiesti da alcune società private. Quando il lavoratore paga per il buono pasto E 3, va a rimborsare quasi per intero i 4 euro spesi dal datore di lavoro. Il costo effettivo per il datore di lavoro a questo punto si riduce a E 1 per ogni buono pasto. Il lavoratore pagherà la sua consumazione nel pubblico esercizio utilizzando il buono pasto per il suo valore nominale di E 5.
L’esercente deve però convertire nuovamente il buono pasto in denaro e può farlo soltanto consegnando i buoni pasto alla stessa società emettitrice, la quale è disposta a cambiarlo a un valore comunque inferiore a quello nominale per non far pesare solo su di sé lo sconto praticato al datore di lavoro. Chiederà così una commissione all’esercente pari a circa la metà dello sconto praticato al datore di lavoro dalla società emettitrice al momento della compravendita (ad es. sul 20% di sconto la commissione richiesta agli esercenti ammonta a circa il 10,12%). Il meccanismo ha smesso di funzionare quando le commissioni hanno raggiunto percentuali insostenibili.
L’iniziativa denominata “NO TICKET DAY” si svolge in contemporanea in tutta Italia e rappresenta una forte protesta della Confcommercio, della FIPE (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) e della FIDA (Federazione Italiana Dettaglianti Alimentari), nei confronti della sentenza del TAR del Lazio che in pratica ha annullato, creando un danno grave a tutta la filiera, alcune parti del Dpcm del 18 Novembre 2005 che aveva disciplinato dopo il NO TICKET DAY del 2005, correttamente il settore. In pratica con la sentenza del TAR si instaura una sorta di ritorno al passato e cioè al pagamento dei rimborsi degli esercenti anche dopo 8 mesi, al pagamento alle società emettitrici fino a 5/8 punti in più di commissioni e tante altre negatività che penalizzano gli esercenti e con nessun vantaggio per i consumatori.
“Il settore torna nel caos e siamo di nuovo al Far West dei buoni pasto – afferma Ivo Giudici, presidente provinciale dei pubblici esercizi Confcommercio – proprio quando si era riusciti dopo anni di battaglie ad avere una legge che metteva d’accordo tutti”. “Con il NO TICKET DAY – aggiunge Giudici – intendiamo difendere gli anelli più deboli della catena, cioè lavoratori ed esercenti”. “All’interno dei pubblici esercizi e dei negozi di generi alimentari associati a Confcommercio – precisa il direttore Giorgio Fiori – sono già affisse le locandine che avvertono i clienti del “NO TICKET DAY”, e purtroppo se non verrà sospesa la sentenza del TAR (anche a seguito del riscorso fatto al Consiglio di Stato dalla stessa FIPE – Confcommercio) lo sciopero del buono pasto potrà essere replicato anche in giornate successive”.
BUONI PASTO: COME FUNZIONANO
Il datore di lavoro che decide di fornire ai propri dipendenti il buono pasto in sostituzione del servizio mensa acquista da una società emettitrice i tagliandi il cui valore nominale (in media pari a E. 5) è riportato sul buono stesso. Poiché il datore di lavoro acquista un numero alto di buoni pasto, chiede uno sconto sull’intero lotto (che può arrivare fino al 20% del valore nominale del buono pasto) alla società emettitrice, creando una differenza fra il valore nominale di ogni singolo buono. Il costo a carico del datore di lavoro per buono pasto da E 5, decurtato dello sconto del 20% a questo punto è di E 4.
Il buono pasto può essere venduto al lavoratore. Nel secondo caso, la cifra richiesta al lavoratore varia da E 1,5 della pubblica amministrazione fino a E 3 richiesti da alcune società private. Quando il lavoratore paga per il buono pasto E 3, va a rimborsare quasi per intero i 4 euro spesi dal datore di lavoro. Il costo effettivo per il datore di lavoro a questo punto si riduce a E 1 per ogni buono pasto. Il lavoratore pagherà la sua consumazione nel pubblico esercizio utilizzando il buono pasto per il suo valore nominale di E 5.
L’esercente deve però convertire nuovamente il buono pasto in denaro e può farlo soltanto consegnando i buoni pasto alla stessa società emettitrice, la quale è disposta a cambiarlo a un valore comunque inferiore a quello nominale per non far pesare solo su di sé lo sconto praticato al datore di lavoro. Chiederà così una commissione all’esercente pari a circa la metà dello sconto praticato al datore di lavoro dalla società emettitrice al momento della compravendita (ad es. sul 20% di sconto la commissione richiesta agli esercenti ammonta a circa il 10,12%). Il meccanismo ha smesso di funzionare quando le commissioni hanno raggiunto percentuali insostenibili.
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13/03/2007
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