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D’Onofrio: “Attenti: la scuola ‘buonista’ è diseducativa.”

San Benedetto del Tronto | Il prof. Giuseppe D’Onofrio è laureato in Chimica Industriale e in Farmacia. Ha insegnato 18 anni negli Istituti Industriali. Ha intrapreso poi la carriera di Dirigente Scolastico nel 1983 presso l'ITC “Capriotti”, dove è rimasto fino all'a.s. 2005-2006.

di Francesco Tranquilli

D'Onofrio

Il Liceo Classico “Leopardi” è una scuola attualmente in fase di lenta espansione, con cinque corsi completi corrispondenti a circa 500 alunni. Inoltre, da questa scuola dipendono la sede associata di Cupramarittima del Istituto Professionale per il Commercio e il Turismo (150 alunni) e il Liceo Classico di Montalto (50 alunni).

Com’ è cambiata la scuola pubblica negli ultimi 15-20 anni, vista dall’interno? E quale funzione ha oggi la scuola nella società?
Le rispondo facendo un richiamo al tipo di istruzione tecnica in cui mi sono formato. Mentre 40 anni fa il 95% dei diplomati si inseriva come perito nell’ambito industriale di pertinenza, e pochissimi proseguivano gli studi, negli ultimi anni sempre più studenti proseguono gli studi all’Università. Quindi la scuola superiore non prepara più all’attività professionale come una volta. Oggi quasi tutti i ragazzi hanno la presunzione, o il miraggio, di laurearsi.

Qui si innesca quel circolo vizioso che già immaginava Platone nella sua Repubblica, soprattutto da quando esistono le lauree brevi che incentivano ancor di più la prosecuzione degli studi superiori. Cosa avviene: che molti studenti, nella prospettiva di proseguire comunque gli studi, magari in settori lontani da quello che frequentano, perdono l’interesse al perfezionamento delle competenze professionali che la scuola superiore potrebbe fornire loro. I ragazzi a cui insegnavo alle Industriali un tempo erano assetati di sapere, bramosi di perfezionarsi, e tanti ne ho rincontrati in seguito che svolgevano in maniera gratificante la professione in azienda.

Oggi si ragiona diversamente: a che mi serve studiare ragioneria se poi, mettiamo, mi iscrivo a giurisprudenza? Di converso, negli ultimi anni la tendenza è di un recupero di interesse verso i licei. Se la formazione professionale vera e propria si riceve all’università, tanto vale frequentare una scuola che dia una formazione culturale più vasta, come un liceo. Ma è ovvio che l’aumentare degli iscritti nei licei ne ha ridotto i livello qualitativo medio. Rispetto all’Istituto Commerciale, però, qui al Liceo Classico ho riscontrato che gli allievi delle prime classi hanno quasi tutti un giudizio finale di scuola media buono o ottimo, e un retroterra culturale più che apprezzabile, per fortuna.

A cosa serve oggi un insegnante, (visto che l’informazione è “virtualmente” alla portata di tutti?
L’insegnante ha tuttora una funzione importantissima, purché sia competente nella propria disciplina e la sappia comunicare. Inoltre, in quanto educatore, deve essere una persona ricca di doti umane che servano di esempio. So bene che oggi, quando si criminalizza la scuola, si getta la croce addosso agli insegnanti, ma è profondamente sbagliato. Bisogna valorizzare gli insegnanti capaci e dissuadere quelli inadatti, indirizzandoli verso altri settori: di lavori decorosi ce ne sono tanti. Ma non si può fare l’insegnante “per sbaglio”, e dunque sbagliando. Chi solleva i problema delle retribuzioni inadeguate, dovrebbe prima accettare di concordare dei criteri di valutazione della qualità e della produttività dei docenti.

Chi ha una competenza relativa o approssimativa, o delle capacità comunicative limitate, rischia di rovinare generazioni di studenti. Invece questo oggi viene tollerato. Le immissioni in ruolo automatiche fatte in questi ultimi decenni hanno immesso molti docenti di questo tipo. Quelli usciti dai concorsi ordinari, invece, sono tutti almeno decorosi. Andrebbero fatti concorsi severissimi. L’insegnamento non può essere un ripiego, ma deve essere riconosciuto come un’attività di altissima professionalità adeguatamente retribuita.

