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I nuovi diritti che hanno cambiato il mondo

San Benedetto del Tronto | Grazie alle donne, agli ecologisti, alla scienza si disegna una situazione inedita che rende piu’ ricca la vita umana.

di Tonino Armata

Questa è una convinta e dichiarata apologia dei diritti in un tempo in cui l’allungamento del loro catalogo suscita pure diffidenze, e persino ripulse: perché di loro potrebbe farsi un uso imperialistico, imponendo ad altri una cultura dominante; perché l’irrigidimento di dinamiche sociali nello schema dei diritti potrebbe tradursi in un ostacolo alla libera azione politica; perché non dovrebbe chiudersi in gabbie giuridiche prorompenti esigenze di vita; o perché, al contrario, il riconoscimento di un diritto potrebbe contrastare inviolabili leggi di natura. Ma la realtà, la cronaca d’ogni giorno parla piuttosto di violazioni gravi e continue di diritti, e d’invocazioni dei diritti come strumenti di liberazione individuale e collettiva.

Proprio da qui partono le mie considerazioni apologetiche, temperate dal necessario spirito critico.

Così, un’espressione come “nuovi diritti” dev’essere considerata ad un tempo, accattivante e ambiguo. Ci seduce con una promessa di una dimensione dei diritti sempre capaci di rinnovarsi, di incontrare in ogni momento una realtà in continuo movimento. Al tempo stesso, però, lascia intravedere una contrapposizione tra diritti vecchi e diritti nuovi, come se il tempo dovesse consumare quelli più lontani, lasciando poi il campo libero ad un prodotto più aggiornato e scintillante.

Si parla di “generazioni” dei diritti, e questa terminologia, identica a quella in uso nel mondo dei computer, potrebbe indurre a ritenere che ogni nuova generazione di strumenti condanna all’obsolescenza e all’abbandono definitivo tutte le precedenti. Ma il mondo dei diritti vive d’accumulazione, non di sostituzioni, anche se la storia e l’attualità sono fitte d’esempi che mostrano come programmi deliberati di mortificazione della libertà passino proprio attraverso la contrapposizione tra diverse categorie di diritti.

Se n’enfatizzano alcune, per cancellarne tutte le altre. Le dittature concedono vantaggi materiali e sopprimono diritti vivili e politici, prospettano uno scambio tra qualche “nuovo” diritto sociale e i “vecchi” diritti di libertà: questi sarebbero un insostenibile lusso quando vi sono bisogni elementari da soddisfare. E così i regimi autoritari si trincerano dietro la logica cinica, e disperata che nell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht fa dire a Macie Messer “prima la pancia, poi vien la morale”.

Ai diritti, vecchi o nuovi che siano, non si può dunque guardare senza una continua attenzione per le condizioni storiche che ne condizionano il riconoscimento e l’attuazione. Norberto Bobbio ce lo ha ricordato infinite volte, con parole forti, perché ai diritti si addice il linguaggio della passione civile. “L’attuazione di una maggiore protezione dei diritti dell’uomo è connessa con lo sviluppo globale della civiltà umana. E’ un problema che non può essere isolato sotto pena non dico di non risolverlo, ma neppure di comprenderlo nella sua reale portata. Chi lo isola lo ha già perduto. Non si può porre il problema dei diritti dell’uomo astraendolo dai due grandi problemi del nostro tempo, che sono i problemi della guerra e della miseria, dell’assurdo contrasto tra l’eccesso di potenza che ha creato le condizioni per una guerra sterminatrice e l’eccesso d’impotenza che condanna grandi masse umane alla fame”.

Questa è ancora oggi la condizione nella quale guardiamo ai diritti. La guerra è stata sempre considerata come una situazione che legittima sospensioni di molti diritti. Ma che cosa accade quando la guerra si fa “infinita”? Diventano anche infinite le limitazioni dei diritti? La miseria è stata sempre percepita come l’impedimento maggiore all’effettivo godimento dei diritti.

Ma che cosa accade quando essa non è più intesa come un ostacolo da rimuovere, bensì come la giustificazione della negazione di un diritto (del bambino a non lavorare, del lavoratore a non essere sfruttato) con l’argomento che, altrimenti si colpirebbe la competitività dei paesi in via di sviluppo? Non a caso si è parlato polemicamente di un “imperialismo dei diritti umani”, al quale i paesi avanzati farebbero ricorso proprio per limitare la forza economica dei concorrenti.
Mentre parliamo di nuovi diritti, dobbiamo fare i conti con una contraddizione inedita. Guerra e povertà ci parlano di una consolidamento della negazione dei diritti.

Le pacifiche rivoluzioni di questi anni (delle donne, degli ecologisti, della scienza e della tecnica) ci mettono di fronte ad una fortissima espansione della categoria dei diritti, ad un allungamento del loro catalogo. Come si compongono queste spinte? Quale età dei diritti ci avviamo a vivere?
Il millennio si è aperto con un fatto che può essere considerato simbolico: la proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il primo documento dove diritti vecchi e nuovi convivono senza gerarchie.

Nella Carta non si riflette soltanto la forte tensione che in questi anni ha attribuito ai diritti fondamentali una rilevanza senza precedenti. Si manifesta soprattutto la convinzione dell’impossibilità di una costruzione istituzionale che prescinda dalla dimensione dei diritti. Lo dice con chiarezza la motivazione con la quale l’Unione europea ha deciso di darsi una dichiarazione dei diritti: “La protezione dei diritti fondamentali è un principio fondativo dell’Unione e il presupposto indispensabile della sua legittimità”.

