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L'eterno e il regno di Angelo Filipponi

San Benedetto del Tronto | Il secondo capitolo del nuovo romanzo storico dello studioso.

II PUNTATA

La corte di Antipa
Agrippa ora era ritornato come rinnovato nello spirito, intenzionato ad iniziare una nuova vita da giudeo: aveva abbandonato la stessa lingua greca, aveva giurato di non parlare più latino: solo l'aramaico doveva essere la sua lingua di ogni giorno e l'ebraico la sua lingua liturgica.

Ora Teudione l'aveva rivestito alla giudea e, come un comune giudeo, l'aveva accompagnato verso il Nord senza passare per Gerusalemme: avevano visitato Gerico, avevano fatto il tragitto dei pellegrini galilaici, che costeggiavano il Giordano ed evitavano Samaria ed erano arrivati a Tarichea e da lì il giorno dopo, giunsero a Tiberiade, insieme ad Helchia e a Nahum.

La città era a buon punto: tutta la parte giudaica era terminata, quella greca aveva bisogno di rifiniture: il teatro era completato come anche le terme e la biblioteca; già al ginnasio i giovani si allenavano;anche l'agorà era pronta; bella la pavimentazione a travertino e maestosa la basilica accanto, splendida per le rifiniture e per le colonne corinzie.

Al centro, come congiunzione tra la parte greca e quella giudaica monumentale, marmorea, si ergeva la reggia di Antipa: era al punto di congiunzione, centrale, tra il cardo e il decumanus: il re l'aveva voluta nella stessa sede in cui si trova la tenda del comandante nei castra, come per dimostrare di essere un dux romano, pur nella cultura orientale ellenistico-giudaica.

Là erano diretti i quattro, seguiti da liberti e schiavi, che si fermarono davanti al corpo di guardia, mentre Teudione ed Elchia, conosciuti dal galata, capo guardia, entrarono invitando gli altri due: si fermarono sotto un ampio porticato e lì furono raggiunti da Eutiche, un altro ufficiale galata che li fece entrare in un vestibolo, dove erano in attesa molti uomini, separati tra loro, a gruppi: alcuni erano giudei, altri arabi, altri siriaci, altri adiabeni: si riconoscevano dalle vesti, dai turbanti, dalle scimitarre, da tanti segni: ogni etnia aveva un suo tipico abbigliamento o un accessorio che lo diversificava.

Teudione chiamò un liberto, che passava e gli disse che erano parenti del re e che tra loro c'era il padre della regina.

Il liberto, che era il maggiordomo, ossequioso, subito scomparve dietro una tenda per ritornare poco dopo, ancora più premuroso.

Riferiva che presto la regina sarebbe venuta di persona e per ora lo seguissero nella sala regale, dove venivano ricevuti solo gli intimi della famiglia.

Erodiade aveva accanto a se Erode, suo fratello ed era seguita da una sua parente, Cipro, come la più fida delle dame di compagnia: era una piccola corte che si muoveva, circondata da servi e perfino da buffoni: la regina, da giudea, si era circondata di parenti e di amici, di donne legate da vincoli familiari, oltre che di ancelle: aveva radunato anche tutta la sua famiglia dispersa: mancavano il solo Agrippa, e il piccolo Aristobulo, che Antipa aveva mandato come plenipotenziario, capo ambasciatore presso Norbano Flacco, il governatore di Siria, ad Antiochia.

Tra tutte le donne l'esile figura di una bambina che prometteva bene, spiccava per vivacità e per dolcezza: la piccola Solome.

Il corpo sembrava un giunco flessuoso, la testa, un groviglio ricciuto nero, la bocca un bocciolo di rosa, gli occhi due stelle, le gambe due colonnine d'ebano.

Salome era veramente una meravigliosa creatura, già pronta per essere una splendida donna, pur nella sua acerba stagione.

La regina onorò Teudione, si commosse, fece festa e ringraziò Adonai, benedicendolo che in questo modo riuniva la sua famiglia.

La donna aveva conservato poco della donna giudaica, sempre schiva, soggetta, coperta: ella era in effetti una matrona romana, che si comportava con lo stesso cipiglio con la stessa sfacciataggine nei confronti con i maschi, vivendo insieme all'uomo la sua vita, a fianco del marito, vestita quasi sempre alla greca o alla romana.

Gli abiti femminili giudaici non mettevano in luce la sua figura slanciata, le sue forme giunoniche, e i tanti veli non nascondevano, però, il suo sguardo imperioso e il suo volto ovale, la sua bocca carnosa e soprattutto la sua chioma arricciata, mettendo in luce la sua ancora fiorente giovinezza di trentenne.

Teudione volle presentare i suoi ospiti e con molta diplomazia le disse che una persona a lei cara l'avrebbe rivista dopo tanti anni.

Agrippa venne fatto comparire all'improvviso tanto che la donna sbiancò, evidenziando il rosso impiastricciato sulle sue gote, si turbò e poi di slancio abbracciò il fratello, piangendo.

Ella lo rivedeva dopo cinque anni, dal giorno in cui, lasciato Erode Filippo, si era allontanata tra la deprecazione generale dei sacerdoti della Velia e di tutta la comunità romana, che l'aveva condannata come adultera, e si era imbarcata per seguire suo zio Antipa, che aveva costretto Anano a sposarli e a togliere l'anatema, affermando che lui, come sovrano, poteva sposare altre donne.

Lui, come eletto da Dio poteva impalmare anche una sua nipote diretta, come tutti i sovrani ellenisti.

Lui aveva bisogno solo della particolare benedizione divina e con l'unione del sangue fraterno avrebbe avuto maggiore potenza.

Tutto questo la donna rievocava, ma ancora sentiva l'herem di condanna dei santi di Israel; tutto questo ancora la turbava; tutto questo la presenza del fratello, che aveva favorito tale matrimonio, ancora di più le faceva ricordare.

Dunque ella, passato il momento della tristezza, subito ordinò di far festa e di essere allegri perché la famiglia era al completo e che la bella notizia doveva essere data al suo sposo: furono inviati messi a dire che Agrippa era a Tiberiade e che Teudione era con lui.

Erodiade era una donna contraddittoria: viveva secondo due mondi e perciò alternava pudicizia a sfrontatezza, silenzio ad ilarità sfacciata, moderazione a fasto smodato, atteggiamenti da donna giudaica schiva, scontrosa, austera ad altri ,propri della donna ellenistica, invadente, capricciosa, superba ed affettata.