Qual è la differenza fra l’autorità e l’autorevolezza? Può fare un esempio?
Nessun educatore ha mai ottenuto nulla di buono con l’autoritarismo, cioè con le imposizioni.. L’autorevolezza nasce dalla stima reciproca fra l’insegnante e gli studenti, dall’empatia, dalla sintonia, meglio, che viene a crearsi. Delle competenze abbiamo già detto, ma un insegnante deve saper rispettare la personalità dell’alunno, allo tempo stesso vincolandolo ai suoi doveri e riconoscendogli i suoi diritti.

L’insegnante non è un monarca, in classe. E deve essere coerente, giusto, paterno/materno, deve saper aiutare lo sviluppo della dimensione umana, della responsabilità civile dei suoi alunni. Premiare chi sta alle regole e rispetta il patto formativo, sempre con giustizia e soprattutto buona fede. La docimologia non è una scienza esatta, ma l’insegnante apertamente prevenuto nell’attribuzione dei voti perde autorevolezza subito. E poi c’è l’esempio: l’insegnante che perde tempo, neghittoso, inadempiente, cosa può pretendere dagli alunni? Allo stesso modo l’insegnante che, per superficialità, non pretende se non un apprendimento mnemonico e meccanico dai suoi alunni, che autorevolezza potrà avere?

Problemi disciplinari: quali e quanti sono, come vengono affrontati e con quali risultati?
Non vorrei dare l’impressione di vantarmi, ma io ho insegnato in tempi ben più turbolenti di questi, nei periodi caldi della contestazione giovanile. Problemi con i ragazzi non ne ho mai avuti. Come preside ho gestito fino a 1700 alunni; ma se l’organizzazione della scuola vincola gli studenti a doveri precisi, e tende sempre a che questi vengano rispettati, problemi gravi non se ne creano. Ero solito dire, ad esempio: “la nostra scuola è molto grande: se ad ogni ora un alunno per ogni classe chiede di uscire, abbiamo sessanta alunni che vagano per i corridoi. Se ne escono due o tre, diventiamo un termitaio impazzito.”

Ci vuol serietà nella gestione da parte di chi coordina le attività. I ruoli vanno rispettati da entrambe le parti con rigore. Oggi invece da una parte c’è troppo permissivismo, e questo cosa ci porta ad ottenere? Se si lasciano troppe falle aperte, e non si tappano mai, si rischia il crollo della diga. Per intenderci, non è solo una questione di telefonini, ma un problema sociale più vasto. La scuola non è la sola “agenzia educativa” esistente. Noi facciamo la nostra parte per l’elaborazione di uno stile di vita, non solo per l’acquisizione di competenze. Ma non possiamo certo fare perquisizioni personali agli studenti. Certo, i ragazzi vanno perdendo il gusto della riservatezza, per loro tutto è da condividere e da “partecipare”. Ma, ripeto, se gli educatori non sono coerenti, e anzi partecipano del lassismo generale, la scuola abdica ad una delle sue funzioni principali.

Quanto collaborano i genitori all’educazione dei ragazzi, e quanto invece la” intralciano”?
Una volta tra famiglie e docenti c’era un rapporto di collaborazione, di stimolo verso gli alunni. Oggi non più: gli alunni fanno sempre il loro mestiere – ovvio – di studiare il meno possibile, ma i genitori spesso li assecondano, e gli insegnanti anche. Gli studenti escono dalla scuola meno preparati di una volta, ed è inevitabile che il titolo di studio perda il valore che aveva un tempo. Questo non vale per il Liceo Classico, ma in passato ho provato pena di fronte a genitori che chiedevano il nulla osta per ritirare il figlio nullafacente da scuola, per poi andargli a “comprare” il diploma da qualche altra parte. Nessuno è obbligato studiare.

Lo studio è un lavoro pesante. Talvolta la famiglia sbaglia a voler far prendere questo “pezzo di carta” a chi è evidentemente refrattario allo studio. Tanto più questo vale per l’Università. L’Italia ha bisogno, è vero, di laureati, ma certe facoltà non danno titoli spendibili, e tanto meno le lauree brevi. E se gli atenei vengono “invasi” da studenti incompetenti, mantenuti agli studi volenti o nolenti dai genitori, a cosa serve, se non a arricchire i CEPU e simili?

