Le piazze, la rivoluzione, il terrore: la caduta di un mito.
San Benedetto del Tronto | Guido Panvini presenta: Ordine nero, guerriglia rossa. Storia dei fatti degli anni di piombo.
di Martina Oddi
Panvini
Strage di Piazza Fontana, 1969: inizio ufficiale degli anni delle stragi che a destra e a sinistra insanguinano il paese fino all'epilogo rappresentato dal rapimento di Aldo Moro. Difficoltà a comprendere le ragioni di una violenza, che al tempo sembrava poter essere legittimata come strumento di lotta politica e perciò non veniva messa fuori legge, come accadeva invece in Francia e Germania.
Una difficoltà delle giovani generazioni che, cresciute con il mito del '68 scoprono con stupore e sgomento la degenerazione di una rivoluzione pacifista nata nelle piazza, che nelle piazze diventa sangue e terrore. Difficoltà nelle parole di Valentina De Cosmis e Claudio Scarpantoni, che introducono il testo di Guido Panvini nell'ultima serata di Librato, di fronte ad pubblico di giovanissimi lettori.
Un lavoro di ricerca storica sulle fonti, sugli atti dei tribunali, dei partiti, gli articoli dei giornali dell'epoca che - ed è questa una scoperta scioccante - istigano alla violenza fino a pubblicare ricette per costruire bombe. La tesi dell'autore si concentra sull'analisi della reazione di uno stato debole, vittima del retaggio fascista e del pregiudizio dell'uso del pugno di ferro con la piazza, incapace quindi di un confronto risolutivo con gli estremismi.
Una dirigenza connivente, che coltivando il pericolo della rivoluzione comunista, consolida lo stato democristiano borghese, appoggiando in modo più o meno evidente il neofascismo del terrore. Di contro un PCI diviso tra l'anelito della rivoluzione tradita dai quadri dirigenti, con la spinta propulsiva della classe studentesca e operaia, e il tentativo di diffondere la democrazia progressiva come corrente dominante nel partito.
Una violenza che si esprime nella sinistra extraparlamentare e nella destra neo fascista, prendendo di mira l'una la dirigenza dei partiti, l'altra i civili inermi. Una violenza non tollerata e messa finalmente fuori legge dal PCI, che invece a destra vede il MSI coinvolto in un'ambigua relazione con le frange estreme.
Violenza di fatto, ma anche violenza di linguaggio: dalle sigle dei gruppi (g.a.p. - gruppi armati proletari, prima linea, brigate rosse, nuclei armati rivoluzionari, ordine nuovo, ordine nero, avanguardia nazionale), agli slogan (la strategia della tensione - a destra - attraverso stragi e attentati rivolti ai luoghi pubblici; a sinistra da lotta dura senza paura si passa attraverso l'esproprio proletario, a colpirne uno per educarne cento) - i simboli - nelle svastiche che spuntavano nei nomi dei leader politici, l' "okkupazione", l'eschino e il passamontagna fino alle armi improprie - le spranghe, la chiave inglese hazet 36, la P38).
Identità differenti contrapposte nei simboli ma non nel significato, che rimane uno: il terrore delle piazze come strumento di lotta politica. Così sembra a Pasolini, che all'indomani della strage del 1974 a Brescia, descrive i protagonisti del terrore uguali a destra e a sinistra: in quella nota non viene meno la consapevolezza delle profonde differenze dei due schieramenti, ma prevale la consapevolezza di un immobilismo che ferma le diversità nel tempo e rende uguali gli estremi, annullando ogni possibile evoluzione civile.
L'epilogo tracciato con sollievo nella tesi di Panvini descrive come il Paese si sia stretto alla gente, e nonostante la lacerazione tra le piazze e lo Stato, sia riuscito a reggere così l'urto degli anni più duri, "fatti di qualche alba e molti tramonti".
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27/02/2011
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