Passava dal pianto, che improvvisamente scoppiava, ad una festosa allegria, che esplodeva con grandi risate e con improvvisi abbracci e baci per poi subito ricomporsi con signorile e regale compostezza: era, comunque, una donna genuina, che lasciava sempre trasparire il suo sentimento, senza autocontrollo, senza freno e moderazione: anche la lingua era sciolta e il suo linguaggio dolce perché i suoi toni erano sapientemente modulati, atteggiati al massimo affetto; solo bruschi modi e sguardi accigliati mostravano un altro aspetto della sua irruente natura e della sua ardente passionalità: il suo greco, misto al latino, raramente traduceva un pensiero, organizzato in aramaico, che ben conosceva e che sostanziava le sue più intime idee.

Tutto mostrava che era compiaciuta di aver rivisto il fratello: i suoi ricordi e i suoi istintivi pianti erano segni evidenti di una commozione, che aveva radici profonde, connessioni remote, che solo la disgrazia e la sofferenza avevano potuto stabilire e fondere: ella e la sua famiglia avevano veramente passato ogni sorta di sventura e avevano patito tutto: invidia, odio, esilio, insicurezza del domani, perfino povertà e commiserazione, dopo la massima esaltazione a corte a seguito della designazione ad erede al trono di Aristobulo, suo padre.

D'impulso chiamò il maggiordomo, fece differire tutti gli incontri della giornata con Erode Antipa e decise di far presentare, così all'improvviso a suo marito suo fratello, suo padre e il suo seguito.

La sala del trono di Antipa imitava la sala romana di Tiberio sul Palatino: anche lì c'era un piccolo tribunale, dove il re rendeva giustizia.

Antipa aveva creato una piccola corte del tipo di quella imperiale , con suoi consiglieri ,che formavano un gabinetto ristretto di funzionari regali, che detenevano le redini del regno: fra tutti spiccava un suo parente , un loro famigliare, osteggiato da Teudione ed inviso ad Agrippa perché troppo filoromano, Anania ben Karai

Questi era il suo primo ministro, che guidava la politica interna ed estera del regno, con intelligenza in linea con la tradizione paterna , mantenendosi sempre fedele ai romani ed assoggettandosi anche ad umiliazioni, coscienti della inferiorità giudaica e della dipendenza di fronte ai goyim.

Antipa inizialmente si lasciò salutare, riverire, elogiare secondo i canoni della cortigiania, poi sembrò piegarsi benevolmente, da volpone, verso i suoi parenti e i cari famigliari della moglie, dicendo parole di benvenuto e promettendo assistenza a tutti, specie ad Agrippa, se voleva essere tra i suoi cittadini della sua città , della sua maestosa Tiberiade.

E su Tiberiade egli divenne più familiare ed amichevole ,interessato al popolamento, alla crescita e al buon nome della città costruita: una città ha nome per i cittadini che l'abitano e tu, Agrippa fratello di latte di Claudio, pupillo di Antonia, potresti rendere ancora più grande la mia città: avrai la casa più bella, con tutta la caletta, nella parte meridionale della città, come ti mostreranno i miei architetti, a cui do subito l'ordine di assegnartela. I parenti sono la benedizione di Adonai, specie il fratello della mia cara Diad.

Erodiade gongolava perché questa ultima frase sanciva la sua vittoria sul cuore di Antipa, che non era capace di negarle nulla e che infantilmente borioso, seguiva la moglie in ogni cosa: ella sapeva cosa fare, come sollecitare, come irretire, come accalappiare la volpe, che veniva sempre confusa e frastornata dal furore amoroso della donna, che lo obbligava a fare concessioni, prima di ogni rapporto, in modo scritto, perentorio, come un pagamento anticipato di un gioia ancora da venire, di promesse ancora da allestire, di giochi ancora da iniziare, resi perciò sempre più piacevoli. Anche gli altri furono soddisfatti nelle loro richieste: il solo Teudione non ebbe niente perché non volle niente: egli non commerciava con un rinnegato né accettava doni, si mostrava solo parente per amore di un suo caro: solo Adonai sapeva quanto gli fosse costato una tale recita!

Agrippa, complice la sorella, aveva cominciato a frequentare la piccola Cipro, che pudicamente aveva risposto inizialmente con sguardi alla insistenza del giovane.

Poi la piccola Cipro, sempre in modo schivo e riservato, aveva fatto sapere che accettava e gradiva Agrippa come suo legittimo sposo, dicendo: farò ciò che ogni donna ebraica da sempre ha fatto, la volontà della famiglia , del tutore, di YHWH.
Era la frase di accettazione del fidanzamento.

 

Il Matrimonio

Al fidanzamento seguì il matrimonio, preparato da Erodiade e celebrato con sfarzo a Tiberiade nella nuova casa di Agrippa, sebbene non ancora ultimata.

Siccome Erode era il tutore, questi chiamò Agrippa e contrattò l'acquisto della sposa.

Antipa ricevette lui e Teudione che faceva da testimone e da garante, con ogni onore, in uno studio privato con un notaio e con un tachigrafo, che registrava le parole dette all'istante sia dal re che dall'interlocutore in modo da ricreare il clima emotivo e controllare la situazione comunicativa.

Il re chiese che lo sposo pagasse la cifra dell'acquisto per una betullah (vergine).

Teudione rispose che, secondo il rito, si pagava per una vergine 2OO zuz e per una vedova 1OO e perciò Agrippa avrebbe pagato quanto dovuto, secondo la data di scadenza fissata.

A pagamento avvenuto vennero fissate le nozze e fu invitata la popolazione di Tiberiade tramite araldi per celebrare il primo matrimonio della nuova città: tutti erano invitati ma gli inviti erano diversi.

La maggioranza era convocata presso la spiaggia davanti alla casa di Agrippa per un convito collettivo, che sarebbe iniziato al momento del passaggio della portantina della sposa coronata di mirto ed ognuno doveva fare l'augurio Faccia Adonai che non torni mai più nella sua casa di origine; i nobili della città invece nella reggia, nella sala di ricevimento.

Il corteo era stato preparato da Erodiade che voleva onorare così la sua fama di gran dama, capace di sublimare ogni cosa con la sua inventiva, abituata a mescolare sacro e profano, nonostante le critiche dei sacerdoti di corte, che si attenevano alle prescrizioni della legge.

Comunque ,la città era in festa: il corteo l'attraversò tutta, facendo un lungo giro prima di arrivare nella casa dello sposo, dove la folla era enorme.