“Scuola-azienda”, si diceva qualche anno fa (pochi): ma non sono due istituzioni radicalmente opposte?
Bisogna tener presente con esattezza qual è la “mission” dell’azienda-scuola. Un’azienda può essere profit o no-profit. Azionista della scuola è l’intera società, che in essa investe il 20% del bilancio dello Stato. Qualche “profitto” in termini educativi e culturali lo Stato deve attenderselo. Se la scuola non riesce a tamponare i difetti di altre “agenzie educative”, o addirittura incentiva la diseducazione, è destinata ad un giusto fallimento.

Se invece parliamo della possibilità per la scuola di accogliere finanziamenti esterni da aziende o industrie, senza che ciò comporti modifiche dei propri indirizzi educativi, non vedo che male ci sia. Pecunia non olet, diceva Vespasiano, purché la sappiamo usare. Un finanziamento che permetta di realizzare una struttura necessaria all’attività didattica, che venga ripagata magari solo con una targa o un riconoscimento pubblico, è una manna da cielo. Tutto il contrario se un’azienda, in cambio di un supporto economico, volesse condizionare in qualsivoglia modo l’attività della scuola, per esempio imponendo la nomina di un proprio delegato nel consiglio d’istituto.


A parte i soldi, come dovrebbe intervenire un governo lungimirante a sostegno dell’Istruzione Pubblica per risollevarne le sorti?
Ripeto, formazione seria selezione alta dei professionisti che nella scuola debbono operare. Ma poi, certo, lo Stato dovrebbe impegnarsi nel rafforzare nell’opinione pubblica il convincimento che la scuola è un elemento di importanza cruciale per lo sviluppo della nazione, soprattutto in prospettiva futura. Ci vorrebbe però una vera riforma della scuola: ci ha provato Berlinguer, poi De Mauro, la Moratti ce l’aveva quasi fatta, ma la scuola resta ancora com’era nel 1925 Gentile imperante. Io non ho mai abbracciato convintamene la riforma Moratti, che era destinata a sicuro fallimento. Ma ho vissuto anche la stagione delle “sperimentazioni” successive al Dpr 19 del 1974. Molte di queste erano valide, hanno portato ai cosiddetti progetti assistiti.

Ma una riforma globale ancora manca, dopo aver valutato sul campo i risultati. Ma ormai nella scuola si sono stratificati tali e tanti “gruppi di potere” che rendono questa istituzione impermeabile a una riforma profonda, perché ognuno vuole conservare le proprie prerogative. Si è parlato spesso di ridurre il tempo scuola a trenta ore settimanali, ma non si riesce perché questo comporterebbe una perdita di cattedre. La scuola non deve essere un’agenzia occupazionale.

Un bilancio della sua attività?
Posso solo dire che io mi sono sempre impegnato nel mio lavoro, ho cercato di farlo correttamente. Qualche volta ho sbattuto il muso, e forte, contro chi la pensava diversamente. Io ho rispettato le divergenze di opinioni, ma ho agito sempre nel rispetto delel norme e, soprattutto, col fine ultimo dell’interesse degli alunni. E’ per loro che la scuola è fatta, ho sempre detto, ed esiste in quanto esistono loro. Privilegiare il loro interesse non vuol dire essere buonisti, o considerarli clienti dando loro tutto e solo quello che chiedono., alla ricerca del “consenso”. Io non devo essere “eletto”, ma svolgere al meglio il mio lavoro nell’ambito dei miei limiti.

Ma se certi obbiettivi vengo perseguiti con costanza e coerenza, a lungo termine i risultati si ottengono, e anche il riconoscimento di chi è più recalcitrante. Anche le limitazioni che vengono imposte hanno uno scopo educativo, e concedere agli studenti tutto quanto chiedono significa danneggiarli. Certo, le regole che si impongono debbono avere una logica, una funzionalità, non essere arbitrarie. Ma il mio compito è di darle e di farle rispettare, non di fare l’imbonitore di piazza. Guai a creare nei ragazzi aspettative sbagliate: le norme del regolamento di istituto devono prepararli ad un sistema ben più rigido che incontreranno nei rapporti lavorativi e sociali. Io mi rendo conto che tenere buoni gli alunni con regole blande e non rispettate può in apparenza servire alla scuola. Ma si tratta di una contraddizione in termini: una scuola che non educa.

04/04/2007





        
  



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