E’ un’affermazione impegnativa. Si dice l’Unione europea non soffre soltanto di un deficit di democrazia, ma addirittura di legittimità, che può essere colmato soltanto da un documento che segni esplicitamente il passaggio da un’Europa fondata soprattutto sul mercato ad una in primo luogo ancorata ai diritti.

Forse bisogna partire proprio da qui, dai modelli d’organizzazione sociale dei diritti, per cogliere le ragioni di dissonanze che, nel tempo, si sono fatte più marcate ed evidenti. Si è via via delineato un modello europeo, reso possibile dalla presenza di un nuovo soggetto storico, la classe operaia, che ha completato la rivoluzione dei diritti realizzata tra ‘700 e ‘800 dalla borghesia, aprendo la strada ad una visione dei diritti che, soprattutto nei rapporti economici, incorporava anche una funzione sociale.

La seconda rottura, altrettanto radicale, è determinata dalle pacifiche rivoluzioni del’900 delle donne, degli ecologisti, della scienza e della tecnica. La libertà concreta s’incarna nella differenza sessuale, nell’attenzione per il corpo, nel rispetto per la biosfera, nell’uso non aggressivo delle innovazioni scientifiche e tecnologiche. Tutto questo ha prodotto la più intensa esplosione di riconoscimento di diritti che mai sia stata conosciuta. Essi coprono tutto l’arco della vita (la nascita, l’esistenza, la morte) e, anzi, si spingono al prima e dopo.

Si parla di un diritto di procreare o di un diritto al figlio; del diritto di nascere e del diritto al non nascere; del diritto di nascere sano e del diritto di avere una famiglia; del diritto all’unicità e del diritto ad un patrimonio genetico non manipolato.

I diritti penetrano anche nelle istituzioni “totali”, (il manicomio, il carcere) e non solo restituiscono almeno un brandello di dignità a chi è costretto a vivere in quei luoghi, ma riconoscono a metterne in discussione l’esistenza. I diritti dei folli scardinano la logica della separazione che giustificava i manicomi, e la predicazione e l’azione dello psichiatra Franco Basaglia, sono all’origine di una legge che ne decreta l’abolizione.

Se si seguono i titoli delle diverse parti della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si può cogliere il filo che li lega tutti: dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia. Sono tutti valori che definiscono la posizione di ciascuno, ma pure la modalità del processo democratico. Il riconoscimento per tutti del diritto di voto libero ed eguale non può fare astrazione dalle condizioni materiali in cui viene esercitato. Istruzione, lavoro, abitazione diventano così precondizioni della partecipazione effettiva dei cittadini, dunque della stessa qualità della democrazia. Ma accanto ai diritti dei singoli compaiono con forza crescente grandi diritti collettivi e, con essi nuovi soggetti ai quali far riferimento.

Qui il catalogo si arricchisce con inediti tratti di novità. Incontriamo i diritti dei popoli all’autodeterminazione, alla loro lingua, alla libera gestione delle loro risorse; il diritto alla tutela dell’ambiente, che richiama la necessità di uno sviluppo sostenibile; il diritto al cibo, che diventa diritto alla vita per intere popolazioni prigioniere del dramma della fame; il diritto alla conoscenza, che mette radicalmente in discussione la logica proprietaria, il copyright e il brevetto, si tratti di assicurare le medicine agli africani malati di Aids o scaricare liberamente musica da internet. Compare il diritto d’ingerenza umanitaria, suscitanto il timore che si tratti di un nuovo travestimento del diritto del più forte. Su tutti si staglia, difficilissimo ma ineluttabile, il diritto alla pace.

Sono diritti fortemente “oppositivi” rispetto all’ordine e alle logiche prevalenti, proiettati verso il futuro e nei quali si coglie una deliberata, ambizione di ridisegnare le coordinate del mondo. Indicando la necessità di creare spazi e beni comuni, ai quali tutti possono liberamente accedere, ponendo il tema delle modalità di distribuzione dei beni: attraverso il mercato o attraverso i diritti? A quali sono riferibili questi diversi diritti? Tornano qui entità astratte e disincarnate: l’umanità, le generazioni future, la natura, il mercato. Ma chi parla in nome dell’umanità e delle generazioni future?

Quale peso dev’essere attribuito alle leggi della natura e del mercato? Dopo che la conquistata concretezza della persona aveva reso immediatamente identificabili gli attori della vicenda dei diritti, si fa concreto il rischio di lasciar spazio a logiche autoritarie, a soggetti i quali si appropriano del potere di rappresentare l’umanità o la natura.

Il riferimento alle generazioni future non è un’invenzione dei tempi nostri. Nella Costituzione francese del 1793 si dice esplicitamente che “Una generazione non ha il potere di assoggettare alle proprie leggi le generazioni future”. Questa limitazione di potere si traduce in una più diretta assunzione di responsabilità verso il futuro nel suggestivo detto degli indiani d’America: “Non abbiamo ricevuto la terra in eredità dai nostri padri, ma in prestito dai nostri nipoti”. (…)

09/01/2005





        
  



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