Lì ,all'aperto, si tenne la cerimonia nuziale sotto un baldacchino (chuppà): i quattro angoli, adorni di festoni, erano simbolo della casa futura dei giovani sposi, che sentivano la lettura della Ketubbà, del contratto nuziale, con tutti gli obblighi economici, sociali e coniugali.

Poi una parte del corteo giungeva al palazzo reale, che era posto su una collinetta, che degradava verso riva, dove si ripeteva la cerimonia del matrimonio con un baldacchino più fastoso e si ripetevano gli obblighi matrimoniali davanti alla corte.

Era per Erode Antipa il matrimonio del cognato una rassegna generale della città, un'ultima visita, che doveva suonare come ulteriore elogio alla sua fama, un trionfo della sua diplomazia perché erano stati invitati i re vicini Lisania, Monobazo adiabene, Filippo suo fratello, il satrapo Asineo di Babilonia, Antioco di Commagene, curiosi di vedere la nuova capitale e di osservare Hammat Tiberias la sorgente di acqua calda, un ‘attrattiva sia per lo svago che per il culto .

I più nobili dei giudei erano coronati anche loro di mirto, le fanciulle avevano in mano fiaccole e gli studenti vasi di alabastro, pieni di aromi: i giovani precedevano la portantina, dove Cipro s'intravedeva con tutta la sua bellezza, seppure velata.

Per le vie venivano versati vino ed olio a chiunque li richiedesse; noci e spighe, abbrustolite, venivano gettate dalle finestre lungo il percorso.

I canti e le danze si eseguivano da vecchi e da giovani; tutti celebravano il matrimonio sia per il rito che per la bellezza dei due sposi, che per la mangiata finale.

Ora un gruppo di fanciulle cantava salmi d'amore ora parti dello Shir shirim, lodanti la bellezza della donna: Io sono bruna, ma bella, mentre dall'altra parte un coro di ragazzi:

come sei bella, amica mia, come sei bella!

i tuoi occhi sono occhi di colomba!

Io sono un fiore di narciso...

come il giglio fra i cardi spinosi...

...del belletto, dei profumi, delle erbe odorose

tu non hai bisogno, dolce gazzella...

Anche la sinagoga era addobbata e lì davanti ai testimoni e al sacerdote e a al popolo Agrippa pronunciò la frase rituale matrimoniale, dopo aver posto l'anello al dito della sposa: Così ti dichiaro mia moglie secondo la legge di Mosè e d'Israele.

Venne portato un calice e dato allo sposo: bevve vino di Eskol lo sposo, bevve la sposa.

L'uomo gettò il calice di cristallo dicendo: che nessuna donna beva nella coppa dove tu hai messo le labbra, che nessun uomo bagni le sue labbra dove io ho inumidito le mie. E che questo calice spezzato si ricomponga in spirito nei nostri cuori e lo spirito del calice resti intatto nella nostra vita e nella nostra morte perché esso è fatto, amor mio, di materia tale che occhio umano non la scorge, né piede umano la può spezzare. Amen..

Con questo atto il matrimonio era concluso e si iniziavano i festeggiamenti.
Le danze e i cori si succedevano festosi e gruppi di giovani danzanti e cantanti seguivano gli sposi nei loro spostamenti, mentre fiori piovevano dall'alto sul corteo.

Dopo la cena, fastosa e regale lo sposo fu accompagnato nella sua casa, dagli amici più stretti, che esaltavano la bellezza della sposa, la santità del matrimonio ed auguravano figli.

La camera era stata preparata nei minimi particolari: lino bianco intessuto d'oro circondava le pareti, come se fosse una tenda nel deserto e grappoli d'uva, collane di fichi e trecce di olive pendevano dall'alto del soffitto, creando una atmosfera suggestiva, mentre canti provocanti invitavano lo sposo ad entrare nell'orto della sua bella e a mangiare il frutto e convincevano la sposa ad aprirsi a dissigillare la fonte,a schiudere l'orto delle delizie.

La cerimonia era stata un successo più per il re, che per Agrippa, più per Erodiade che per la sposa, più per la comunità che per la coppia, che frastornata, sballottata qua e là, violentata nella sua segreta gioia, poté finalmente nell'intimità della notte trovare la serenità di un rapporto amoroso, di un reciproco abbandono, di una conoscenza piena.

La piccola Cipro, sedicenne, ed Agrippa, trentottenne, si unirono per la vita.

Cipro trepidante attendeva l'amore, palpitava tutta e tremava, tanto era convulsa, tanto temeva l'atto sessuale: Agrippa sapientemente attese e calmò il suo istinto maschile, la confortò, la baciò lentamente e dolcemente sul volto, sul collo, mentre con destrezza la scopriva e con le mani sapientemente accendeva di passione il corpo della vergine, che era reticente e chiusa, se ragionava, ma faceva trasparire una focosa natura se si eliminava la logica e si faceva uscire il fuoco interiore.

La sua voce dolce e insinuante più delle carezze la colmava di epiteti mai sentiti, che magnificavano la sua bellezza, il suo corpo, le parti del suo corpo, chiamate con nomi propri, tastate con forza e delicatezza.

Quando la mano, forte e nervosa, la toccò in mezzo alle gambe, da padrona, la vergine si sentì svenire per il piacere, si divincolò e divenne più appetibile e più donna, indicando all'uomo la via da seguire per espugnare quella rocca, per penetrare quella fortezza, per ottenere la massima felicità propria, la fiducia femminile e essere l'unico padrone.

Allora Agrippa puntò il suo pene e spinse determinato nella sua azione; la giovane sentì la trafittura un dolore intenso, ma anche una immensa gioia, provò un bruciore forte, ma neanche avvertì il sangue, tanto era felice, che sangue e sperma si mescolarono: era donna ormai, sarebbe stata mamma, una madre di figli di Israel.

Piangeva la piccola Cipro di gioia ed era grata, infinitamente grata ad Agrippa, al suo Agrippa,suo marito per sempre, nella buona e nella cattiva sorte.

 

La crisi
Agrippa, dopo il matrimonio con Cipro, si era fermato a Tiberiade, dove abitava nella bella casa sul lago: viveva come un re.

Le rendite della moglie in Idumea e in Samaria fruttavano bene, amministrate dal dioiketes Sila, molto previdente e prudente in ogni affare, mentre la casa di Tiberiade era sotto l'oculata amministrazione dell'oikonomos Evodo, controllato da Cipro, che era diligente economa, donna onesta pia fedele.

