Il Procuratore Nazionale antimafia PIERO GRASSO a San Benedetto del Tronto
San Benedetto del Tronto | Gli arresti eccellenti, la decapitazione della cupola, come ci conferma il Procuratore Grasso, non hanno significato chiudere per sempre con la mafia.
di Maria Teresa Rosini
E' questo ciò che accade, nel racconto in forma di parabola fatto a Grasso da un boss mafioso ormai in carcere, ad un ragazzo disoccupato che si presentò al capomafia per chiedere aiuto per sfamare il figlio. In cambio di un'assunzione in nero il malcapitato cedette la sua identità per operazioni illegali gettando una ipoteca pesantissima e difficilmente revocabile sulla sua vita. La morale della favola, correttamente enunciata dal boss, è questa: "Finchè quel ragazzo verrà a cercare aiuto a noi e non verrà da voi (stato), la mafia non finirà"
E' con queste considerazioni che il Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso esordisce in quella che potremo definire, complice la linearità e la telegraficità delle domande poste dal giornalista Mario Paci, una lectio magistralis sul fenomeno mafioso tenuta in occasione della presentazione del suo libro Liberi tutti (2012 Sperling & Kupfer) presso il Circolo nautico di San Benedetto.
Cosa nostra e tutte le organizzazioni criminali ad essa affini sono fenomeni complessi, fondati tradizionalmente su un do ut des (io do affinché tu dia) i cui contraenti non si trovano però in posizione paritaria. Sono l'uso della violenza, dell'intimidazione e del ricatto da un lato, e una condizione sociale di bisogno e debolezza dall'altro, il corollario ineludibile del patto.
Ecco perché il procuratore Grasso definisce il sistema mafioso come una sorta di welfare, un'assistenza sociale perversa impostata su una sostanziale assenza dello Stato come referente attendibile e sollecito dei bisogni dei propri cittadini.
Ma lo Stato è stato davvero e semplicemente assente? E la diffusione e il potere delle mafie sono davvero e semplicemente dovuti ad una carenza dell' intervento sociale delle istituzioni in quella tormentata area che è il sud del nostro paese? In quel mezzogiorno dagli anni 50 ad oggi inondato di risorse finite non sappiamo bene dove (o forse sì), ma certo non a sostenere migliaia di persone dal destino simile a quello di quel giovane disoccupato alla fame?
Sarebbe riduttivo porre solo la condizione di bisogno a precipitare un individuo nei gironi infernali di cosa nostra. L'imprenditore Conticello, che accompagnava il Procuratore e che è sotto scorta per aver rifiutato di sottostare al pizzo, non è certo andato a cercarsela la mafia. Se l'è trovata sulla sua strada, quella che sulla scia del profumo dei soldi ti porta i picciotti direttamente alla porta di casa.
Resistere è equivalso per lui a risolversi a vivere un'esistenza blindata, ma ce l'ha fatta: la sua attività economica prosegue con successo. Un segno importante che non ci autorizza a trionfalismi, ma che va ad integrare la nostra riserva di speranza troppo spesso in rosso.
Ma quale percentuale delle iniziative economiche è immune, ancora oggi, dall'invasività della criminalità organizzata, in Sicilia e anche nel resto del paese?
Gli arresti eccellenti, la decapitazione della cupola, come ci conferma il Procuratore Grasso, non hanno significato chiudere per sempre con la mafia: seguire gli enormi flussi di denaro che, prodotti con sistemi illegali, vanno a "rifarsi una verginità" in attività economiche "pulite" è anzi sempre più difficile.
La globalizzazione ha aperto nuove possibilità di occultare scambi e transazioni. E gli appalti restano ancora occasione di incontri reciprocamente vantaggiosi tra illegalità e politica.
Tutto sta cambiando ancora perché nulla in realtà cambi. E' in questo contesto, nuovo, ma non meno inquietante, che noi cittadini siamo oggi alle prese con la ricerca della verità sulle stragi del ‘92 e del '93.
Il procuratore Grasso da uomo di lunga esperienza nella lotta alla criminalità organizzata (giudice a latere in quel maxiprocesso impostato da Falcone e che rappresenta il primo grande vero successo nella lotta a cosa nostra) è sicuramente consapevole degli sforzi e delle contraddizioni che nel corso del tempo hanno accompagnato la lotta dello Stato contro la mafia. Lo capiamo dalla misura e dal tono pacato con il quale sa affabularci attraverso i suoi racconti, dalla prudenza con la quale disegna un quadro della realtà in cui le tinte forti sono sapientemente dosate e l'accento è posto sulla questione educativa e culturale da cui comunque non si può prescindere nell'affrontare la realtà della mafia nel nostro paese.
Ma noi, cittadini ormai eruditi sul fenomeno, nutriti quotidianamente da una comunicazione e un'informazione in grado di soddisfare adeguatamente la nostra voracità conoscitiva o almeno di lasciarci intravedere squarci più o meno ampi di verità, forse venerdì sera avremmo voluto sapere di altro, parlare di altro.
Avremmo voluto sapere da lui del procuratore Ingroia e del rinvio a giudizio di uomini dello Stato. Quello stesso Stato che si è andato rivelando non certo assente dal quadro, seppure ancora lacunoso e contraddittorio, delle "relazioni pericolose" instaurate da tempi lontani, con quella stessa cosa nostra ufficialmente sempre combattuta, ma mai davvero sconfitta a causa di un balletto di passi avanti e indietro condotto, spesso con incredibile cinismo e al prezzo di molte vite, da "pezzi" dello Stato di ancora incerta e confusa identità.
Perchè è proprio a coscienze disattente ed eticamente disarmate dalla mancanza di verità che dobbiamo in buona parte il radicamento territoriale e culturale del sistema di potere politico-mafioso e il suo eternarsi.
Vorremmo allora che le nostre coscienze fossero nutrite da adeguati anticorpi di verità per, anche noi, resistere. Sapere i motivi per non doverci voltare dall'altra parte, sapere la verità per dare col voto la nostra fiducia di elettori solo a chi davvero la merita.
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29/07/2012
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