La moglie era una perla sia nell'intimità che in società: risplendeva dovunque perché aveva avuto un'ottima educazione: sapeva leggere le toledoth24 ebraiche e parteciparvi emotivamente, conosceva bene il greco e il latino, ma parlava solo aramaico ed ebraico e citava continuamente proverbi e salmi a conferma della sua formazione giudaica, anche se conosceva Omero, gli elegiaci latini e gli autori greci, specie teatrali, che di tanto in tanto facevano capolino, come fiori in mezzo al prato verde giudaico.

Ma era superba nella danza e nel canto, in cui andava ora educando, di tanto in tanto a corte la piccola Salome, figlia di Diad, ma rivelava solo per il suo Agrippa le sue grazie più nascoste, i vezzi più insignificanti, i gesti più birichini e sensuali, muoveva il corpo a ritmo e si cadenzava con la voce, mentre con gli occhi e col volto e perfino coi capelli lungi e neri, sapeva mandare messaggi amorosi, solleticare la sete dell'assetato, la fame dell'affamato, porgere i suoi frutti pudicamente, e faceva intravedere la ricchezza dell'orto, la profondità del pozzo, la dovizie dei cibi e la loro dolcezza lussuriosa.

Cipro era veramente un'asmonea, passionale e scaltra come un'idumea: in lei le due razze si erano fuse e ben incrociate ed avevano dato un fiore meraviglioso.

L'educazione, impartita ai suoi figli, era fine, profonda capillare ed inglobava ogni cultura, ma veniva presentata come un gioco, in cui Dio e il re avevano la funzione principale, dove il bambino doveva essere il suddito che amava, pregava, combatteva per il trionfo del bene e del suo popolo.

I libri maccabaici le sembravano perfetti, specie quelli di Giasone di Cirene25, perché lì erano sintetizzati il disegno divino sul giusto e il dovere individuale, perché lì c'era il tracciato dell'iter di ogni ebreo, destinato ad essere l'erede legittimo del regno.

La fierezza della propria stirpe neanche veniva scalfita dalla coscienza della soggezione romana e dalla necessità del tributo: fingeva di pagare due volte per il tempio, una per il santuario una per gli ebionim (poveri): la sua tzedaqàh era un dare spontaneo, un'offerta d'amore.

La sua anima disprezzava la cultura romano-ellenistica, perché rifiutata, e i giudei della diaspora, perché ricchi commercianti romanizzati, specie gli alessandrini, i rodiesi e i delii, perché più corrotti e compromessi coi romani, odiava poi i sadducei perché, pur ministri di Dio, avevano sete di denaro e non si preoccupavano della salvezza dell'anima e della sua immortalità, a cui non credevano.

I suoi eroi erano gli Zeloti ( i partigiani, impegnati nella guerriglia sui monti) e i Sicari (i pii e gli zelanti della fede nascosti nella città di Gerusalemme), i suoi veri sacerdoti gli esseni, i suoi santi i farisei buoni e i terapeuti, i più cari a Dio: ella era un giudea vera con una musar(cultura) ebraica,

Secondo la legge educava il primo figlio Teud e piccolo Agrippa, il primogenito e il secondogenito nati a distanza di un anno e li seguiva nella scrittura e nella lettura, inoculando lentamente e sapientemente la tradizione giudaica, instillando l'elezione divina, la santità di Yerushalaim, la coscienza familiare di regalità e di sacerdozio.

Con la piccola Berenice ripeteva la filastrocca della nonna, che sintetizzava i doveri della donna, della madre, della giudea ed esaltava la superiorità del maschio: noi siamo figlie di YHWH, nate da una costola di Adam, di Adam noi siamo serve, ma siamo la sorgente della vita, la gioia del nostro uomo...

I ragazzi crescevano bene, specie Agrippa che somigliava molto al prozio Aristobulo, il sommo sacerdote fatto morire da Erode nella piscina di Gerico: i vecchi dicevano che riviveva in lui la sua anima santa: stessi occhi verdi, stessa carnagione, stessi riccioli neri, perfino il neo sotto l'orecchio sinistro e la stessa intelligenza nell'apprendere, secondo i sacerdoti.

Berenice era una bimba gaia, ma stizzosa, bella ma linguacciuta, una bimba adorabile per tutti: i capricci e gli sbalzi d'umore sarebbero finiti e sarebbe stata una donna degna del nome che portava.

Aveva tutto, ora, Erode Agrippa, dunque, ma non era riuscito ad avere l'amore del popolo di Galilea.

Aveva solo un posto d'onore nella sinagoga maggiore della città, ma nessun incarico: eppure aveva superato ormai i quaranta anni e non aveva avuto neppure la funzione di giudice, né di ispettore.

Gli altri, anziani e sacerdoti vedevano di mal occhio la sua frequentazione a corte, la sua continua presenza alle terme, la sua giornata che veniva spesa invano, senza lavoro: lui era l'agoranomos26 sfaccendato; al suo posto c'erano gli altri che operavano, riscuotevano, imponevano tasse, lui era un nobile e si annoiava a non far niente.

Inoltre sapeva che la sua funzione era odiosa sempre alla popolazione giudaica: in pratica era a capo di uomini che erano connessi con i pubblicani.

Specie d'estate, con quel clima caldo ed afoso, la carica nominale di agoranomos era un motivo ulteriore di odio da parte dei sacerdoti e del popolo, che venivano sottoposti a maggiori controlli , perfino alle terme.

Certo tutti giuravano che osservava la legge e che non parlava più neppure in greco, ma tutti erano concordi nel dire che un buon giudeo deve dire la verità ed operare bene, per il prossimo: la sua natura romanizzata non si cancellava così facilmente, notava il capo sinagoga di tutte e tredici le sinagoghe cittadine.

La sfiducia verso di lui dei sacerdoti, la mancanza di stima da parte degli esseni, lo sguardo di odio degli zeloti (da lui riconosciuti, ma non denunciati), l'avevano spesso esasperato e talora era ricorso al cognato Antipa perché lo imponesse come capo ai Galilei.

Antipa, a malincuore, anche se lo aveva già eletto agoranomos, ispettore capo dei 10 agoronomoi di Tiberiade, di uomini che controllavano le merci e i prezzi al mercato e stabilivano la regolarità dei contratti, lo consolava parlandogli della fierezza galilaica e dell'odio per ogni autorità: lo sopportava, comunque, per amore della moglie, ma quel nipote per lui non valeva niente e di lui non sapeva cosa farsene e cercava di tenerlo lontano dalla politica, anche per la sua boria scettica.

Antipa era desideroso del bene del suo popolo e sapendo quanto era precaria la sua stessa condizione cercava di non fomentare altre discordie a causa del cognato, che egli d'altra parte non stimava e che considerava un perdigiorno e buono solo a gozzovigliare, come tutti i romani.

Comunque la carica gliel' aveva data, ma questo non aveva soddisfatto Agrippa, che si sentiva sempre di più odiato e che in un certo senso accusava della sua disgrazia il cognato.

Il fatto poi che Agrippa volle entrare in affari con Capitone, governatore della fascia costiera, deteriorò i suoi rapporti col re, che era in concorrenza con il romano, determinò la rovina finanziaria e il suo indebitamento e quasi la perdita totale del patrimonio di Cipro, ed inoltre acuì l'odio popolare.

Era venuto a contatto con i Sadducei, che formavano il nerbo della sanhedrim di Gerusalemme e col sommo pontefice Kaifas ed aveva poi con Capitone stabilito di coordinare la riscossione delle tasse a Samaria ed Azoto, che egli avrebbe versato al procuratore ad Iammia e a Pilato, a Cesarea, annualmente.

I Sadducei, i corrotti sacerdoti del tempio, lo avevano attirato con la promessa di farlo entrare come consigliere nel Sanhedrim di Yerushalaim.

Essi prendevano il nome da Sadoc, sommo sacerdote del tempo di Davide ed erano i discendenti di Aronne, dalla linea di Eleazar: si dividevano in classi e sottoclassi e detenevano il potere del tempio, che voleva dire controllare il popolo della terra (am ha àretz), in quanto tenevano quasi un terzo del territorio della Giudea sotto il proprio controllo diretto o indiretto tramite amministratori e sacerdoti incaricati.

Essi, quindi, controllavano la formazione del pensiero della masse agricole, oltre che il sistema economico poiché dominavano in campo politico e religioso, avevano il tesoro del tempio, eleggevano il tesoriere e il capitano del tempio, sceglievano le truppe del tempio reclutate tra i loro contadini.

Siccome però il potere era da dividere con i romani, che esigevano a loro volta un decimo di tutte le entrate, i sacerdoti avevano accettato di dare il pizzo agli invasori, malvolentieri, ma venivano assicurati nelle loro funzioni di privilegio rispetto alle altre classi sociali e alle chavuroth (movimenti culturali).

Essi, pur imbevuti di ellenismo, pur razionali e funzionali, pur non credenti nella resurrezione, si consideravano i custodi della tradizione, non volevano l'interpretazione, ma solo la lettura della lettera della Bibbia per non giungere a conclusioni libere ed a fantastiche divagazioni.

La loro politica filoromana derivava dalla coscienza della stabilità assicurata dalla superiore potenza romana, che favoriva la prosperità del Tempio, grazie alla pace garantita dall'imperium e che vietava ogni innovazione, come essi volevano egoisticamente per il loro stesso benessere.

I sadducei da tempo erano in stretto unione col potere temporale, dal periodo di Iamneo, che aveva, su loro istigazione, distrutto la parte avversa degli hassidim (pii) farisaici fino ad Erode, che pur si era barcamenato nella lotta tra le due classi, fino ai romani che avevano preferito chiaramente la classe aristocratica sacerdotale, anche se arrogante e litigiosa.

I sadducei, dunque, avevano oltre al dominio diretto sulle proprietà terriere del tempio, anche il potere sulle classi operaie, che vivevano miseramente e che dovevano pagare sia la classe sacerdotale che quella dei leviti, oltre che i romani invasori.

La condizione dei contadini, degli artigiani, dei piccoli commercianti era generalmente bassa per reddito, ma si differenziava per tenore di vita a seconda delle mansioni, delle professioni e dei terreni posseduti.

Comunque, tutti erano desiderosi di cambiamenti, in attesa sempre di un capo che scrollasse da loro il giogo della doppia servitù: ogni am ha àretz era ostile ai sadducei e ai romani.

Agrippa, quindi, filo-sadduceo e filo-romano, nonostante la sua conversione, era entrato in un conflitto col popolo che lo additava come un appaltatore romano, un capo-pubblicano, che propendeva per le idee farisaiche, quindi, un ipocrita che parlava bene, ma agiva male.

Non essendo poi abile finanziatore, essendo un letterato, che si era sacrificato nell'oscuro compito del contabile, pur di fare qualcosa, mal consigliato da Evodo, che era collegato con i ministri di Capitone, abilissimi a sfruttare gli errori dei socii, aveva iniziato la riscossione il terzo anno dopo l'anno sabatico, d'inverno: fu un errore madornale!

Aveva cioè iniziato tardi a spremere il contribuente, che già era stato spremuto da pubblicani di Capitone e quindi per il terzo anno non poté esigere il pagamento.

L'anno seguente, la riscossione era stata capillare in Samaria e sulla fascia costiera: l'introito fu buono ed ebbe la percentuale, come era stato stabilito, nonostante i contrasti con i pubblicani, ma il quinto e il sesto anno la sua esosità si manifestò e i pubblicani pressarono le popolazioni, specie samaritane.

Il settimo anno, la società giudaica non lavora i campi che vengono lasciati a riposo, gli stessi schiavi vengono liberati e tutti devono vivere delle rendite immagazzinate nei sei anni precedenti.

Siccome le annate non erano state buone, specie per la siccità del sesto anno, che aveva prodotto una desolazione nei campi e la riscossione dei pubblicani, invece ,era stata ancora più esosa, allora la guerriglia era iniziata in Samaria.

La guerriglia in Samaria era un richiamo irresistibile per i Galilei, pur nemici dei Samaritani.

Perciò i guerriglieri galilaici, congiunti a quelli di Gamala e della Perea, fecero sorgere una piccola rivoluzione, che favorì i samaritani e la loro ribellione: il nazionalismo in certi momenti superava le divisioni di parte.

Agrippa e i suoi pubblicani vennero a trovarsi nel centro di questa ribellione: vennero spogliati dei loro averi e quindi ci fu l'intervento di tre coorti venuta da Cesarea, comandate dal giovane Corbulone.

Agrippa fu incolpato dalle autorità e dovette pagare una somma ingente, di tasca propria: dovette vendere tutta l'azienda a Lidda, quella in Galilea, a Canah, prelevare denaro dalla fida Cipro.

Fu il suo tracollo finanziario: solo l'intervento di Antipa lo salvò, altrimenti anche la casa di Tiberiade e i beni dei figli sarebbero stati divorati.

 

Fallimento e volontà di morte
Erode Agrippa aveva deciso di morire.

La sua vita era stato un fallimento totale, come cittadino, come marito, come padre, come giudeo.

Aveva perso perfino l'affetto di Teudione, che ora non era più paterno, ma lo osteggiava perché in lui c'era Mammona, il demone del denaro, la voglia di vivere nel lusso: il suo patrigno era un santo che viveva spesso lontano dalla comunità, pregava, digiunava e supplicava YHWH di fargli vedere l'avvento del suo regno: di continuo lo si sentiva urlare. Eli, Eli, tete malkutak! (Dio, Dio, venga il tuo regno!)

Aveva perso anche la stima e l'affetto di Cipro, che ora discinta e disfatta non sapeva come vivere in uno stato di disagio, con tre figli piccoli: ormai non era più come prima, servizievole, amica, complice, disponibile, ora temeva il futuro per sé e per la propria famiglia, ora che era incinta di nuovo: una donna, più è intelligente, più legge il fallimento nell'altro, anche se ama; meno critica e più severo diventa il suo stesso aspetto.

Ora in lei si era insinuato il tarlo della sfiducia, si andava radicando un rancore verso il suo uomo, che pur amava: la sua vita ora era cambiata e non per colpa sua.

Agrippa ora aveva perso perfino se stesso, la sua infinita coscienza di sé, la sua volontà di vivere, di crescere, di salire: ora sempre più spesso serrava la bocca e si chiudeva in afasia scettica.

Il maestro di scetticismo ora provava direttamente sulla sua carne la parola scettica e la misurava effettivamente.

Il suo odio-amore per Roma, unito alla sua coscienza nuova di giudeo, alla riscoperta della sua radice lo deprimeva, lo faceva sprofondare negli abissi della disperazione e quindi lo portava ad uno stato di confessione dei propri peccati, di manifestazione e quindi di un ravvedimento, che assumeva i contorni di un misticismo, che si esprimeva in una volontà di autodistruzione, che si concretizzava in massacranti digiuni, congiunti con fughe.

In quegli ultimi anni, spesso, aveva fatto così: si era allontanato da casa, si era rifugiato nel deserto, aveva pregato, pianto, digiunato, era tornato a casa rinnovato nello spirito, capace di vivere da giudeo semplice, come un popolano, con i mezzi limitati, senza, però, la fatica, senza la volontà di operare.

A lui neanche veniva in mente la possibilità di un'espressione operativa, di lavoro manuale, proprio di ogni am ha àretz: per lui, nobile e ricco, educato alle arti liberali chiunque altro, lavoratore, artigiano, commerciante, contadino era un am ha àretz, un uomo sporco, non importa se di calce o di terra o di altro, era uno, indegno di contatto, un paria, un intoccabile.

Qualsiasi forma di banausurgia anche mirabile e spettacolare, non sorprendeva lui scettico.

In lui la cultura greco-ellenistica aveva radicato la coscienza di una superiorità rispetto ai popolani, la boria di essere uomo liberale, che non poteva svolgere mestieri sordidi, illiberali: il suo sangue regale e sacerdotale, poi, precludeva ogni circolazione in senso democratico, ogni via demotica.

Comunque, tornava nella sua casa di Tiberiade e viveva, oziando, come un romano, come se fosse ricco e se poteva, cercava di consigliare, di educare i giovani ad una moralità giudaica, perché era ormai adulto, ma i vecchi giudei lo vedevano come inadatto, come uno pericoloso, un infetto, quasi un malato perché la sua cultura era giudaica, ma inficiata di alessandrinismo e di scetticismo.

Egli, secondo loro, aveva molte forme romane e perciò era inaffidabile per la trasmissione della tradizionale legge.

Agrippa era un pirroniano, un teorico dell'epochè (astensione dal giudizio) e della afasia (cessazione del parlare), formulatore dei cinque tropoi (forme) scettici, che portano all'atarassia mediante l'indifferenza: per i vecchi Agrippa era una vipera, che avvelenava i giovani, instillando in loro che tutto è opinione e che soprattutto non c'è certezza e che ogni dogmatismo può essere falsificato, perché opinione di opinione.

Alcuni poi, ostili, impedivano che egli potesse non educare i giovani, ma perfino avvicinarli: Agrippa era esattamente il contrario di quanto essi pretendevano che fossero i giovani giudei.

Ed infine tutti per di più temevano la pedofilia, il vizio degli ellenizzati, tipico dei romani.

Teudione poi tuonava: solo i gadoshim (i santi) possano educare! senza la santità non è possibile educare!

Agrippa soffriva, ma capiva che era giusto e questo diventava il suo segreto cruccio, che lo portava spesso in riva al mare, ad isolarsi, a riflettere.

Egli pensava che non era simile agli altri giudei: lui andava in Bet Kenisa (sinagoga), nella casa di preghiera (Bet ha tefillàh), ma la bocca si serrava.

La bocca serrata era indizio di una non volontà di partecipare alla preghiera, al commento, alla benedizione degli altri: lì era una comunità in preghiera e lui invece voleva un rapporto diretto col padre, con Dio, quasi fosse privilegiato.

Egli sentiva che lui era veramente un prediletto di Dio, a volte ne sentiva perfino il suo santo spirito (ruach ha qodesh), che aleggiava intorno e lui ne era pervaso.

La sua anima era come una betullah (Fanciulla) che amava il suo signore, ma, ingenua e bambina seguiva chiunque la guardasse, s'infervorava per il denaro, era sedotto dalla forma.

La sua anima spesso si allontanava da Dio e poi si riaccendeva d'amore, come se non avesse peccato e continuamente cresceva in questa accensione verso il suo sposo divino, per ricadere improvvisamente nel male: riprendeva infantilmente la sublime ascesa, come se non fosse contaminata, curiosa e fiduciosa in Dio, in una tensione sempre maggiore di amore e di passione per Dio-sposo.

La sua anima cercava Dio, ma era avvolta nella miseria del conformismo ellenistico, del denaro simbolo della società corruttrice, della forma: la sua verginità egli la cercava e la voleva riacquistare con pentimenti, con digiuni, con fughe nel deserto, con la punizione della propria sensualità e con la scarnificazione della propria carne.

Dio, quindi, era il suo signore, il suo interlocutore, il perfetto bene a cui confidava i tormenti della sua anima, svelava i segreti profondi della sua generazione e quella dei suoi padri asmonei ed erodiani, confessava le colpe sacerdotali della sua famiglia.

Lui si sentiva, davvero, un prediletto e un privilegiato!

Eppure capiva che non doveva essere così, capiva che non si doveva nemmeno pensare così e che lui era, come tutti gli altri, in quanto figlio di Israel, figlio della luce, simile a tutti gli altri, coerede, cleronomos alla pari degli altri.

Eppure si sentiva diverso: lui amava la novità, non la tradizione; lui cercava vie nuove, un sistema diretto verso Dio, un'ascesi individuale, ecstasis personale: lì, in Galilea, invece, contava solo la communitas non l'individuo; anzi l'individuo era condannato; lì tutto era comune; lì si viveva comunitariamente la religiosità, non come a Roma o ad Alessandria, dove predominava l'individualismo.

A Roma, per un giudeo tutto era apparentemente corale e comune, ma tutto era al fine di un commercio comune, di un'utilità comune, di una fratellanza, e niente era reale.

Ad Alessandria la grande preghiera della sinagoga madre era un coro di voci, una sinfonia armoniosa, ma era una forma: nessuno era più individualista del giudeo alessandrino, che pensava ai suoi affari, al suo lavoro: certo faceva quanto prescriveva la legge, pregava tre volte al giorno, due volte alla settimana era in comunità, festeggiava le feste, aiutava il fratello, santificava il Sabato, pagava il denaro per il tempio, faceva collette ricchissime per i poveri, mandava denari per i sacerdoti e, se aveva tempo, saliva a Gerusalemme tre volte all'anno, come tutti i giudei della Palestina.

Una cosa era il culto, una cosa la religiosità formale, un'altra cosa la pratica di vita, la ricerca di denaro, l'apertura di emporeia, (centri commerciali), la concorrenza con gli avversari, quasi tutti giudei, la scaltrezza, giustificata con la millantata giustizia giudaica.

In Tiberiade, ora, invece, come in tutta la Giudea, c'era la purezza dell'integralismo, c'era la ringhiosa ed oculata attenzione dei giudici, dei giusti, dei santi, di un mondo di vecchi che avevano sempre in bocca la torah: farisei, sadducei, esseni, zeloti, scribi, tutti avevano una loro verità da varia angolazione, fanaticamente.

Lo stesso re Erode Antipa cercava di conformarsi, anche lui doveva conformarsi.

Ma Antipa era re.

Il suo massimo tarlo era invece di essere inerte, di essere muto spettatore, di guardare gli altri fare, i contadini lavorare, gli artigiani operare, i commercianti ingegnarsi negli affari.

Lui non faceva niente.

La sua massima rabbia era di vedere i parenti crescere in ricchezza e in potere e specialmente dover guardare il realizzarsi dell'opera di Antipa, un freddo e piccolo calcolatore, una volpe che sfuggiva ai lupi romani e alle iene sadducee, che ondeggiava tra farisei e zeloti, che, ipocrita, lodava il sistema parto e mangiava con quello romano.

Oh come soffriva a vedere i tectones costruire le mura di Tiberiade, a sentire magnificare la sua politica, a mangiare il pane amaro e a bere il veleno dei suoi calici!

Perfino sentiva una morsa se sentiva che suo zio Filippo nella sponda opposta, era non solo costruttore ma anche abile politico, capace di reggere tanti popoli e diversi e di amalgamarli, oltre lo stesso mandato di Roma.

E lui non faceva niente: erano passati gli anni, era già uomo fatto e lui niente: viveva come un privato, con i beni della moglie grazie agli affari dei liberti, ma lui non faceva niente.

Se faceva qualcosa, subito rivelava che egli non era adatto agli affari, al commercio, ai finanziamenti lui non era un liberto che faceva i conti, non era l'alabarca27 che sapeva controllare le navi in partenza e in arrivo, le merci che doveva spedire e quelle che doveva rinviare e quelle su cui speculare, non era Callisto, il dioichetes di Antonia, che sapeva moltiplicare il denaro: lui aveva l'animo regale, la magnificenza di un sovrano, la munificenza di un Attalo ed andava cercando la propria via, investigando i segni di una predestinazione, rileggendo criticamente la propria storia, sperando di trovare da solo il suo iter verso Dio.

Spesso si ritrovava in riva al mare, si lasciava cullare dal mormorio del mare, si perdeva nella sinfonia delle voci che gli giungevano da ogni parte del lago, si chiudeva in se stesso, separandosi da tutto, isolandosi.

Io, Agrippa ben Aristobulo, distruggo qualunque cosa tocchi, sperpero ogni patrimonio, anniento ogni cosa bella, perfino un fiore come la mia piccola Cipro.

Forse sarò anche la rovina dei miei figli: questa è la nuda realtà, lo so! so leggere la mia storia. Eppure... eppure io sento di non essere così; capisco che appaio senza anima e senza valori: forse io non sono io, non sono quell'io che sento in me, quell'uomo grande che io penso di essere, quel genio che non può essere etichettato, catalogato.

Io sono Agrippa, l' erede della stirpe asmonea ed erodiana, il simbolo stesso della mia razza: ho solo bisogno di un segno che mi mostri la via.

Devo solo aspettare senza deprimermi, attendere senza svilire: YHWH sta preparando per me il mio avvenire: esso mi appartiene ed io ne sarò degno, questo lo so! Devo solo prepararmi per questo, non conta se ora soffro; non fa niente se ora sono una nullità, non importa neanche se sono offeso: il periodo delle sette vacche magre passerà e sarà l'ora delle vacche grasse; finirà il momento del male ed inizierà quello del bene: non sempre piange Giobbe.

Passava cosi dalla massima depressione alla massima euforia: tutti gli eredi di Erode passavano da un eccesso all'altro, in un tentativo di giustificazione del proprio operato nella esigenza di dover sopravvivere e di avere una positiva generale valutazione per seguitare a vivere: non conoscevano le fasi intermedie ed Agrippa non era diverso. E quando si autodistruggeva, cominciava ad elencare le sue malefatte, i suoi peccati, a maledire la sua stessa vita, ad implorare perdono come in una sceneggiata.

Allora subito si riempiva di lacrime, incapace di trovare equilibrio, proprio perché aveva coscienza grandiosa di sé: eppure io sono Agrippa e sento di essere chiamato a fare cose grandi, infinite, regali, di essere diverso dagli altri, più buono di un romano, migliore di un giudeo, perfino più puro di un santo: la mia anima è pura, la mia carne è demoniaca! Aiutami, Adonai, aiuta il tuo servo, indicami la strada, la mia strada!

E se si esaltava, agitato da uno stato di ebbrezza, iniziava a celebrare la sua natura, ad esaltare la sua razza, a magnificare Adonai per le doti, in un ringraziamento filiale, in una contentezza bambina, che lo faceva tripudiare, che gli riempiva le mani di denari per i poveri, di doni per gli amici, di promesse per tutti, in una volontà di beneficare il mondo, di liberare l'umanità dai mali, smodato in tutto, smisurato e sublime in ogni manifestazione.

In questa alternanza egli passava la sua giornata, che era sempre odiosa e solitaria ed attendeva.

Egli attendeva un segno divino, che gli desse il via per la sua impresa, che lo avviasse verso quel destino, che egli credeva di meritare e che anzi riteneva che fosse suo.

Neanche la natura lo placava: non un fiore, non un animale, né il dolce panorama del lago, né le grida festose di Berenice, né il viso riccioluto di Agrippa, né le carezze lascive di sua moglie.

Eppure con la natura aveva una comunicazione diretta, come di una parte col tutto, di un figlio con la madre: sapeva studiare i fenomeni grandiosi naturali da scienziato vedendo il kosmos 28che dominava nel tutto e nelle singole parti, sapeva cogliere la varietà atomistica delle cose, sapeva tracciare una linea provvidenziale parziale ed universale fino ad arrivare allo spirito divino animatore e datore di vita; sapeva riferire tramite un'infinità di segni misteriosi ogni sostanza a parenti, ad amici morti, a persone care scomparse, ai suoi antenati, che gli si presentavano con i loro volti, ora gioviali, ora tristi, ora cupi, ora severi, ma sempre in modo esemplare in un'animazione universale.

Sono perseguitato dai miei antenati, sono pressato dalla storia, sono circondato da Adonai, che mi chiama: così talora farneticava, ossessionato dalla propria ricerca.

E la natura così aveva la stessa funzione della storia perché i suoi avi erano nella natura, vivevano in essa e ne erano la parte più viva.

Talora la legge, quasi gli si personificava, gli si presentava e gli mostrava che la conoscenza è agire a favore degli altri, in quanto ogni uomo esprime il suo pensiero nell'azione e nell'azione l'uomo manifesta la sua anima, non nella parola.

La parola (davar), se si realizza, è divina, è opera dello spirito santo pensava ed allora gli sgorgava infantile la preghiera dello shemà come implorazione verso Dio, ma in modo rabbioso. Shemà Israèl, Adonài elohènu, Adonai Echàd (Ascolta Israel, il signore è il mio signore, il signore è unico).

Da qui la coscienza di essere un uomo diverso da tutti, :un innamorato della Legge, un aspirante alla santità, dall'anima giudaica, ma, in effetti dal cuore romano ed ellenistico: egli era un gaudente, che mangiava il pane altrui, succhiava il sangue del lavoro altrui, prendeva il meglio della vita in nome di una pretesa superiorità, basata sull'aristocrazia e con questa giustificava il suo potere, il suo sopruso: non era diverso dal romano che poneva la spada del vincitore sul piatto della bilancia della giustizia.

Le due educazioni si erano fuse a Roma, nella corte stessa di Augusto, sotto la sorveglianza di maestri regi, che avevano inculcato la romanità secondo la storia liviana e l'epica virgiliana.

Essi avevano insegnato come la giustizia si diffondesse nel mondo bisognoso di Roma ed a Roma anelante, e dichiarato che solo i romani portavano la iustitia, quasi dono, dato da benefattori filantropici, e con essa la civiltà, il benessere, la pace.

Essi sancivano il loro pensiero proclamando che la vittoria, voluta da Dio, concessa continuamente solo al popolo romano, era segno della predestinazione al comando della romanitas, della sua funzione culturale, della necessarietà del dominio imposto, come richiesto e voluto da popoli infantilmente bizzosi e incapaci di governarsi.

Roma era il faro di civiltà che accomunava vinti e vincitori secondo giustizia, organizzava il mondo, proteggeva i deboli e debellava i potenti, costituiva uno stato di equità universale.

Così pervaso della giustizia romana, il giovane Agrippa aveva contemperato il sistema giuridico con quello giudaico, che gli veniva instillato dai maestri giudaici romani, anch'essi conformati ad unificare l'idea di giustizia patria con quella romana.

Contemporaneamente la cultura secolare giudaica gli era penetrata nelle aule della Velia, gli si era insinuata nelle vene con i canti e con la triplice preghiera, ma soprattutto con la visione escatologica dei profeti, con le imprese dei suoi antenati Maccabei e con quelle dell'amato e odiato Erode, tanto celebrato, pure nella riva sinistra del Tevere.

Da vecchi giudei, non condizionati dal consenso universale alla politica romana, egli spesso aveva avvertito dissonanze, contrasti tra le due giustizie ed aveva intuito che Roma imponeva con la forza e giustificava col potere la sua superiorità militare, coprendola di philanthropia, di humanitas, il giudaismo invece considerava la giustizia, come dikaiousune, come espressione concreta di una sapienza che si raggiungeva con una vita di effettiva equità, connessa con la Tzedaqàh.

Mosè, infatti, aveva legiferato che gli uomini sono veramente tutti eguali davanti a Dio e che non esistono differenze, che la carità non è solo verso gli altri uomini, amici o nemici, ma anche verso ogni forma naturale e vivente e vegetale.

Mosé era Mosé !

La paritarietà tra gli animalia era la sintesi di ogni pensiero mosaico, che formava il perfetto giudeo.

Diceva Yochanan29 amico di Gamaliel,30 il nipote di Hillel: noi tendiamo alla sapienza , non in senso greco o latin, come un filosofo che cerca la verità, noi viviamo la verità: il giudeo è giusto se vive secondo il ben dire e il ben fare, se realizza con la sua vita un percorso di giustizia, se compie un viaggio terreno procedendo lealmente e facendo azioni oneste, nel rispetto dell'altro, compagno di viaggio sia correligionario, che greco, che barbaro.

Questo pensiero del maestro della Velia ora si cuciva con le lezioni di Filone di Alessandria, il fratello di Alessandro Alabarca

Questi inneggiava nei suoi libri allo spoudaios (uomo serio) che, da sapiente, iniziando un nuovo metodo, seguendo le indicazioni del legislatore, tracciava una via, difficile da seguire, per un sentiero aspro ed accidentato, rupestre, dove solo i prediletti di Dio potevano inerpicarsi.

Egli, quindi, doveva lasciare la via larga dell'ellenizzazione, rinunciare alla forma e iniziare la via aspra che era quella della separazione dai pagani, della giustizia e della santità, in poche parole quella che imponeva di osservare il monito di Isaia (56,1) Osservare la giustizia e praticare la virtù.

04/12/2009





        
  



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